Il male è qualcosa di profondamente umano. Più precisamente è ciò che rende l’uomo “umano”. Affinché si compia il male è infatti necessaria una scelta e questa è tale solo se, posta una norma, può essere evasa. Degli animali non si dice che siano cattivi, anche quando commettono le peggiori atrocità (fratricidi, incesti, uccisioni della prole, ecc.).
Ciò non dipende dal fatto che gli animali non sono in grado di seguire o meno delle norme, ma dal fatto che vi aderiscono d’istinto, ovvero sulla base di processi che non potremmo definire “scelte”. Più la vita di gruppo, anche presso gli animali, si fa intensa e più abbondano precetti e divieti, oltre che controlli. Pensiamo al complesso “organismo” dell’alveare, del formicaio e così via. Qui però non discuteremo di questo aspetto, quindi della componente sociale della norma e dell’interesse materiale che sta dietro di esso. Di certo però c’è che la morale non esiste in astratto come adesione al bene, ma in concreto come mezzo di sopravvivenza di una comunità e strumento di controllo sociale.
Che cosa è il male?
E’ più interessante dal nostro punto di vista concentrarci sul vecchio tema dello statuto ontologico del male, che deve esistere affinché possa esistere il bene. Questo perché l’atto morale, ovvero ciò che possiamo definire in termini di giusto e sbagliato, può essere tale solo se presupponiamo che esistano in qualche modo il “giusto” e ciò che non lo è, appunto il bene e il male.
Perché non dedurre la morale da visioni utilitaristiche, pragmatiche e logiche? Sono tutte operazioni diversamente tentate nel corso della storia del pensiero occidentale. Si tenta vale a dire di non considerare il bene o il male come “sostanze”, ma come “attributi”. Il bene è quindi ciò che è “utile” (per chi?), ciò che è capace di generare gli effetti desiderati (da chi?), oppure socraticamente un calcolo in vista del meglio oggettivamente possibile (di nuovo per chi?).
Queste impostazioni, comunque prese, a ben vedere scansano la questione ontologica, immettendosi (come tutta la filosofia post-metafisica) nel sentiere descrittivo degli eventi tipicamente umani. Posso dunque spiegare come si possa effettuare una scelta in modo che produca il bene, ma non che cosa (o chi) è il bene.
L’antropologia esistenziale come nuova metafisica
Parlo di “scansare” non superare il problema, perché in effetti la domanda sul “che cosa” è semplicemente insopprimibile e pare costituisca piuttosto l’elemento che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi. L’individuazione della causa prima pareva già ad Aristotele l’unico metodo possibile per rispondere a qualsiasi domanda sul “che cosa” e questo faceva della Metafisica, tra le altre una scienza delle cause prime.
Senza addentrarci troppo a lungo in questo sentiero a noi basterà riflettere sul fatto che probabilmente occorrerebbe solo spostare un attimo la domanda sul “che cosa” e chiederci piuttosto “chi” può porsi questa domanda. Verra fuori appunto che l’unico essere vivente (ente) in grado di porsi la domanda sull’essere è quell’essere vivente che è anche consapevole della sua esistenza (esser-ci). La domanda sull’essere è allora una domanda sull’uomo e il suo peculiare modo di essere nel mondo. L’antropologia esistenziale inaugura il nuovo spazio della metafisica (Heidegger).
A noi basterà, per la nostra discussione, rispondere dunque alla domanda:
Chi desidera il bene
, quando agisce, o cerca il meglio oggettivamente possibile, o l’utile. L’unica risposta possibile sarà allora l’UOMO.
Lo spazio della morale è dunque quello ancora prettamente umano e la domanda sull’origine del male, resta una domanda sulle origini dell’umanità, dacché come detto senza il male, non potrebbe nemmeno esistere il bene e dunque l’uomo. Senza questo spazio umano, non potrebbe esistere né il bene, né il male dunque.
Il percorso della moralità
Nella tradizione greca il male era considerato come un “errore” di calcolo (Socrate). L’uomo agisce sempre in funzione del proprio interesse, ma nel soppesare il “meglio”, non riesce a decidersi nel modo corretto. L’etica socratica è perciò “razionale”.
Dal cristianesimo in poi nasce l’esigenza di una redutio ad unum, un’esigenza né giudaica, né propriamente greca e che nasce piuttosto da una sorta di complesso di inferiorità: c’è un solo Dio e da questo è necessario nascano tutte le cose. In effetti l’esigenza di individuare una causa prima, da cui permettere la scaturigine di tutte le cose è frutto di una peculiare impostazione logica che Aristotele esprime bene nella sua Metafisica. Se la scienza è tale perché indaga le cause, nel gioco di rimandi di causa in causa occorre trovare una causa prima, che causa senza essere causata. Dall’idea di un “primo motore immobile”, difinito da Aristotele appunto come “divinità”, sorge l’idea cristiana dell’unico Dio.
La faccenda si fa controversa allorché occorre occuparsi dell’origine ontologica del male. Il Bene infatti per il cristiano ha uno statuto d’essere (esiste), mentre il male non può esistere indipendentemente dal bene (dualità del principio), ma non può nemmeno derivare dall’unità del principio, a meno di riconoscere che è stato proprio Dio a creare il male.
Le questioni storicamente rilevanti sono quindi:
- in che misura dalla divinità SOMMO BENE può derivare il male,
- come dalla divinità ONNISCENTE E ONNIPOTENTE può scaturire la scelta del male
L’uomo è la possibilità di scelta.
Molti credono quindi che la questione principale del cristianesimo fosse, come detto sopra, non attribuire l’origine del male a Dio, io credo piuttosto che il vero scopo fosse sottrarre all’essenza umana, la sua sostanziale malvagità: se riconoscessimo al male uno statuto ontologico e dunque a Dio la possibilità di creare il male, la sua creazione dovrebbe essere l’uomo.
Al male viene allora negato lo statuto ontologico e collocato nello spazio della scelta. Resta comunque generato dall’attività umana, ma dipende piuttosto dalla dualità della sua natura, che desidera il bene, ma viene tentato dal male: “non ci indurre in tentazione”, diventa allora la preghiera.
Resta però il fatto che se il male deve esistere, allora non deve solo esistere la tentazione, ma anche l’adempimento della stessa, come male realizzato. In altre parole il “peccato” non avendo un suo statuto indipendente dalle azioni umane, deve realizzarsi necessariamente nelle azioni, se deve esistere. Questo è il senso del “peccato originale” voluto da Sant’Agostino: il peccato di finitezza.
L’uomo, anche quando pensa il bene, realizza il male,
perché il male è in sé lo scarto tra l’opera universale delle sue intenzioni e la sua realizzazione particolare. Il peccato è connaturato all’uomo e può solo essere riscattato dalla grazia divina (Spirito Santo). La trinità dunque non soltanto correla le tre figure ripristinando l’unità, ma risolve anche in una circolarità il problema dell’origine e della dissoluzione del male.
Chiariamo brevemente alcuni punti di quanto sovra esposto.
- In Dio non c’è scelta. Da un punto di vista puramente teorico (e quindi al di là della personificazione popolare dell’immagine della divinità) l’ente che ha in sé CUM-PLICATE (Cusano) tutte possibilità non può scegliere, perché non può scartare nessuno dei corni della scelta. Dio è quindi secondo necessità ed eternità.
- La scelta è la dimensione costitutiva dell’essere umano che prima ancora che scegliere questo o quello è chiamato a compiere una “scelta originaria” (Kiekegaard). La sua dimensione costitutiva è quella della possibilità. In questo spazio di finitudine può scegliere se essere questo o quello e quindi sperimenta la sua LIBERTA’. A ben vedere quest’ultima lo distingue infatti sia dal Dio che dall’animale.
- La scelta è rinuncia, la libertà è angoscia. Senza volermi dilungare sul tema basterà qui osservare che se scegliamo su questa o quella cosa siamo per forza costretti a scartare quello che non scegliamo. La scelta è in sé divisiva e luttuosa. Di questo ci accorgiamo quando siamo chiamati a scegliere su cose fondamentali del nostro percorso, non certo per le azioni banali quotidiane. Quando tuttavia siamo chiamati alla nostra scelta originaria il quesito si fa quasi retorico: “ESSERE O NON-ESSERE? Questo il problema”. Insieme alla scelta si dischiude la possibilità dell’è, ma anche del non-è, del nulla, dell’assolutamente altro dal sé, rispetto al quale il sentimento umano è appunto l’angoscia (esistenzialismo).
Riassumendo in Dio non c’è possibilità (male) ,
né libertà, né scelta. Non c’è tuttavia nemmeno differenza, movimento né tempo (uno parmenideo). Il Dio originario non vuole alcunché, è (esiste) soltanto in quanto tutte le cose che gli appartengono. Dio non crea il mondo secondo volontà, ma secondo la sua stessa natura. L’essere trabocca in lui come la luce dal sole.
Il negativo della divinità è l’uomo.
L’uomo in quando possibilità, libertà, finitezza, scelta è dunque il negativo del Dio. Negativo che come detto tornerà al padre graziato dai suoi peccati.
Lascia un commento