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Il barattolo delle idee

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-W%n-Der£and*: Chi crede di essere qualcuno ha già smesso di diventarlo

A distanza di anni ritorno sulla presentazione in funzione della riorganizzazione complessiva che ha raggiunto il blog, uno spazio divenuto sempre più pubblico e meno “intimo” rispetto all’originale “My space” di Windows da cui pure partiva. Vale quindi la pena precisare che questo spazio è stato costruito nell’arco di ormai 15 anni alla data in cui scrivo questa postilla. I rimaneggiamenti sono stati tanti e nel corso degli anni ho trovato modo di inserire vecchio materiale che ha a che fare molto con la mia storia.

Chi sono?

Questa è forse la domanda filosofica per eccellenza. Se ciascuno di noi sapesse rispondere in modo appropriato, avremmo senza dubbio risolto tutti i nostri problemi. Vale però la pena anticipare che non esiste un modo appropriato di rispondere.

Esistono due grandi visioni del mondo: la filantropia e l’egolatria.

In genere i filantropi credono di avere un problema loro e mossi da questa incontestabile noncuranza di sé sono aperti al prossimo e sempre pronti ad aiutarli. I secondi sono invece convinti che il problema siano gli altri e in genere si richiudono nel loro guscio a idolatrare se stessi, i loro pensieri in una perenne critica del reale. I primi, quando si tratta di scegliere un corso di laurea, prediligono Psicologia, gli altri Filosofia. Nessuno di loro però mostra spirito di concretezza. Io ad ogni modo ho optato la per la seconda opzione, ma non ho mai disdegnato la prima.

Ci sono personalità “strane”, vuoi perché indicate tali sin da quando ne hanno memoria, vuoi perché sentono il bisogno di percepirsi distanti dagli altri ad ogni costo. In questo arroccamento imparano nel tempo a costruire un mondo tutto loro, fatto ti tante suggestioni, a volte forti. Riconosco spesso di vivere nel mio mondo, ma nel tempo ho imparato a renderlo spero ospitale, per cui è un mondo nel quale è facile entrare e uscire a proprio piacimento. Negli anni il “mondo” è diventato una “casa” da abitare.

Nello scegliere questo titolo allora pensai al barattolo di vetro utilizzato la pasta madre avviata da poco. Ancorché la sezione “grani antichi e pasta madre” sia nata dopo, avevo già cominciato a panificare. Mi piaceva il rimando al “mondo delle idee” di Platone e lo trovai particolarmente indicato.

Quello con la filosofia fu amore a prima vista. Mi colpi subito la parola il terzo anno di liceo.

Della filosofia si danno mille definizioni, “amore per il sapere”, “scienza del tutto”, “scienza delle scienze”.

Annovero anche in esse la graziosa cantilena che mi sentivo sempre ripetere i primi anni di università.

“La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale si rimane tale e quale”.

La filosofia è la scienza della riflessione. E’ lo studio delle cause e dei principi primi. E’ il punto di inizio di ogni altra scienza. E’ lo sguardo totale sul tutto. E’ infine la possibilità di criticare se stessa e i propri principi. Ogni volta che non si agisce, ma si riflette, si fa filosofia. Quando la scienza riflette sulle proprie condizioni fa filosofia della scienza. Quando il diritto riflette sulle condizioni della validità delle leggi fa filosofia del diritto. Quando l’uomo riflette su se stesso fa Filosofia e basta (senza aggiungerci accanto altro). Ci sono domande filosofiche per eccellenza: “Essere o non essere” la più famosa, per l’appunto.

Tutte le scienze si sono staccate dal capace grembo della filosofia. Questa le conteneva in sé tutte e tutte hanno rinnegato la loro origine. Storcono il naso di fronte alla scienza del tutto.

La filosofia mi ha dato tanto. Mi ha dato però anche l’illusione che riflettere sui problemi sia un modo per affrontarli. Oggi direi piuttosto che elevarli di statura è un modo per anestetizzarli. Mi ha dato una laurea, un dottorato e una predisposizione al tutto. I filosofi vanno sempre al cuore delle cose, alla loro essenza. Finito il dottorato di ricerca in Filosofia con una tesi su Habermas e un approfondimento dei temi del giovane Hegel, avrei dovuto abilitarmi all’insegnamento.

Ma le scuole di abilitazioni restarono chiuse per anni. Io un po’ come l’amante che al novantanovesimo giorno si stanca, al centesimo mi ero già iscritto ad infermieristica. Dalla cura dell’anima, alla cura del corpo. In mezzo ci sono gli anni del volontariato. Cominciai con il fare doposcuola con i bambini di un quartiere disagiato della mia città.

Ero convinto allora che se sapevo insegnare a fare di conto ad un bambino, potessi spiegare anche la metafisica ad un adulto.

Non credo che quei bambini impararono granché da me, ma io imparai un sacco da loro. I bambini sanno essere molto spigolosi e spesso hanno vissuti molto complessi alle spalle. Non puoi avere a che fare con loro se non sai aver a che fare con te stesso, perché tante volte sanno essere schietti e precisi nella loro semplificazione della realtà. Dai bambini ho imparato la pazienza del sapere aspettare. Sono come dei fiori che sbocciano quando dicono loro, ma alla fine se sai prendertene cura lo fanno tutti. Giorni e giorni passati a tentare di farli stare seduti nella sedia, ribelli, provocatori a tratti violenti. Poi noti da un sorriso, una parola, un segno sul foglio che qualcosa è cambiato, che hanno imparato a fidarsi e a credere in loro stessi.

Il caso ha voluto che la mia esperienza cominciata con i bambini si concludesse in un reparto di psichiatria in Romania.

In Romania notai una strana continuità nel disagio e una certa contiguità anche fisica tra la povertà e la malattia mentale. Molte case di riposo, o case famiglia avevano un lato “marcio” dove ammucchiare pazienti psichiatrici. Questo mi colpi molto allora.

La cura del corpo

Il volontariato scorse in parallelo al dottorato di ricerca, che non andò proprio benissimo. Parafrasando le parole di Francis Muriac nella prefazione a “la notte” di Wiesel posso oggi concludere che quella che per me fu allora pietra di inciampo, divento in seguito pietra angolare. Il prendersi cura è stato un pò il filo rosso che ho seguito e riciclarsi come infermiere fu, credo la cosa più naturale.  Gli anni di infermieristica furono più convulsi. Si fa tanto tirocinio negli ospedali. All’inizio sembra tutto un gioco. Il camice, il fonendoscopio, le prime punture. Poi diventa tutto incredibilmente serio. Il disagio, l’ansia, la morte, la cura, le responsabilità, i ritmi frenetici.

Il vantaggio di fare l’infermiere è che il corpo è molto più facile da curare dell’anima e che i ruoli della relazione sono chiari e definiti da un divisa che mi ha sempre protetto dalla emotività forte cui ti espone il paziente. “Divisa” ha anche questo significato del dividere, creare un confine.

Come succede sempre nelle migliori storie d’amore, qualche anno dopo lei ritornò da me.

Le SISSIS riaprirono, cambiarono solo nome TFA. Io ero già al secondo anno di infermieristica. Allora rifiutai di tornare indietro, temo perché fossi stanco di quella che Kundera chiama “insostenibile leggerezza dell’essere”. Avevo allora bisogno di realtà, non di pensiero, di aderire alla concretezza dello stato fisico, chiaro e infondo “rassicurante” nella sua oggettività.

Più in là compresi che non sarebbe stato possibile sanare una scissura senza crearne un’altra e che la sofferenza per il fatto di non diventato un insegnate, non poteva essere riparata smettendo di essere un infermiere. A decidere pian piano è stato il tempo.

La fermentazione

Solo chi ha un lavoro in effetti può coltivare delle passioni “gratuite”, per cui la panificazione è quello che resta della mia esperienza di volontariato. Come vi ho accennato l’apertura del blog coincide con la nascita di una passione che coltivo ancora  adesso a distanza di anni, la panificazione. Dalla passione ho imparato di nuovo che l’ingrediente fondamentale è il tempo. Il bambino che gioca a dadi di cui parlava Eraclito. Il tempo è ciò che è capace di trasformare prodotti indigesti in frutti maturi. Oggi sembro più appassionato di fermentazione che di panificazione in sé, interessato proprio a questa capacità di trasformazione della materia ad opera di microorganismi semplici quanto resilienti come i batteri lattici.

Da questa mia passione pian piano sono nati gruppo facebook, profilo instagram, canale youtube e tutto un complesso mondo social, che definisco “hobby”. Potevo scegliere se aprire un nuovo blog o fare lo sforzo di integrare questa mia passione in questo. E’ nata quindi una sezione “grani antichi e pasta madre” da supporto all’attività svolta principalmente nell’omonimo gruppo facebook.

 Il barattolo delle idee

 Mi sono presto accorto che la metafora del barattolo restava in piedi, anche aggiungendo al cibo per l’anima quello per il corpo. “Nutrire” è un prendersi cura in senso completo e infondo raccogliere la complessità della mia storia. Il barattolo che ho in mente io è trasparente. Gli strati si depositano l’uno sopra l’altro ancora visibili, fino a riempirlo. L’effetto è molto artistico e rappresenta una metafora di quello che è la vita secondo me. Non abbiamo l’esigenza di essere una cosa sola, di portare a termine tutto, di riuscire in tutto. Le nostre esperienze sono là, con i loro successi e i loro fallimenti, i nostri ripensamenti. L’importante è tenere tutto assieme. Non rinnegare nulla. L’importante è non smettere di essere anche quei sentieri interrotti.

Chi sono oggi? Sono un barattolo ancora da riempire.

Del vecchio myspace ho però voluto lasciare l’ultimo titolo che diedi: -W%n-Der£and*, scritto proprio così, oltre che il sotto testo: “Chi crede di essere qualcuno smette di diventarlo”. Continuo a credere che chi crede di essere arrivato al traguardo per così dire smetta per ciò stesso di provare a migliorarsi.

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