Affinché ci sia un’azione che possa essere definita “umana” deve anche esserci una scelta.
Lo spazio della riflessione pratica sul bene e il male, si apre solo quando è possibile una scelta. Quando cioè con il nostro giudizio possiamo anticipare almeno due ipotesi di comportamento e sceglierne una. La vera sostanza della morale è dunque la scelta. Questa è il lato oggettivo dell’azione e la libertà che è invece il lato soggettivo. Ogni decisione va infatti compiuta in modo autonomo, ovvero, in forza di un’autodeterminazione interna. E’ evidente infatti che nessuna azione può essere considera morale o immorale se sono stato costretto a compierla.
Se fai ciò che hai sempre fatto otterrai ciò che hai sempre ottenuto
A. Robbin
Come già visto in un’altro post, possiamo scegliere di agire perseguendo la felicità o la realizzazione di ciò che è giusto.
Quest’ultima prospettiva può inizialmente non avere appeal su di noi. L’idea di dover direzionare l’azione non sulla ricerca della felicità, ma sulla adesione alla legge della ragione, può sembrarci “fredda” e a tratti “noiosa”. L’obiezione principale che possiamo muovere è che noi non siamo affatto pura legge morale, ma individui in carne ed ossa.
Non ci sarà dunque di alcun giovamento agire in funzione di un’astratta adesione alla norma. Piuttosto sarà utile agire in funzione di aspirazioni e interessi privati. Questi comportano per noi la realizzazione della felicità o almeno il tentativo di raggiungerla. Scegliere di agire moralmente significa allora scegliere noi stessi. Conoscersi è dunque la premessa per realizzare sé stessi, l’imperativo morale non è più quindi il “tu devi”, di kantiana memoria, ma l’antico adagio socratico “conosci te stesso“, che nella sua forma pratica si legge: “Divieni ciò che sei“.
Ma cosa significa essere noi stessi?
E cos’eravamo prima di diventare ciò che siamo? Come si esce dunque da questo gioco di parole? Il poeta e cantautore Francesco De Andrè in Verranno a chiederci del nostro amore scrive:
o resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro
senza chiederti come mai,
continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai
In parole semplici, se non si sceglie per sé, a scegliere per noi saranno gli altri. La non-scelta, l’azione inconsapevole, istintuale, di pancia e così via è in realtà una scelta per interposta persona. Sceglieranno per noi allora le consuetudini, i genitori, i codici morali in voga, i nostri politici, i mass media, i produttori di desideri al consumo e così via. Si andrà a scuola perché così si deve, all’università perché tutti lo fanno. Ci si sposerà perché questa è la strada per essere felici. Faremo figli perché ci si è sposati apposta, si lavorerà per il successo, perché è una cosa buona o magari per lo stipendio, perché è cosa necessaria o peggio ancora per sopravvivenza: resteremo più semplicemente dove un’attimo vale un’altro senza chiederci come mai.
Per utilizzare una bella immagine tratta da un film di Paolo Virzì a fine giornata ci ritroveremo come un Ovo sodo nella pancia che fa su e giù senza né scendere, né salire:
Te l’ho detto, c’ho un coso qui, un magone. Come se avessi mangiato un uovo sodo col guscio e tutto, non va né in giù, né in su. Tutte le mattine, prima di portare Giovanna al nido, e poi andare a lavorare in ospedale, Susy mi accompagna al lavoro in macchina. E tutte le mattine, che piova o ci sia il sole, lei mi dice la stessa identica cosa: “sei sempre più bello”. E io vado a lavorare contento. Chi lo sa, forse sono rincorbellito del tutto, o forse sono felice…a parte quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico…
Saremo divenuti ciò che era “normale” o “naturale”
Siamo divenuti ciò che magari era più semplice, perché nello spazio delle attese altrui, ma non saremo mai stati più lontani dall’essere felici, perché insoddisfatti, mancanti di qualcosa, non presenti a noi stessi.
Ciascuno di noi, come è ovvio che sia, all’inizio si trova “immerso” in un mondo familiare e sociale fatto di regole, convenzioni e abitudini che semplicemente acquisisce e che costituiscono letteralmente il terreno dove poggia i propri piedi, muove i primi passi. Questa dimensione è definita “mondo sociale della vita” ed è preziosa in quanto costituisce la base di partenza solida per una corretta costruzione del sé.
Il momento iniziale della crescita è tuttavia quello in cui subentra il conflitto, la ribellione, la fase dileguante del dubbio ed è un momento tipico dell’adolescenza.
La fase di emancipazione personale è dunque preceduta da un momento critico, nel quale il rifiuto della autorità del “padre”, comporta un misto di angoscia e senso di colpa, commisto a rabbia e onnipotenza. Il sentimento della colpa è il lato soggettivo della norma, che accompagna la condizione di allontanamento dalla stessa e che determina in chi la viola un desiderio di riconciliazione, che avviene dal suo lato attraverso il pentimento.
E’ sempre possibile sostenere che il senso di colpa sia la voce della coscienza che abita in noi, il riflesso della verità interiore, come sosteneva S. Agostino, oppure, possiamo immaginarlo come un derivato sociale e familiare, risultato di forze esterne, che non sempre lavorano in funzione della nostra realizzazione personale. In quest’ultima accezione può essere visto come una sorta di di filo che tira colui o colei che vuole legarci a sé, indurci ad un’azione ovvero dissuaderci dal compierla. La colpa diventa, in altre parole, strumento di manipolazione, che facendo leva sull’interiorità del sentimento, muove le stesse energie dell’interlocutore contro di lui e le azioni che pure desidererebbe compiere.
Colui che detiene l’autorità morale viene cioè riconosciuto dalla comunità come custode delle leggi morali (al plurale)
Possiede, proprio per il suo ruolo, la possibilità di giudicare moralmente le azioni, condannandole o lodandole. Il depositario dei comandamenti, elargisce così sensi di colpa, rimandando a punizioni future, che verranno compiute in un metaforico al di là da venire. Frasi del tipo “un giorno capirai i tuoi errori” o peggio “ti pentirai di quello che stai facendo”, sono tipiche di chi vorrebbe dissuaderci dall’azione non con argomentazioni razionali, ma facendo leva su timori irrazionali indefiniti. Quest’ultimo non rimanda a un concetto di giusto che è stato costruito in interiore homine, ma a delle leggi intangibili, arcaiche, naturali e inviolabili, di cui lui come detto si riconosce il custode.
Da questo punto di vista è interessante osservare come in tedesco “colpa” e “debito” siano indicate dalla stessa parola “Schuld”. Anche in italiano, recitando il padre nostro, se ci facciamo caso, diciamo “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, intendendo con debito, appunto, “colpa”.
Il senso di colpa è infatti un “negativo” nell’equilibrio generale del sistema e ha come sua controparte un “positivo”, che è rappresentato come recita il Padre Nostro dalla remissione dei peccati. Si tratta della dialettica di colpa, pentimento e perdono. Dio rappresenta l’autorità capace di rimettere tutti i debiti, un’infinita somma cui tutto può essere sottratto, ma che sempre somma resta. Nei fatti il perdono viene concesso da colui che può elargire anche colpe, l’autorità morale, che ha quindi da un lato la capacità di creare il problema (la colpa) e la soluzione (il perdono). E’ proprio quest’ultima che ci lega a lui, in quanto lui soltanto possiede la “moneta”, con cui possiamo ripagare i nostri debiti.
L’altro strumento che ha a disposizione, ma che consideriamo sullo stesso piano è l’approvazione, che produce in noi gratificazione, l’inverso della colpa.
Questa è un dono, che, nell’essere concesso, lega e non libera, realizzando anch’esso un debito. Le persone possono sviluppare una vera e propria dipendenza dal senso di gratificazione indotto da altri e questo legame non è meno forte che quello del senso di colpa, anzi più subdolo perché si esprime come apparente rinforzo positivo del sé. Nell’atto in cui ci si allontana da ciò che è scontato fare si potrebbero ricevere in “dono” entrambi il bastone della colpa e la carota dell’elogio.
Chi vuole costruire un Io autentico deve in conclusione prima demolirsi e poi ricostruirsi. In questo passaggio che porre attenzione ad entrambi questi “inciampi”. Scegliere-sé deve voler dire, allora, assumere su di sé le responsabilità delle proprie scelte. Significa centrare sulla propria legge morale (al singolare) i propri criteri d’azione. Vuol dire anche rifiutare al contempo qualunque autorità esterna. Ecco allora che l’affermazione kantiana iniziale, può essere rivalutata. Sarà il senso del dovere infatti a muovere le nostre e non sentimenti collaterali, quali come visto potrebbero essere, senso di colpa e gratificazioni.
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