Abelardo: Il filosofo della città
A Parigi nel 1111 fonda una scuola di logica il maestro Pietro Abelardo. Nato in Bretagna, è stato allievo di Roscellino di Compiègne e Guglielmo di Champeaux. Più tardi Pietro segue per breve tempo le lezioni di teologia del celebre maestro Anselmo di Laon, con il quale è subito in disaccordo giudicandolo “fumoso e oscuro”.
In quei decenni, in Europa e soprattutto in Francia, alcune città, erano divenute sedi di scuole cattedrali nuove per i loro metodi. Il modello della scuola di città – aperto non solo ai futuri monaci ma a ogni tipo di studente – si distingueva dall’insegnamento impartito nei monasteri. Il caso di Parigi non è unico, ma è esemplare. Venne elogiata come la “nuova Atene del Nord”.
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All’interno di questa nuova realtà Abelardo svolge quasi tutto il suo magistero accolto da discepoli entusiasti e devoti, come l’inglese Giovanni di Salisbury e Arnaldo da Brescia. Il suo principale avversario, il monaco Bernardo di Clairvaux, gli rimprovera ben presto di “discutere di filosofia e teologia con chiunque in ogni piazza della città”. La critica è dovuta all’incomprensione del ruolo della logica nella ricerca teologica di Abelardo. Persiste però anche il timore dell’influenza che il suo discorso poteva esercitare su una più ampia udienza di popolo al di fuori della scuola.
Autobiografia: storia di un autore fuori dai ranghi
Per ricostruire la vita anche intellettuale di Abelardo disponiamo della autobiografica Storia delle mie sventure. Fu scritta dal filosofo a poco più di quarant’anni in forma di “lettera a un amico”. Scrivere un’autobiografia è in sé già indicativo di una personalità consapevole che vuole cogliere nelle vicende della propria vita un significato superiore.
La famiglia di Abelardo apparteneva alla piccola nobiltà. Egli secondo la consuetudine avrebbe dovuto seguire la carriera delle armi. Sceglie invece di dedicarsi agli studi filosofici. E’ questo il suo primo atto a favore della ragione e contro la “consuetudine” o tradizione. Atto che nella sua prospettiva etica, come vedremo, rende gli uomini moralmente deboli.
Ma qualcosa del costume familiare rimane nel suo linguaggio. Narrando la sua vita turbolenta Abelardo usa termini e metafore guerriere. Parla di armi della dialettica, racconta di progettare assalti alla scuola del maestro Guglielmo di Champeaux. Construisce dibattiti che assomigliano a conflitti e di porre un vero “assedio” a Parigi, dove vorrebbe giovanissimo già insegnare. Ricorda più volte che la sua vita è stata sempre una battaglia.
Dalla struggente stora d’amore e alla scomunica
A Parigi quasi quarantenne, innamorato e riamato, seduce la sua allieva Eloisa. Lei era una ragazza non ancora ventenne colta e bella, nipote di un canonico importante della città. Da maestro di logica Pietro diventa poeta, componendo canzoni d’amore che i suoi studenti vanno cantando per le vie della città. La storia con Eloisa è sulla bocca di tutti e si trasforma moltopresto in tragedia. La famiglia della donna si sente disonorata e si vendica facendo evirare Abelardo da sicari. Gli amanti disperati si separano rifugiandosi in due monasteri diversi alle porte di Parigi, Saint-Denis e Argenteuil. Quasi venti anni dopo, di nuovo spiritualmente vicini, si scambieranno lettere piene di ricordi struggenti e riflessioni filosofiche.
Subì anche la condanna del concilio di Soissons che aveva colpito il suo primo testo teologico Sulla unità e Trinità di Dio. All’oratorio del Paracleto Abelardo riprende a far lezione di logica e teologia. In quella comunità concorde e operosa trova conforto e nuova energia.
Nel 1136 ritorna a Parigi e vive alla scuola di Sainte-Geneviève i suoi anni intellettualmente forse più intensi. Nel 1139, deve fronteggiare però un nuovo sistematico attacco guidato dal potente abate Bernardo di Clairvaux. L’accusa principale era quella di aver tuilizzato un metodo logico all’interno dei testi teologici profano e pericoloso. Nel 1140 è convocato a Sens un concilio per esaminare e giudicare Abelardo. Le opere di teologia ed etica sono condannate senza una vera discussione. Poco dopo si abbatte sull’autore la scomunica. Abelardo si rifugia nel monastero di Cluny dove muore nel 1142. Fino all’ultimo giorno, ci racconta l’abate di Cluny Pietro il Venerabile, che con generosità e stima lo aveva accolto, Abelardo “aveva continuato a meditare e insegnare”.
La nascita dell’intellettuale laico
Il moderno termine intellettuale si adatta a meraviglia ad Abelardo, consapevole di esercitare un lavoro funzionale al contesto sociale. DI esercitare un impegno che deve essere materialmente retribuito come ogni altro mestiere. Il lavoro “intellettuale” è socialmente e economicamente analogo a quello “manuale” degli artigiani e dei contadini. Abelardo ridotto alla miseria dagli avversari, dice di sé, che è “costretto per sopravvivere a lavorare con la parola e la mente [ossia a insegnare] come altri lavorano con le mani”. Gli allievi della comunità spontanea che si è raccolta attorno a lui lo aiutano fornendogli cibo, abiti e assistenza. Gli consentono in tal modo di essere libero dalle cure materiali e di dedicarsi esclusivamente allo studio e all’insegnamento.
Il primato della logica nel corpus filosofico di Abelardo
La filosofia, per Abelardo, comprendeva tre parti: 1) logica, 2) fisica (o naturale) ed 3) etica (o morale). All’interno del sapere filosofico in questa prospettiva il primato della logica è indiscutibile. La logica, “scienza delle scienze”, è “parte” della filosofia e insieme anche “strumento”. Essa è indispensabile alla costruzione e al controllo della verità di qualsiasi discorso su qualsiasi argomento.
L’indagine di Abelardo si fonda sui testi della logica vetus. Si basa vale a dire sulle traduzioni delle Categorie e del De interpretatione di Aristotele, l’Isagoge di Porfirio e alcuni trattati di Boezio. Egli tuttavia dichiara di conoscere altri testi aristotelici che allora non circolavano nelle scuole. Le opere sono tutte connesse all’insegnamento. La Logica ingredientibus (corso per i principianti) e la Logica nostrorum sono commenti alle analisi dei filosofi sopra citati. Nella Dialectica invece Abelardo si presenta come autore originale.
Il problema degli universali, che i logici di quel tempo privilegiavano sugli altri, rientra per il nostro autore nel più fondamentale problema del significato dei nomi. Abelardo distingue il significato de rebus e da quello de intellectibus. Nel primo significato il nome indica le cose. Nel secondo ci si riferisce al concetto che il nome genera nella mente di chi ascolta.
Abelardo, d’accordo con Aristotele, afferma che le realtà universali non esistono. Si tratta di concetti comuni a più individui e nomi che a questi rimandano. Secondo Abelardo la scienza logica, scientia sermocinalis, ossia scienza del linguaggio, non può essere definita malvagia e pericolosa per la fede. “La scienza viene da Dio e quindi non può essere che bene”: la difesa della logica si rivela così per il maestro la più efficace autodifesa contro i suoi avversari.
Una nuova teologia
Abelardo affronta la teologia, ossia lo studio “delle cose divine”, a trentacinque anni. Espone le sue idee più forti e originali nella Theologia summi boni e nel Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano.
Il metodo adottato da Abelardo per interpretare il Testo Sacro si fonda sulla comprensione dei significati. “E’ ridicolo aver fede in quello che non si capisce o pretendere di insegnarlo agli altri senza aver prima compreso”. La teologia, nella prospettiva di Abelardo, si riferisce dunque agli enunciati del discorso su Dio, non a Dio in sé.
Per Abelardo la struttura della mente umana è per sua natura ancorata ai dati dell’esperienza sensibile. Risulta inadeguata di fronte alle realtà sovrannaturali. Di conseguenza Abelardo non pretende in teologia “di insegnare la verità ma soltanto qualcosa che si avvicini alla verità e non sia contrario alle Sacre Scritture”. Le verità della teologia sono al di là dalla portata del linguaggio umano.
“Nessun vocabolo quando viene applicato a Dio si basa su un reale fondamento. Tutto ciò che viene detto di Lui è quindi avvolto in misteriose similitudini che tentano attraverso analogie di guidarci non a comprendere pienamente, ma solo a intravedere qualche aspetto dell’ineffabile creatore”.
L’analogia e la metafora sono dunque gli strumenti retorici ai quali l’uomo è costretto a ricorrere parlando di Dio.
Per Abelardo le verità cristiane – soprannaturalità e unicità di Dio, creazione e armonia del mondo, immortalità dell’anima – coincidono con le verità della ragione naturale. Queste sono state anticipate e preparate nelle teorie dei filosofi antichi, primo fra tutti Platone, che le hanno affermate “con le parole e le azioni”. È una prospettiva che indebolisce il ruolo storico della rivelazione cristiana.
Etica: intenzione, azione e responsabilità
L’Etica di Abelardo è nota anche con il titolo d’ispirazione socratica Scito te ipsum (Conosci te stesso). Abelardo in questo testo analizza con metodo razionale le definizioni di peccato (o colpa). Isola inoltre con rigore filosofico il criterio del bene morale, prescindendo per gran parte del trattato dai contenuti della legge cristiana.
Il filosofo propone una prima distinzione fra peccato e inclinazione naturale (o “vizio dell’anima”) che lo precede. “Chiamo esclusivamente peccato o colpa l’acconsentire all’inclinazione”. Così ad esempio – osserva – desiderare la donna altrui, “non è colpa se il soggetto non si lascia trascinare da questo desiderio all’azione dell’adulterio”. La distinzione desiderio/peccato è diretta contro la morale ascetica tipica della cultura monastica. Essa al contrario rintracciava il principio della colpa già negli impulsi naturali e inconsapevoli (le cosiddette “tentazioni”).
Peccato e filosofia
Anche l’azione in sé non può definirsi peccato. “L’azione in sé stessa non ha nulla a che vedere con il peccato o colpa” se non è accompagnata dall’intenzione consapevole del soggetto. E’ quest’ultima che conferisce al comportamento un significato negativo o immorale. L’atto all’origine è “moralmente indifferente”. Soltanto l’intenzione dell’agente definisce la colpa come tale.
Un cacciatore per errore ha scambiato un uomo nascosto nel bosco per un cervo e con la sua freccia lo ha colpito a morte. Egli – afferma Abelardo – non è colpevole. Lo è invece un rapinatore che ha premeditato di assassinare la vittima che deruba. Se le azioni si distinguono moralmente in base alla differente intenzione di colui che le compie, solo Dio “capace di vedere dentro il cuore dell’uomo” può valutarle in senso pieno. La giustizia umana è costretta a limitarsi il più delle volte alle apparenze.
La critica non troppo velata al principio di autorità della chiesa
Abelardo nota inoltre che la conformità alla consuetudine e agli usi prevalenti indebolisce (anche se non annulla completamente) la libera presa di coscienza del soggetto. Impigrisce, vale a dire, la volontà che deve invece esser guidata dalla ragione in una scelta responsabile.
La tesi sull’intenzionalità come criterio morale porta Abelardo a sostenere una grave tesi teologica.
“Non si può affermare che i crocifissori di Cristo siano colpevoli dal momento che essi agirono (forse) in buona fede e con l’intenzione di punire Colui, il Cristo, che giudicavano erroneamente un ingannatore”.
Si può ben comprendere, quindi, perché Bernardo e i suoi definissero questa affermazione una “orribile eresia” e un chiaro esempio del pericolo dell’uso della ragione in materia di fede.
Come se non bastasse, nelle ultime pagine dell’Etica, che ci è giunta incompleta, Abelardo denuncia la corruzione che corrode la Chiesa. Vescovi e sacerdoti “bruciano di cupidigia e per ottenere denaro si mostrano molto generosi nell’alleviare le penitenze. Essi non imitano Pietro nella dignità dei meriti ma solo nel potere dell’ufficio”.
Rispetto alla concezione dell’amoe interessante è ciò che emerge dall’epistolario tra Abelardo ed Eloisa.
In esso si confrontano due visioni contrapposte che pure prendono avvio dalla comune formazione impartita dal marstro alla sua alieva. Eloisa apprende da Abelardo infatti che il male risiede nell’intenzione di compierlo. A differenza sua tuttavia Eloisa giudica ogni accadimento della vita significativo per se stesso e non soltanto rispetto al tutto. In questo modo Eloisa riallacciandosi all’idea di amor cortese elaborata nella letteratura poetica del tempo, intende riscatta il suo atto anche da un putno di vista morale.
Ella, riflettendo sulla sua storia d’amore, dichiara in più passi che l’amore ha valore e merito soltanto quando è fondato intenzionalmente sul disinteresse. L’amore è spontanea passione “senza limiti e condizioni”, in grado di donare, come l’amor Dei, energia e ardire a chi ama. Di conseguenza sul piano morale l’amore “vero” non può essere che un amore innocente in forza dell’intenzione positiva che lo anima.
Innocente si confessa anche Eloisa, pur conscia del suo comportamento trasgressivo nella relazione con Abelardo, giudicato colpevole dalla Chiesa e dalla società. Eessa è tuttavia ai suoi stessi occhi innocente perché la sua “intenzione d’amore è pura”. L’amore in sé non può essere che “cosa buona” come tutto ciò che è creato da Dio.
La parentela dei due linguaggi d’amore, il sacro e il profano, è dunque evidente. Proprio per questo il “segreto d’amore” va difeso dalla comprensione volgare e superficiale che svilisce i significati delle parole e dei comportamenti degli innamorati.[/su_spoiler]
Un progetto di pace: il dialogo fra le religioni
La “testimonianza dei filosofi” prepara per Abelardo la possibile convergenza della ragione e della fede. Questo è il progetto principale del testo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano. Già il titolo rivela le intenzione dell’autore. La sua ferma volontà di proporre tolleranza reciproca fra le diverse fedi, si realizzerà mediante il confronto e la ricerca di punti condivisi.
Nell’opera, decisamente originale nel suo impianto, Abelardo mette in scena un dialogo fra un ebreo, un filosofo e un cristiano. Queti sono interessati a discutere fra loro e con l’autore i principi fondamentali delle religioni ebraica e cristiana. Una prima convergenza sta nella comune fede dei tre personaggi in un unico principio divino. Questi è il Dio dell’Antico Testamento per il giudeo. E’ quello del Vangelo per il cristiano. E’ infine il Sommo Bene per il filosofo.
Il giudeo – è invitato dall’autore ad andare “oltre la lettera” del Testo Sacro e ad aprirsi ai significati più “spirituali”, o “intenzioni del cuore”.
L’intolleranza verso altre fedi religiose nasce infatti da una accettazione rigida e letterale del proprio credo. Nasce dal rifiuto di approfondirne i significati “oltre le parole”. Più la fede religiosa si fa filosofica, più si apre alla conciliazione con altre fedi. Questa è la tesi fondamentale che ritorna sovente negli scritti teologici di Abelardo.
La filosofia (ragione) come luogo di mediazione delle diatribe religiose
Il filosofo dichiara fin dall’inizio di “ricercare la verità non con l’aiuto della rivelazione ma attraverso la sola ragione”.
Ma quale ragione? Le idee esposte dal filosofo sono ispirate alla tradizione platonica ben nota ad Abelardo. Nè la metafisica, né l’etica nicomachea di Aristotele erano ancora conosciute. E’ singolare tuttavia che il personaggio del filosofo messo in scena nel Dialogo dichiari di essere musulmano. Abelardo gli attribuisce inoltre una qualità razionale indicandolo come l’ideale del credente aperto al confronto. L’ipotesi oggi più probabile è che l’autore fosse al corrente delle indagini filosofice portate avanti da pensatori arabo-ispanici come Avorroé e Avicenna.
Le caratteristiche evidenti nel terzo personaggio del Dialogo, il cristiano, confermano questa linea teorica. Rivolgendosi al filosofo il cristiano dichiara: “non ti voglio costringere al mio punto di vista ma al contrario mostrarti la comune radice della nostra fede che sta nella sapienza dei nostri antenati”. Il lógos dei filosofi greci è dunque la prima “rivelazione naturale” donata da Dio all’uomo. Essa è la fonte comune delle rivelazioni religiose che si sono susseguite nel tempo della storia (ebraismo, cristianesimo e islam).
Il rapporto con i non-cristiani
Nel XII secolo la presenza ai confini e all’interno stesso della cristianità degli “altri” – ossia gli islamici e gli ebrei – rappresenta una sfida non solo religiosa ma anche culturale. Abelardo intende minimizzare il timore diffuso di “contaggio”. Abelardo sottoline come la rec iproca intolleranza inaridisca soltanto lo spirito della ricerca.
CONCLUSIONI
Abelardo anticipa, più nell’approccio metodologico che nei contenuti il futuro pensiero moderno. Egli reclama il diritto ad accedere alle verità rivelate tramite la ragione. Ad accedere tramite lanalisi diretta del Testo. Immagina una morale delle intenzioni in grado di graziare persino i carnefici di Gesù. E’ l’autore che crede possibile che la ragione possa mettere in dialogo le storiche diatribe tra musulmani, cattolici e ebrei. E’ infine il personaggio umano che si innamora con il corpo e che chiede per questa sua passione non l’assoluzion, ma piena leggittimità
Per tutte queste caratteristi egli fu osteggiato dalle gerarchie eclesiastiche del suo tempo. Contribuì tuttavia a creare le premesse dello scisma protestante. Il suo approccio è già moderno, benché lo spazio nel quale le sue riflessioni si collocano è ancora medievale.
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