Kierkegaard: La grandezza non consiste nell’essere questo o quello ma nell’essere sé stessi; e questo ciascuno lo può, se lo vuole
SØREN AABYE KIERKEGAARD, Aut-Aut.
Kierkegaad si pone nel pieno della polemica idealista. Contrappone perciò alla filosofia dei dotti, una filosofia esistenziale. Una filosofia che valorizza il singolo individuo per ciò che esso è. Senza vale a dire appiattirlo nel l’universale, quale suo momento o movimento di pensiero.
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LA POSSIBILITÀ E L’ANGOSCIA
La categoria del pensare è il necessario. Il possibile al contrario risulta o condizionato dal necessario (e quindi risolto in esso) o nullo (estromesso dal concetto di scienza). L’essere è e non può non essere ebbe a dire Parmenide, enunciando quella che a prima vista pare un’ovvietà. Tuttavia con questa affermazione egli rinuncia all’indagine su ciò che non è, ma avrebbe potuto essere (possibile).
Il punto di vista dell’individuo in carne ed ossa è quello della coscienza individuale. Esso venne introdotto dallo stesso Hegel nella sua Fenomenologia di cui pure Kierkegaard è profondo critico. Quest’ultimo è infatti il punto di vista del possibile, della singola individualità storica che non pensa l’esistenza, ma la vive sulla propria pelle. E’ un errore dal suo punto di vista intrappolare l’individuo nel movimento dell’universale. Nella necessità del puro pensiero. Questo perché la sua condizione originaria è appunto la possibilità.
Per l’individuo singolo tutto è una possibilità. La possibilità risiede nella sua capacità di compiere scelte. Scegliere significa scartare sempre delle altre possibilità, escludere delle alternative tra delle opzioni, essere delle cose e non essere al contempo delle altre. Ogni possibile è anche un possibile-che-non un possibile non essere. Esistono tuttavia delle scelte ordinarie e la scelta originaria la quale ci pone di fronte un aut-aut, scegliere l’essere o il non essere.
La scelta originaria
Per Kierkegaard è la scelta assoluta. Quella che pone come alternativa lo scegliere noi stessi come possibile-che-si o possibile-che-no. La scelta rappresenta in sé una perdita, una rinuncia di qualcosa. Di tutte le cose che avremmo potuto essere, abbiamo scelto di diventare qualcos’altro e smesso di essere in potenza tutto il resto.
Scegliere se stessi tuttavia è la scelta originaria in quanto rappresenta la premessa di ogni scelta e come vedremo la condizione del passaggio dalla vita etica a quella estetica. Potevamo rubare il lavoro del collega e fare carriera. Si poteva scommettere per il crollo di Wall-street e invece abbiamo denunciato gli squali della finanza (quando a nessuno era disposto ad ascoltare. Potevamo vivere di piaceri, alcool donne e vivere alle spalle dei genitori e invece abbiamo scelto il sacrificio del lavoro e la stabilità di una vita di coppia.
Tutte queste scelte sono esempi di scelte che rimandano a qualcosa di più. In quel momento abbiamo scelto infatti se essere noi stessi o altro. La scelta originaria ci pone di fronte alla scelta tra l’essere e il non-essere. L’angoscia è dunque il sentimento che accompagna chi compie scelte radicali. Essa è il sentimento che l’individuo prova di fronte al nulla. La paura dell’ignoto che consiste nel porsi di fronte a ciò di cui non si sa nulla. Consiste nel relazionarsi con l’estremo della propria esistenza: il non-essere. L’opposto dell’essere è infatti il nulla. Abbracciare se stessi come scelta originaria significa porsi come alternative l’essere o il non essere. Significa porsi di fronte a questo nulla, reggerne la vertigine.
L’individuo è dunque pura possibilità, la possibilità si dispiega come scelta, la scelta ci pone di fronte l’angoscia. Questa è la condizione proprio dell’esistenza dunque. Questa è la condizione originaria di ogni nostra scelta fondamentale.
GLI STADI DELL’ESISTENZA
L’esistenza per Kierkegaard è divisibile in tre stadi. Non sono livelli successivi di uno sviluppo, non sono concatenati dialetticamente e non scaturiscono l’uno dall’altro. Gli stati sono salti, sono momenti di apertura al nuovo possibile, fasi di rottura con ciò che è. I salti ci permettono di abbracciare ciò che non era ancora. La vita ci pone davanti delle metamorfosi che scaturiscono da strappi che vanno vissuti e non pensati.
Il primo stadio è quello estetico
L’individuo in questo stadio secondo Kierkegaard tratta la propria vita come fosse un’opera poetica. L’esteta ha un istinto con il quale è in grado di individuare tutto ciò che di interessate gli offre la vita e di rifuggire dal banale. Vive cercando di non ripetersi mai, non distruggendosi nel delirio delle passioni, ma assaporandole e appagandosene. In analogia con la visione già espressa da Schopenhauer il continuo appagamento del desiderio produce però per un verso noia. La vita dell’esteta conclude verso un senso di vuoto, inappagamento e angoscia nei confronti della fugacità del proprio desiderio.
Per Kierkegaard la vita estetica è disperazione. E’ l’ansia di una vita diversa che si prospetta come un’altra vita sempre possibile. L’esteta perciò propriamente non sceglie, non compie fino infondo le biforcazioni, perché non vuole rinunciare a niente. Egli prende e immediatamente butta via, per abbandonarsi di nuovo ad una nuova esperienza. Scegliere come detto significa accettare di rinunciare, prendere una cosa e rifiutare tutte le altre. L’esteta non sa compiere questa scelta. Si ritrae inorridito dall’angoscia che gli procura la scelta, in poche parole sceglie di non scegliere.
L’angoscia è il sentimento che muove l’individuo allo stadio successivo. L’annullamento della propria condizione oggettiva che è poi la premessa della costruzione di qualcosa di nuovo.
Lo stadio etico:
Non appena l’individuo accetta l’idea che per scegliere deve rinunciare a delle alternative. Accetta l’idea che per scegliere sé stesso deve attraversare il fiume del non essere, l’individuo compie la sua sua scelta originaria. Entra nello stadio etico. Quest’ultimo esprime la continuità di uno stile di vita, di chi avendo stabilito delle priorità persegue quelle rinunciando a tutto il resto. Messo di fronte a sé stesso, in questa riflessione che Kierkegaard chiama soggettiva, l’individuo ripercorre la propria vita, scorgendovi in essa anche aspetti dolorosi e crudeli.
E’ il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta. Dalle uscite del sabato sera alle notti insonni a cambiare pannoloni e le sveglie dell’alba per correre a lavoro. L’anima che ha sperimentato il vuoto dell’eterno appagamento immediato del desidero, desidera adesso mettere radici solide e fondare se stessa.
Egli sperimenta così i propri limiti, la propria finitudine, ma la riconosce come aspetto della finitudine più totale che è quella del genere umano. La scelta tuttavia apre ad una strutturale mancanza al peccato. Mentre prima l’individuo era in errore perché non sceglieva, adesso si rende conto che nello scegliere resta comunque privo di qualcosa.
Cosa ci porta ad aiutare gli animali per strada rinunciando a sfamare i barboni? Cosa ci porta a costruire pozzi in Africa, lasciando che magari il nostro vicino di casa muoia di fame? Per quanto possnao essere nobili le scelte che compiamo risulteranno sempre inadeguate, carenti, ingiuste. Neanche la più pura delle azioni pure può sottrarsi alla possibilità del male. Il male infatti è quella stessa possibilità.
Nel compiere scelte e nello scegliere l’individuo viene posto di fronte al “peccato”. Egli realizza così la natura del pentimento che è un riconoscere la propria colpevolezza di fronte a Dio.
Lo stadio etico apre dunque a quello religioso.
La fede subentra alla ragione come paradossalità rispetto alla quale l’individuo prova scandalo. Il male, il peccato, la morte e la finitezza appaiono scandalosi e assurdi proprio perché non concettualizzabili. L’assurdità che si prova di fronte al male sta nell’esperienza che non appena viene concettualizzata viene persa. La fede si inserisce in questo spazio ed è essa stessa uno scandalo. Le scelte di fede sono allora dettate dalla voce di Dio che ci pone di fronte a delle alternative entrambe inaccettabili (ad Abramo viene chiesto di uccidere il proprio figlio).
L’ANGOSCIA
L’esistenza stessa è una possibilità ed è questa la differenza rispetto all’essere (che è di necessità). Ciò che esiste si pone come possibilità assoluta. La scelta originaria come scelta assoluta pone di fronte l’esistente come possibilità, che in quanto possibile che si è anche possibile che non.
Il sentimento di fronte all’ignoto al possibile-che-non della propria esistenza, come non-esistente, come morte è l’angoscia. L’angoscia non è semplice paura, ma è il sentimento paradossale che risponde al paradosso di doversi rapportare a ciò con cui non si condivide nulla, ciò rispetto a cui non si ha nessuna relazione, l’ignoto: ciò che non è ma potrebbe essere. È un sentimento legato a ciò che non è ancora e dunque al futuro.
Delle parole di Gesù di fronte alla morte non colpì l’attenzione del filosofo il “mio Dio perché mi hai abbandonato”, come successe invece per Lutero, ma “quel che devi fare, fallo in fretta!”. Le prime parole esprimono sofferenza per ciò che stava accadendo, la seconda espressione angoscia per ciò che ancora doveva accadere.
L’angoscia è dunque legata al sentimento dell’infinità o dell’onnipotenza del possibile: “Nel possibile, tutto è possibile”. È l’infinità o indeterminatezza delle possibilità che l’angoscia si rende insuperabile e diventa la condizione dell’essere umano.
DISPERAZIONE E FEDE
La disperazione è il sentimento dell’angoscia riferito però non al mondo, ma alla propria interiorità. Esprime la paradossalità della condizione umana, cui l’individuo si rapporta non appena entra in contatto con sé stesso. La possibilità dell’esistente è in questo caso la possibilità del volere.
L’individuo può volere o non volere sé stesso (scelta originaria). Tuttavia, se vuole sé stesso, poiché è infinito risulterà insufficiente a sé stesso, cercherà di rompere il rapporto con sé stesso, urtando però con l’impossibilità di poterlo fare sino infondo. Di fronte a questo paradosso il sentimento è della disperazione, qualunque sia l’alternativa che si sceglie. Questa condizione prettamente umana definisce la malattia morale, non perché conduce alla morte, ma perché è il vivere la morte dell’Io.
L’antidoto sicuro alla disperazione è la fede, proprio perché a Dio tutto è possibile. Quando si tratta di credere giova soltanto questo. Mentre cioè la possibilità nell’uomo, in quanto essere finito, è vissuta come paradosso, questo stesso paradosso se rimesso a Dio, smette di essere vissuto come disperazione. La fede è la condizione affinché l’uomo, pur volendo vivere come uomo e volendo essere sé stesso, non precipiti nella disperazione, ma riconosca la sua dipendenza da Dio. La fede sostituisce la disperazione alla speranza in Dio, ma porta l’uomo fuori dai confini della ragione e di ogni possibile comprensione.
Tutte le categorie della fede sono impensabili, dalla trascendenza, alla trinità e sono motivo di scandalo per la ragione. Impensabile è il peccato con il suo paradosso primordiale. Come può da Dio generare il male se è sommo bene? Perché Dio ha dotato l’uomo di libero arbitrio sapendo che avrebbe scelto il male? La sua scelta è veramente libera se era già nei pensieri di Dio?
L’ATTIMO E LA STORIA:
Per Kierkegaard la storia non è teofonia (manifestazione di Dio come in Hegel). Il rapporto fra uomo e Dio infatti non si verifica nella storia, ma piuttosto nell’attimo, nell’intromissione di Dio nella vita dell’uomo. L’uomo vive la non verità e la conoscenza di questa è il peccato. Si tratta allora di ricreare l’uomo, farlo rinascere per renderlo adatto alla verità che gli viene da fuori.
Dio rimane allora al di là di qualsiasi ricerca umana come differenza assoluta. Questa differenza non può essere neanche pensata, essa è una definizione apparente, che dice soltanto che l’uomo non è Dio, che egli è la non verità, il peccato.
L’attimo è dunque l’inserzione paradossale e incomprensibile dell’eternità nel tempo e realizza il paradosso della venuta di Dio in terra. Questo fatto storico ha testimoni privilegiati, giacché la storicità di Dio si presenta nell’attimo, ogni volta che il singolo uomo riceve il dono della fede.
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Alessio Farina says
Domanda: Potresti spiegarmi meglio perché parliamo proprio di paradosso? Ho cercato nel link che mi hai mandato ma non mi è ancora del tutto chiaro.
michela
Kierkegard è un antidialettico e antihegeliano, per lui i passaggi da uno stadio all’altro sono “salti”, non momenti di un movimento. Il salto etico dal mondo estetico è banalmente frutto della frustrazione o noia. E’ infondo anch’esso un paradosso si ottiene tutto, ma alla fine si resta inappagati.
I passaggi da uno stadio all’altro sono quindi momenti di rottura, di crisi, di inabissamento della ragione che è pero un innalzarsi a Dio. Questo inabissamento ha come lato emotivo l’angoscia, come lato logico il paradosso. Il paradosso è il cortocoircuito della ragione, la contraddizione frutto di un ragionamento corretto, lo scandalo di fronte al quale le certezze dell’individuo cedono. E’ proprio la sconfitta della ragione che apre alla fede. La fede è infatti in grado di accogliere il paradosso ed accettarlo, fa quello che la ragione non riesce. Considera che i paradossi possono essere logici, semantici, pratici. I paradossi dentro cui entra la fede sono pratico-morali. Esempio: L’ordine di Dio ad Abramo di sacrificargli il figlio, come segno di rinnovamento del patto. Ubbidire a Dio, ma uccidere il figlio o non ubbidirgli e salvarlo. In entrambi i casi Abramo pecca, la ragione non ha quindi una soluzione, una scelta da poter compiere (ricorda che il tema della scelta è fondamentale per Kieerkegaard in quanto è ciò che permette all’uomo di operare il salto etico, con la scelta originaria di sé). Ecco che lo scandalo che prova la ragione di fronte al comando di Dio, apre Abramo alla fede. Non gli ubbidisce perché è razionale farlo. La ragione è in tilt per così di dire, gli ubbidisce perché crede in lui.
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