Il silenzio e le parole che non ti ho detto. Riflessioni sul Mistico

Il silenzio è una forma di comunicazione che lega a sé l’altro. Può essere una forma di vendetta, può esprimere rancore, può essere l’unico luogo dove rifugiarsi nel caso manchino le parole. Il silenzio è la forma della meditazione, un’arte che eleva lo spirito al di sopra della riflessione, verso la contemplazione. Il silenzio è una forma di equilibrio, la capacità di stare da soli con sé stessi. Il silenzio può essere una tortura quando è subito, una punizione quando è imposto, un’assenza, un vuoto, una privazione. Il silenzio, le parole che non ti ho detto, Riflessioni sull’esistenza.

Le parole che non ti ho detto

Ripescando tra i vecchi documenti mi stupisco io stesso di testi che trovo. Rappresentare per immagini il dolore non è semplice. Probabilmente allora prendevo spunto dai primi studi di filosofi e mi lasciai andare in un dialogo immaginario che io stesso non compresi mentre lo scrivevo. Eppure adesso emerge tutta la complessità dell’argomento che tratto e che vorrei riproporvi nelle forme del concetto per dirla con Hegel, prima di farvi leggere lo scritto.

Per anni mi sono dedicato alla filosofia del linguaggio al rapporto tra le parole e il mondo linguistico che ne viene fuori. Già Wittgenstein scriveva: “I limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio” (Tractatus Logico Philosophicus, p. 5.6, in avanti TLP). In questo limite fissato dalle parole si sperimenta (erleben) l’assenza di significato, il paradosso dell’esistenza che porta al silenzio: “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere (TLP p. 7)”.

Il monito non suona come un divieto, ma come un ostacolo posto dal limite stesso del linguaggio, così da concludere che: “Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto (TLP p. 6.42)”. L’etica e l’estetica (quindi dell’esistenza propriamente umana) diceva Wittgenstein è trascendentale ( cfr. TLP 6.421). L’uomo che ha elaborato un linguaggio formale contraendolo nella famosa formula universale della proposizione (cfr. TLP p. 6.01), è costretto a concludere che se è vero che il “senso del mondo [il mistico] deve essere fuori di esso  [dal mio mondo] (TLP p. 6.41)”,  l’enigma non v’è (cfr. TLP 6.5). Non già nel senso che non ha più ragione di esistere, ma nel senso che si dilegua non appena si prova ad afferrarlo per così dire. Il linguaggio quindi nel pronunciare il senso del mondo lo dissolve.  E’ in questo senso che va intesa la nota proposizione: “La risoluzione del problema si scorge allo sparire di esso (TLP 6.521)”.

La fine della metafisica o un’apertura di senso fuori dal linguaggio?

Questo epitaffio sulla metafisica mi parve da giovane la risoluzione a tutti i problemi esistenziali, che semplicemente andavano sciolti. Bisognava cioè risolvere la costruzione paradossale di vincoli pragmatici per riorganizzare il senso e non già tentare di rispondere alla domanda che non avendo una risposta non può neppure formularsi come domanda: “D’una risposta che non si può formulare , non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta (TLP p. 6.5)”. Stolto non è il cieco, ma colui che si ostina a non vedere. Perché in effetti questa conclusione è per Wittgenstein non già una dissoluzione del problema, come vuole ampia letteratura dopo di lui, quanto piuttosto un capitolare della ragione, intesa come logos e linguaggio formale.

Il senso di questa capitolazione arriva infatti subito dopo:””Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo allora non resta più domanda; e appunto questa è la risposta (TLP 6.52)”. La dissoluzione del problema non è quindi il suo dileguarsi, ma il suo sotterrarsi per così dire, il suo rifugiarsi nelle tenebre del “Mistico” che a questo punto diventa ineffabile: “Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico” (TLP 6.522).

Il linguaggio via d’accesso oltre esso

Il linguaggio è allora una scala cui accedere per essa oltre essa (cfr. TLP p. 6.54). Il senso del mondo dunque, nella capitolazione del linguaggio formale, giunge con la potenza del simbolo che è capace di trascendere il significato concreto della parola, aprendo “in alto” il senso del mondo. Di fronte al caos, che era prima del pensiero e che governa da sempre il mondo, la parola si fa silenzio, come suo limite estremo. Il silenzio è la più potente (nel senso di avere maggiori possibilità di significato) forma di comunicazione. E’ l’ultimo piolo della scala capace di aprire all’infinità dei significati che invece verrebbero tutti castrati dalla parola proferita (pensiero logico). “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere” non è dunque un monito, ma l’unico metodo corretto per accedere al Mistico, che si dischiude fuori dalle proposizioni della scienza naturale:

“Il metodo corretto della filosofia sarebbe proprio questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque proposizioni della scienza naturale […]. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia -, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto“.

In questa luce la misteriosa conclusione della Tractatus acquisterebbe tutto il suo senso potente. La filosofia può dischiudere significati soltanto tacendo e così facendo lasciando che parli per lei il senso del mondo, quello stesso senso che piuttosto scompare una volta illuminato dalla luce del logòs:” Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce tutte insensate,se è asceso per esse – su esse – oltre esse (TLP p. 6.54)”.

Le parole del silenzio

La questione che a questo punto sorge spontanea è:come comprendere l’ineffabile, questo “che cosa” che pare sfuggire ogni volta che pretendiamo di apprenderlo attraverso il pensiero. La domanda andrebbe posta tuttavia nei seguenti termini: “Come è possibile presenziare il mistico?” Imparare a presenziare ha qui il senso di rendere presente innanzitutto a sé stessi dopo averlo esperito, quindi secondariamente di poterlo anche comunicare, ovvero porlo nello spazio intersoggettivo della parola (mitwelt). A questo punto può giungere in soccorso il misticismo orientale, che qui per ragioni di semplificazione non tratterò. Mi limito solo a far notare per ulteriori spunti di riflessione la stretta assonanza tra il monito wittgensteiniano e le parole di Lao-Tzu contenute nel Tao-te-ching: “Il Santo fa ciò che deve fare senza azioni, comunica i suoi insegnamenti senza parole”. Una comunicazione senza azioni né parole pare raccogliere in forma suggestiva l’idea di una sospensione (epoché) largamente espressa da Husserl a fondamento della sua fenomenologia, ma ancora una volta introdotta da Hegel, nella sua di fenomenologia. Pare ad ogni modo che il mistico sia il risultato di un arte che debba essere appresa imitando l’esempio di qualcun altro, non un insieme di proposizioni della scienza naturale per dirla con Wittgenstein.

Le due vie d’accesso al mistico

Il mistico può quindi essere appreso, ma non spiegato (erklären). Accedere ai piani più alti, oltre il proprio mondo, è quindi un esercizio pratico, un vissuto d’esperienza più che il risultato di un processo di comprensione. L’esperienza del mistico è la via dell’illuminazione, che suggerisce un’elevazione verso l’universale appreso come tutto.  In questo senso percorrere la strada all’inverso può voler dire precipitare piuttosto che elevarsi, sprofondare nel buio della notte piuttosto che accedere all’illuminazione. L’unione mistica con l’universale può trasformarsi in una mondanizzazione attraverso la quale il sé non si è dileguato per gradi e per sua stessa scelta, ma si è risolto interamente nel suo mondo (quello poco prima costruito dal suo linguaggio), che è lo stesso che dire che il mondo gli è venuto addosso.

Detto diversamente la porta d’accesso al tutto è la stessa che permette l’incontro con il nulla, perché a guardarle bene le due cose coincidono. L’universale infatti nel suo primo apparire – questa la più grande lezione di Hegel, è “astratto” nel senso di “indeterminato”. Il primo rapporto dell’autocoscienza con l’assoluto posto come l’assoluto altro da sé è allora l’angoscia (vedi la dialettica signoria servitù). L’indeterminato (apéiron), l’assolutamente altro dal sé, dischiude inizialmente la sua voragine e pare voler ingoiare l’Io in un tempo senza tempo, in un vacuo terrore senza fondo. E’ a quel punto che la coscienza saggia indietreggia e quella temeraria si ostina (eigensinn), secondo il movimento tipico della dialettica hegeliana. L’una diviene servo, l’altra signore.

Detto per inciso è sempre Hegel che mostra nella sua Fenomenologia dello Spirito coma la via d’accesso all’assoluto non è quella “all’ingiù”, quella immediata del “terrore senza nome”, ma quella all’insù, mediata dall’intero del processo. Come Dante non può venir fuori dalla “selva selvaggia” semplicemente tornando indietro, ma occorre che guidato da Virgilio risalga tutti i gradi dell’esperito umano, così la coscienza individuale, guidata dal per-noi, dovrà ripercorrere tutte le tappe del cammino dell’umanità per elevarsi al punto di vista dell’universale. 

Recuperiamo a ulteriore sostegno di questa visione del mistico, un passo del testo di Fritjof Capra che in modo brillante scorge una possibile convergenza tra il mondo delle scienze naturali e il mistico nella rivoluzione operata sulla visione del mondo dalla fisica contemporanea:

“Secondo i mistici orientali, l’esperienza mistica diretta della realtà è un evento di grande importanza che scuote nelle persone che la sperimentano le basi stesse della loro concezione del mondo. D.T. Suzuki l’ha definita «l’evento più sorprendente che possa avvenire nella coscienza umana… che sconvolge ogni forma di esperienza codificata», e ha illustrato l’effetto dirompente di questa esperienza con le parole di un maestro Zen che la descrive come «il fondo di un secchio che si sfonda». (Il tao della fisica, Adelphi, p. 62)”.

In questa descrizione dell’avvento del mistico appare chiara tutta la forza dirompente del tutto intuito in un unico atto: l’idea stessa di un “fondo che si sfonda”. Rinunciando alla direzionalità tipica dello spazio logico, in effetti, il movimento di elevazione e quello del precipitare paiono del tutto identici. Le vertigini sono tipiche di chi è salito troppo in alto e guarda da lì l’abisso dischiuso dalle alture.

 

Il filo di Arianna

Comunque stiano le cose resta fermo che il silenzio è l’estremo della parola la cui assenza apre al “senso del mondo”. Rimane comunque il problema del linguaggio che esprime una direzionalità, di un tempo che scorre in una sola direzione, di un concetto che oppone a sé l’altro da sé. Insomma resta il problema di come presenziare a sé stessi questo mistico ancor prima che agli altri. Presenziarsi per assicurare un ritorno al sé, dal movimento dell’alienazione, per dirla con Hegel. Arianna diede a Teseo un gomitolo di lana per poter segnare la strada percorsa nel labirinto e quindi uscirne agevolmente. Chi vuole percorrere quei luoghi, chi voglia calarsi sempre di nuovo nelle acque del dubbio, come può essere certo di risalire? Se il silenzio schiude il senso del mondo che è sopra il mondo come sua trascendenza (o sotto come voragine), come ritornare al mondo senza soffrire dell’urto dello schianto, delle vertigini dell’altura?

Il nostro mondo resta fatto di parole, può quindi sembrare banale dirlo, ma sperimentato il silenzio è alle parole che occorre tornare. A questo punto risulta interessante la distinzione posta da Frege tra senso (sinn) e riferimento/denotazione (bedeutung) (Cfr. G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, Reclam Verlag, Ditzingen, 2019). Per Frege il senso è una struttura di rimando riferita il cui significato è appunto il riferimento (de-nominato, nominato da). Le parole possono quindi diventare senso per altre parole che fanno da riferimento. Questa articolazione di rapporti interni tra le parole costituisce la struttura interna dei miei pensieri e del mio mondo insieme, dacché posso pensare solo il mondo che mi rappresento. Se dico quindi “Mario è un professore di matematica”, il senso della parola “Mario” sarà “l’essere professore di matematica”. Se dico che “Il professore di matematica è colui che insegna a una scuola la matematica” il senso di “professore di matematica” sarà “insegnare a scuola la matematica” e così via.

E’ per questa via che appare evidente il monito wittgensteiniano: i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio. Il senso è una rete di rimandi (riferimenti/de-nominazioni) dove non esiste un centro e una periferia. Si tratta di interconnessioni che possono solo essere prese o una per volta per significare (il mio mondo) o tutte assieme per tacere (il mistico). Va da sé che se il senso di una parola è il suo rimando ad altro, il senso del mondo è la struttura del rimando presa come tale, quella che Heidegger chiama Esser-ci.

Il limite come struttura di rimando

Se i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo, è il limite stesso la struttura di rimando, l’umana presenza capace di testimoniarsi. La soggettività stessa allora presa insieme con il mondo suo proprio costituisce una struttura di rimando (trascendenza), un porsi avanti a sé per così dire. Seguendo sempre l’esempio dell’analisi di Frege posso dire che “Mario è questo qui” indicando stavolta l’individualità in carne ed ossa. Il senso della parola Mario è quindi il “questo qui”, un qualsiasi riferimento nel mondo. Il primo a porre in questi termini la questione fu in realtà Hegel, nella Fenomenologia dello spirito. L’atto della coscienza empirica appena sorta  è proprio quello di indicare gli oggetti, non già di nominarli. Fu quindi Hegel il primo a intuire che questo semplice gesto (l’indicare la cosa) apre un riferimento all’assoluto indeterminato (l’universale astratto), potendosi esso riferire a qualsiasi cosa.

Mentre il nominare quindi chiude il senso del mondo in un insieme di fatti e proposizioni, l’indicare è una struttura di rimando. L’esistenza è quindi testimonianza che indica l’universale. L’indicare diventa la struttura del discorso che vuole pronunciare il silenzio. Il dito di Platone rivolto verso l’alto e la mano di Aristotele che pare domare dal basso nella celebre opera di Raffaello.

 

Un mondo fatto di parole

Tutto questo quando scrissi il testo che segue non lo sapevo. Facevo il mio ingresso all’università di filosofia. Per quanto addestrato già al liceo a quest’arte non avevo nulla dell’apparato concettuale e dell’esperienza individuale che mi permettesse di teorizzare alcunché. Oggi rileggendo questo testo credo sia stato un bene. Quello proposto è un dialogo immaginifico dell’Io con sé stesso in un mondo che ha perso le parole e che si trova smarrito in questa perdita.

 

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