THIAGO E SORAIA | Il RUMORE DEL MARE

“A cosa stai pensando?” chiese Thiago mentre rivolgeva lo sguardo al mare. Lo sciabordio delle onde con quei quattro sassi che fanno avanti e indietro rendeva magico quel silenzio. “Pensavo a quando eravamo felici” rispose infine Soraia, “a quanto a lungo abbiamo camminato solo per allontanarci dalla felicità”.

“Ritorniamo dove eravamo all’inizio allora!” Thiago rispose senza neanche attendere la conclusione della frase, lui la faceva sempre facile. “Ritorniamo al punto di partenza, a quando incontrarsi era un minuto, lasciarsi un eternità. Incontriamoci di nuovo come quella volta in spiaggia, quando restammo a parlare per ore e ore e solo i riflessi della città potevano invidiarci”.

“Allora non sapevamo, per questo è stato possibile incontrarci”, interruppe bruscamente Soraia, dacché ancorché lamentasse i silenzi di Thiago, mai gli dava modo di parlare quelle rare volte che prendeva il coraggio. “Credevamo che l’intimità fosse denudarci. Restammo coperti e tanto poteva bastare. Credevamo che il meglio dovesse ancora arrivare, che se quello era l’inizio il resto sarebbe stato migliore.

Il meglio era tutto lì invece in quell’attesa di cose sperate”.

Era tutto così aulico quando parlava lei, così romanzato e teatrale persino nella posa. Gestiva le pause come stesse recitando una poesia. Le parole stesse facevano uno strano su e giù con il tono al punto che parevano cantate. Thiago era intimorito da quei monologhi, intimorito di rovinarne la bellezza. Era affascinato dal caos che Soraia si portava dentro, dai suoi sbalzi d’umore, le sue strane passioni.

Si ricordava ancora della colletta di quartiere messa su per curare quell’orribile gatta nera spuntata da chissà dove e rimasta oramai con un occhio solo e della gioia quando la vide arrivare con il pancione oramai guarita un annetto dopo. Dove volete che cercasse asilo la gattaccia, a quel punto conciata come capitan uncino, se non dalla sua inguaribile crocerossina? E infatti ci volle un secondo per prendere possesso di quella casa.

Alla fine le proteste per tutto quel proliferare di gatti furono tante e tali che dovette occuparsi lei, che vuol dire lui, della sua sterilizzazione e di dividere i cuccioli tra compagni di lavoro e amici.

Thiago odiava Priscilla, la gatta toccata a loro.

Saliva sempre sul divano quando lui non c’era, ripuliva i piatti direttamente dal tavolo e gli si strusciava sempre addosso ammorbandolo di pelo. Più cercava di allontanarla e più quella gli si avvinghiava, neache glielo facesse apposta. Era viziata come il figlio che non erano riusciti ad avere. Che guaio e che pianti s’era fatta Soraia, caduta in depressione per mesi. Poi era arrivata capitan uncino a darle quella motivazione, nuova.

Lui che aveva sempre odiato gli animali in casa che poteva dire? Restò in silenzio, come le mille volte che veniva consultato. Chi tace non sempre acconsente, questo avrebbe almeno dovuto dirlo. A volte si chiedeva se non fosse stato un bene piuttosto non avere figli, se avrebbe saputo sopportare un marmocchio strillane in casa quando a mala pena riusciva a tollerare la presenza di un gatto – in realtà due, considerando anche Capitan Uncino che andava e veniva quando voleva.

Interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri.

Sapeva che doveva dire qualcosa, ma cosa? Cosa poteva mai rispondere rispetto a quel bellissimo discorso, così denso e ricolmo di metafore? Che odiava i gatti? Che non sopportava la cucina ridotta a un campo di battaglia per l’ennesima ricetta gourmet da provare? Oppure che non sopportava lasciasse sempre i cassetti aperti? Chi non avrebbe provato vergogna a replicare a quel modo dopo un discorso così alto? Tuttavia proprio non le sopportava e lo considerava un suo diritto non farlo. Ma perché le cose importanti dovevano sempre avere a che fare con i massimi sistemi? Perché non si poteva vivere giù con tutti e due i piedi per terra ogni tanto?

Questo avrebbe voluto dire, ma chissà cosa avrebbe capito lei, chissà quanto ci avrebbe ricamato sopra, melodrammatica com’era. Preferiva tacere, tanto poi le passava, qualunque diavoleria l’avesse innervosita.

Il suo mondo era così materico, ordinato, razionale. I problemi sono fatti per avere soluzioni, se non hanno soluzioni sono solo grovigli della mente, inutili perdite di tempo cui conviene neanche dedicar tempo. Sentiva di non centrare nulla con Soraia che invece in quei grovigli si sentiva a casa, che ingarbugliava apposta le cose delle volte. Capiva che le ragioni per la quale era stato tanto attratto da quel vulcano di idee e vitalità erano le stesse che adesso lo respingevano. Si era spento con lei, si era rannicchiato nel divano la sera, per fare spazio alla sua esuberanza. Adesso però la guardava e la verità è che non era valso a granché, anche Soraia aveva perso il suo sole, non era più quella di prima.

Thiago tacque, preferiva la disapprovazione alla sensazione di vergogna che avrebbe provato nel dire cose stupide. Soraia strinse le labbra e si sforzò anche lei di tacere, questa volta.

I silenzi di Thiago.

Il silenzio era la voce di Thiago, una sorta di scudo che lo proteggeva da tutto. Soraia non riusciva a sopportarlo, lo trovava punitivo e non lo lasciava mai cadere troppo lontano dalle sue labbra.

“Ti stai ancora chiedendo cos’è la felicità Thiago?”, sussurro lei, con una voce adesso fattasi dolce. Il fervore nel tono di poco prima aveva centrato il bersaglio. Il silenzio aveva prodotto un senso di vuoto in lei e il mix delle due cose l’aveva subito calmata. Si era abituata a leggere dentro quei silenzi infondo a decifrare gli sguardi e i comportamenti.

Un gabbiano d’improvviso si appoggiò sullo scoglio proprio di fronte a loro, emise un verso che pareva un rimproverò dritto su Thiago.

“Già la felicità…” disse finalmente lui. Strascicò quelle due parole via dalla gola nemmeno si fosse trattato di sputare un sasso. Caddero per terra pesantissime.

Nessuno dei due si voltò a guardare l’altro. Soraia stringeva forte le mani sulla ringhiera. Proprio non riusciva a sopportare quella calma. Quel temperamento cheto che tanto l’aveva consolata e rassicurata. Quello scoglio cui lei si era ancorata con tutta se stessa per non annegare adesso era proprio lì messo di traverso come un inciampo. O quanto avrebbe desiderato una reazione, delle urla forse, delle motivazioni, delle parole, qualche gesto, insomma qualunque cosa che fosse in grado di scuotere quel rapporto giunto al suo tramonto.

Il freddo del metallo le intorpidiva le dita,

si era ripromessa di non riempire quel vuoto di inutili parole, non stavolta. Il mare per lei che c’era nata in quell’isola era vita, era speranza, era forza nuova. Non conosce silenzio chi sa ascoltare il mare, le sue onde e i sassi che vanno e vengono sulla spiaggia.

Pareva lei quel mare, profondo come gli abissi della sua anima, come le corse che faceva senza prendere fiato pur di inseguire la vita. Il mare era come lei, capace di fagocitare tutto, sovrastante e sfuggente al tempo stesso.

Se glielo avessero chiesto qualche anno fa, le sarebbe parso impossibile lasciarlo, tanto erano incollati assieme. Parevano invincibili e capaci di qualsiasi cosa, parevamo ritagliati su misura per incastrarsi come i pezzi di un unico puzzle. E invece erano lì a sospirare, senza nemmeno desiderare che quel momento finisse. Avevano prolungato senza alcuna ragione quell’addio. Lei non aveva sopportato l’idea di essere abbandonata, a lui gli si era fermato il cuore nel vederla piangere a quel modo e insieme si erano convinti che qualcosa si potesse ancora fare. La noia è il primo campanello d’allarme e poi viene la rabbia e infine l’indifferenza.

Lei aveva percorso tutto quel cammino e adesso era pronta? Se lo chiedeva fino a sentir dolore alle falangi per quanto aveva preso a stringere forte quella barra.

Thiago era nervoso, lei lo sapeva.

Aveva conosciuto la sua dolcezza, la sua capacità di prendersi cura, il suo raziocinio incrollabile. Se lo ricordava ancora aiutarla con il trasloco. Ordinare meticolosamente quei pacchi, mentre lei pareva ubriaca tanto era smarrita dopo la morte della madre e la ricezione dello sfratto.

Era lì preciso, caldo e rassicurante. Pratico e materico ragionava sul da farsi. Era lì quando le scriveva il curriculum per un lavoro che non aveva mai fatto, quando l’accompagnava in auto per i colloqui. Sorrideva per i primi soldi che aveva preso a guadagnare. Già allora faceva la badante per le anziane signore. Allora la spaventava tutto. Eppure c’era lui, solida roccia che non temeva le onde del suo mare. Incapace di affondare, nemmeno se lo avesse voluto.

Adesso però le cose erano cambiate lei era cresciuta. Le stesse ragioni che l’avevano legata a lui giunti sin qui la irritavano. L’ostinazione prende il posto della ragione e lentamente l’amore diventa rassegnazione.

La consapevolezza era arrivata invece all’improvviso. I puntini prima sparsi, come schizzi di vernice sul telo nero della sera, si erano allineati ed era emersa chiara la figura. Finalmente vedeva lei e purtroppo vedeva lui. Non poteva cambiarlo, perché mai avrebbe voluto cambiassero lei. Non voleva costringerlo ad essere ciò che non era, perché mai avrebbe voluto avessero costretto lei.

Il passo successivo era la libertà, ancora da venire. Dentro di lei la desiderava e temeva al tempo stesso. La libertà che vince la paura di restare soli, di non potercela fare.

Era ora di andare e lei lo sapeva.

Thiago interruppe quel filo di pensieri, le afferrò il braccio e la guardò dritta negli occhi: “La felicità è un respiro a pieni polmoni quando le correnti dell’anima si sono acquietate. Una casa con dentro le persone che ami”, rispose in modo convinto.

Lei raggelò che nemmeno il ferro di prima avrebbe potuto farle più male.

Era la frase scritta nel bigliettino la prima notte passata nella stessa casa. Lei lo aveva scritto di suo pugno in un pezzo di carta decorato a mano al posto della cartolina. Lui ci aveva riso sopra dopo averlo letto e lo aveva riposto nel suo comò. Aveva quattro spicci allora e di più non aveva potuto permettersi. Gli aveva comprato un portachiavi per la casa appena acquistata. Si trattava di un pupazzetto bizzarro, una sorta di topolino con gli occhi storti che pareva spiritato e che, ancora non lo sapeva, avrebbe fatto la patta con Capitan Uncino in quella bellissima combriccola di matti che era diventata casa sua dopo dieci anni di gestione Soraia.

Non gli era mai riuscito di disfarsene però, come mai si era disfatto di quel bigliettino. Sorrideva ogni volta che lo teneva tra le mani o quando qualche suo cliente lo notava storcendo il naso. Solo lei riusciva a rendere divertente quel suo lavoro noioso come la morte. Delle volte lo tirava fuori apposta quando si era seriamente scocciato delle mille discussioni, l’altro cacciava uno sguardo incredulo e a lui passava la stizza, in modo che potesse continuare la conversazione rientrando nei toni.

Il portachiavi

Adesso stringeva quel topolino stralunato giù nella tasca del jeans forte almeno quanto Sorai stringeva quella barra. Avrebbero voluto abbracciarla, ma poteva? Avrebbe frainteso? Nell’incertezza restò impalato dov’era. “La felicità è una scommessa Soraia, che resta viva finché siamo vivi noi. La felicità è la quiete dell’anima quando respira a grandi boccate l’aria fresca dell’amore. Avremmo dovuto lasciarci tempo fa, quando mi è mancato il coraggio. Quando ti sei prima chiusa in macchina esigendo una spiegazione e poi mi hai chiuso la porta di casa a chiave impedendomi di uscire. Quando sei scoppiata in lacrime senza che trovassi modo di fermarle se non mettendomi a letto con te. Li ho avuto paura per te. Non paura per me, del male che potessi farmi, ma della tua fragilità”.

Thiago a quel punto era inarrestabile, un fiume in piena che sorprese Soraia. “Cosa avrei dovuto fare? Lasciarti subito dopo la notizia che non potevamo avere un figlio? E quando di preciso? Quando eri in clinica? Il mese dopo che sei rimasta buttata nel letto e a stento andavi a lavorare? O quando è arrivato quel maledetto ammasso di pelo con un occhio solo?”.

Soraia a quel punto alzò entrambe le sopracciglia con un misto di costernazione e stupore, ‘ma come mamma gatta che tanto lo adorava, un ammasso di pelo?’ penso tra sé.

“Quand’è il momento giusto?”

Prosegui Thiago che finalmente era riuscito a chiamare quel botolo di lanugine nera con il nome che meritava. “Come avrei potuto lasciarti dopo che finalmente ti eri ripresa? In mezzo a tutte quelle battaglie e pentole, e cibi che poi ero io a dover mangiare?”.

Sembrava un fiume inarrestabile adesso Thiago.

“Tu mi sembravi così fragile Soraia, come la palla di vetro che abbiamo scelto per l’albero l’anno dei mercatini di Natale a Bolzano, ricordi? Invece mi sbagliavo, adesso vedo quanto sei forte, quanto sei invincibile nella tua fragilità e capacità di cambiare pelle. Sei un magma che ribolle, che prende luce soltanto da sé. Niente ti affonda per davvero, affondare e risalire è il tuo modo di vivere, una condizione permanente”. Soraia era incredula, Thiago aveva finalmente gli occhi lucidi “Soraia sono io che perdo oggi, non tu. Io che ho tutto, ma resterò con Capitan Uncino a guardare casa silenziosa e perfetta, ma senza di te”.

Lo guardò finalmente, il pensiero che si sarebbe comunque continuato ad occupare di “Capitan Uncino”, come l’aveva appena chiamata lui, la rassicurò. Stava così in pena per mamma gatta, sapeva che non poteva portarla con sé, non era mai stata addomesticata per davvero. Già l’idea di separarla dalla figlia l’aveva giudicato un atto di incredibile egoismo, tipico degli umani.

Lui finalmente lasciò il martoriato topolino e tirò fuori la mano dalla tasca per toccare uno ad uno le mani di lei ancora incollate al ferro del tramonto. “Ho sopportato Soraia. Ho creduto che amare volesse dire questo, sopportare. Ma alla fine non sono felice io e sopratutto non ho reso felice te”. Prese finalmente un bel respiro tanto aveva corso con le parole sperando di non essere interrotto:

“La felicità è un respiro a pieni polmoni dopo che le correnti dell’anima si sono acquietate, una casa con dentro le persone che ami”.

Si fermò finalmente.

Adesso era pronta

I gabbiani di prima erano volati di colpo, parevano la giusta cornice di quel discorso e Soraia per la prima volta in vita sua taceva.

C’era finalmente riuscito. Aveva cominciato e finito un discorso e le conclusioni erano tanto semplici e lineari. Non l’amava più. Niente retrospezione, niente motivazioni profonde, difetti di educazione o irrequietezza esistenziale o qualsiasi altra cosa fosse venuta in mente a lei mentre inseguiva i suoi ragionamenti.

Soraia taceva. Taceva lei adesso. Erano le parole che aveva bisogno di sentirsi dire e che in un certo senso la sollevavano dalla colpa, dalla possibilità che fosse dipeso da lei o che potesse in qualche modo riparare. Sorrise soltanto, pensò che aveva bisogno dell’approvazione di Thiago anche per lasciarlo e all’idea che sotto sotto voleva bene forse più di lei a mamma gatta. A chi la raccontava la storia dell’ammasso di pelo e poi Capitan Uncino era un nome così carino, le calzava a pennello, sospettosa e burbera com’era.

Prima che la corrente dei pensieri la rapisse e portasse chissà dove, Thiago le tirò entrambe le mani sulla sua spalla e l’abbracciò. Lui lo aveva capito, come aveva capito che doveva fare la sua parte adesso, senza più provare a mettere pezze.

La felicità è un respiro a pieni polmoni

Soraia si sentì d’improvviso leggera, respirò a pieni polmoni proprio come aveva scritto tanti anni prima.

Finalmente aveva capito ed era successo all’improvviso. Finalmente quella coltre di nebbia che non faceva vedere era calata e tutti i pezzi del puzzle s’erano incastrati perfettamente. Thiago non l’amava più, era tutto così semplice. Thiago non l’amava, ma c’era stato un momento in cui l’aveva amata follemente. L’avrebbe aspettata tutto il tempo che serviva a che fosse pronta ad andare. Avrebbe costretto il suo carattere meticoloso alla sopportazione purché fosse certo che nel lasciarla lei sarebbe stata in grado di andare avanti con le sue sole forze.

Si staccò da quell’abbracciò. Prese lentamente fiato. Faceva quasi impressione vederla così riflessiva. Di solito vomitava le cose, con quella voce squillante di quando era palesemente arrabbiata che Thiago proprio non sopportava: “Con te sono riuscita a fare tanto, mi sono formata come operatrice sanitaria, ho trovato un lavoro stabile, però devo crescere. Adesso sento che devo imparare a cavarmela da sola. Se c’è un errore che ho ho fatto è stato appoggiarmi così tanto a te per rendermi indipendente, a fidarmi di me stessa, a credere nelle mie capacità”.

Lo guardò dritto negli occhi, avendo guadagnato la giusta distanza per farlo, in un movimento che sembrava emotivo prima che fisico” e non posso farlo restando sotto la tua ala protettrice – continuo tenendo ferma e solida la voce. Il resto non mi importa, con te sono stata bene per tutto il tempo in cui è stato possibile. Ti sono stata vicina in momenti tanto bui della nostra vita perché ho voluto farlo. Non mi importa di quello che dici, dei fastidi di cui so che non mi parli.

Io c’ero per come ho potuto e saputo e c’eri anche tu. Siamo umani, siamo imperfetti e per me adesso è così bello potersi concedere il lusso di essere imperfetta. Si salvano solo le intenzioni. E quelle erano buone per entrambi. Il resto è andato come doveva”.

Quel discorso usciva direttamente dall’anima, per questo era cosi spiccio ed essenziale, senza i soliti fronzoli. La voce dell’anima quando la si ascolta è chiara e diretta, ma non sempre dice cose piacevoli.

“Adesso sono pronta Thiago, possiamo andare”.

Si voltarono in sincrono, lasciandosi dietro le spalle quel mare che tanto li aveva ascoltati, che giaceva lì in silenzio prima di loro e ben oltre loro, capace di ingoiare tutto e di calmare qualunque animo inquieto.

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