Realtà, verità e consapevolezza di sé

La realtà esiste?

Che la realtà sia una in verità è un presupposto irrinunciabile della ragione (Kant), come l’idea che se c’è un prima deve esserci anche un dopo, se c’è un effetto anche una causa e così via.

Reale (se può valere questo termine) è il nostro modo di organizzare gli eventi e gli oggetti. Non possiamo cioè fare a meno di collocare ciò che è esterno a noi in uno spazio e ciò che ci accade dentro in un tempo (intuizioni pure).

Questi ‘schemi’, tra le altre cose, presuppongono una realtà esterna per la semplice ragione che esiste una realtà interna di cui siamo assolutamente certi (Cogitò ergo sum).

Va da sé tuttavia che di una realtà indipendentemente da noi non sappiamo nulla per definizione se così possiamo dire (ovvero per la semplice ragione che è indipendente da noi). Ciò che realmente sappiamo è che, entro certi limiti, quello che vedo io è la stessa cosa che vede un’altra persona (in qualche caso anche animale), da questo desumo (io) che sia indipendente da entrambi.

L’essere reale della realtà

Ciò che rende reale qualcosa (oggetto, sentimento, utopia, legge, religione ecc.) in definitiva è il fatto che venga condivisa, ovvero, ancora una volta, la convinzione che la realtà che vedo io sia la stessa che vedi tu, ovvero ancora che su di essa possiamo trovare un consenso (Habermas). Questo presuppone che ove non c’è accordo non c’è realtà (psicosi), che è poi la differenza tra un santo che sostiene di sentire la voce di Dio è un pazzo che sostiene di sentire voci e basta. Dal mio punto di vista piuttosto la realtà esiste soltanto perché è capace di contraddirci.

C’è qualcosa fuori di noi perché le cose non vanno come le avevamo preventivate. Se tutto ciò che vogliamo diventasse perciò stesso reale (onnipotenza) noi saremmo quella stessa realtà. Reale allora è la nostra finitezza, la nostra frustrazione, il dolore.

Verità e sofferenza

Ove non c’è capacità di sopportare il dolore, la frustrazione del reale, ove non c’è un limite al senso di onnipotenza dell’io (delirio narcisistico) viene a mancare il principio di realtà (Freud) che è poi la differenza un soggetto sano di mente è uno psicotico. L’empatia non è la compassione come in molti credono. È in realtà il sentire (patia) dentro (en), anche lui un presupposto della ragione. Presupponiamo vale a dire che tra i vari oggetti che incontriamo nel mondo, c’è ne siamo alcuni capaci di stati interni e più precisamente degli stessi stati interni che proviamo noi (Husserl).

Detto in modo semplice ‘riconosciamo’ altri esseri umani come tali, perché gli attribuiamo la capacità di provare vissuti interni, passioni, che in quanto interni in realtà non vediamo mai. La cosa buffa, e qui concludo, è che in realtà l’insieme di tutti questi presupposti non si realizza mai. Non c’è mai un accordo per davvero sul mondo, quello che provo io non è mai quello che provi tu e così via. Da qui in poi partono le diverse posizioni filosofiche del ‘900.

Fra-intendersi sulla realtà

La più interessa per me è quella proposta da Franco La Cecla (antropologo), il quale nella sostanza sostiene che le persone si incontrano nel malinteso. Ciò che è inteso male, non è completamente altro da noi. Non si tratta quindi del noumeno kantiano e del suo paradosso. Il noumeno, l’oggetto in sé e per sé indipendente da noi, dovrebbe corrispondere alla realtà. E’ tuttavia l’esatto opposto, la soggettività pura.

Abbiamo già chiarito infatti come di una realtà in sé e per sé indipendente da noi non avremmo nessuna possibilità di conoscenza proprio perché indipendente. Se una realtà esistesse e queste fosse in sé (esistenza autonoma), ma anche per sé (avere una consapevolezza della propria esistenza), questa realtà non potrebbe essere altro che un’altra coscienza. L’altro da sé allora un’altro soggetto che non può essere incontrato nell’intesa universale (Habermas). Questa infatti a ben vedere eliminerebbe la distanza tra me e l’altro (coincidenza di in sé e per sé).

L’altro si incontra piuttosto nel malinteso, nel fraintendimento come uno spazio intermedio (“fra”) che sussiste in mezzo al mio intendere e quello dell’altro. Esiste una zona di confine che delimita la mia esistenza, le mie convinzioni, i miei “noumeni” interni, come esiste per l’altro. Occupare questa zona di confine, come spazio neutro è l’unico modo per incontrare per davvero l’altro senza sottragli la sua alterità

Il frainteso è lo spazio dove ognuno pensa cose diverse, ma crede che l’altro pensi la stessa cosa che pensa lui.

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