Le sirene di Ulisse. L’incantesimo del desiderio

Avevamo deciso di andare al mare quella mattina di Agosto. Io e lei eravamo tornati assieme da poco. Lei era sempre bellissima ai miei occhi. Il suo corpo mi richiamava come le sirene di Ulisse, seducenti eppure inquietanti al tempo stesso. Un anno era già passato senza di lei, senza che io e lei ci sentissimo.

I suoi silenzi quando ci lasciavamo erano lunghi quanto il suo rancore. Il suo amore era acerbo quanto prematuri i miei patimenti.

In quell’anno avevo cominciato l’Università. Venivo da cicli calanti, ove per calanti intendo angoscianti. Avevo sperimentato già altre volte quella sensazione, chiamata proprio così, “la sensazione”. Non sapendogli dare un nome. Più tardi trovai nel vocabolario dei miei studi di filosofia la parola “angoscia”.

L’inganno delle sirene

Si trattava di uno strano stato di allerta, ansia e al tempo stesso paura, qualcosa mi manteneva adrenalinico e qualche altra mi pietrificava. Alla fine restavo immobile senza né andare avanti , né tornare indietro. Forse solo così potrei descrivervi come stavo. I segnali che stavo per avvitarmi in uno stato depressivo c’erano e tuttavia li trascuravo puntualmente. Cominciavo ad affaccendarmi, fare o strafare, gonfiando fino al limite il mio orgoglio. Le salite vertiginose annunciavano discese scoscese e poi altre risalite di rimbalzo. Le chiamavo “le montagne russe”. Per me non c’era verso di viaggiare su una linea retta, di stabilizzarmi nel mio moto.

Ad ogni modo complice la fine del liceo e l’inizio dell’Università mi ritrovavo in mezzo a questa linea di confine tra il vecchio e il nuovo. Ero riuscito a dominare gli eventi, ad inserirmi in un contesto in modo sufficientemente solido. Ero un maledetto serpente, che strisciava attorno alle difficoltà per scansarle, che si muoveva silenzioso per evitare che qualcuno si accorgesse di lui.

La bella stagione

Come le stagioni si susseguono senza ragione alcune, per il semplice moto della terra, così il mio umore d’un tratto cambiava. La primavera bussava alle porte e io ero un campo pronto a fiorire. Il coro delle sirene mi richiamava per l’ennesima volta

Quell’anno era passato senza che avessi avuto notizie di lei, sapevo per certo che si era concessa all’amore, come me. Che avevamo per qualche aspetto ricominciato. Era stata la prima, ero stato il primo. Non sopportavo l’idea che ci fosse stato qualcun altro assieme a noi.

Lei durante le mie fasi calanti si allontanava. Semplicemente chiudeva i rapporti, mentre io continuavo a ricevere sue notizie indirettamente per mezzo di un’amica comune. Era passato un intero anno. C’eravamo rincontrati in estate,

Quell’estate però fu diversa.

Eravamo stanchi, eravamo cresciuti e troppa acqua aveva corso sotti i ponti.

Partimmo in treno quel giorno, soli io e lei. Seduti uno di fronte all’altra. Era già successo che avessi ceduto alle avance di un’altra persona, che ci fossi finito a letto senza nemmeno sapere chi fosse. Entrambi avevamo perduto l’innocenza del primo incontro, ma fingevamo di non averlo fatto.

Durano poco le finzioni. Una persona sconosciuta di sedette accanto a me. Mi guardò la guardai, mi strofinò il palmo della sua mano, sulla mia. Mi riguardo e andò via. Fui così catturato da quegli sguardi, da quell’amplesso non consumato, da quei preliminari avidi di conseguenze mai verificatesi. Finito quel momento quasi ipnotico, restituirle uno sguardo non fu semplice. Non mi ero saputo trattenere e se ne accorse.

L’incontro con l’amor mancato

Non era successo niente e infondo proprio per questo era successo tutto. Lei non aveva prove, le uniche erano nel mi sguardo smarrito dal dolce suono delle sirene. Si ricompose mentalmente: “Ma com’è possibile, provarci così spudoratamente? Davanti a me poi?”. Non ricordo nemmeno cosa dissi, ricordo soltanto mi balzò dritta allo stomaco la verità che celavo a me stesso. Era finita e non sapevo cosa fare.

Se fossi stato più maturo avrei capito. Non c’era colpa in me. Quel rapporto era semplicemente finito e né io né lei potevamo farci nulla. C’eravamo arresi già prima di ricominciare, lo avevamo fatto più per nostalgia di un’età che sapevamo perduta entrambi che perché avremmo voluto per davvero.

Quel misto di desiderio e coercizione all’autocontrollo mi aveva stordito e smarrito. Scesi dal treno comprammo un pacco di sigarette, le fumai. Poi in spiaggia e via nei vialotti della parte antica del paesino: il lavatoio, le bancarelle di gente assordante, felice, gaudente e il mio senso di vomito.

INCANTENSIMO

Finì presto eppure la giornata fu interminabile, fini con un paio di canzoni nel juke box, in attesa che arrivasse il treno. Il “timido ubriaco” era la canzone dell’anno, ero io, pareva cucita addosso su di me:

Sposa
Domani ti regalerò una rosa
Gelosa d’un compagno non voluto
Temuto
….

... Certo
Perché io non gioco mai a viso aperto
Tremendo il mio rapporto con il sesso
Che fesso

Piango
Paludi di parole fatte fango
Mi muovo come anguilla nella sabbia
Che rabbia

Rido
Facendo del mio riso vile nido
Cercandomi parole dentro al cuore
D’amore

Sul finire della giornata cedetti. Mi ero ripromesso di resistere, di valutare da solo il da farsi. Credevo avesse più senso, piuttosto che lasciarla per l’ennesima volta. Ma nel momento in cui raccolse il mio sguardo, mi chiese qualcosa e risposi “Non so”. Non so per davvero nemmeno cosa mi aveva chiesto, ma capì cosa volevo dire. Scoppio in lacrime e si chiuse in bagno, lì nel mezzo di una stazione semi deserta.

La verità era nell’ambivalenza del coro delle sirene

La verità è che proprio non sapevo, non sapevo cosa mi succedesse, perché il desiderio una volta appagato mi tormentasse così tanto. Esattamene come le sirene attraevano i navigatori per voi divorarli, l’estasi aveva per me i tratti di un precipizio scosceso, di una voragine dentro la quale avevo persino paura di guardare.

La ricorsi di istinto. Pianse in modo scrosciante, quasi a volervi punire. Pianse senza aprire mai quella porta. Era fatta così, si chiudeva a riccio, non accettava vie di mezzo, non faceva lo sforzo di capire e d’altra parte non avrei nemmeno saputo spiegare.

Alla fine si convinse a riaprire la porta. Ricordo solo i suoi occhi verdi come l’oceano infinito che adoravo guardare e dentro il quale inevitabilmente finivo con l’annegare. Ricordo i suoi seni sporgenti e il desiderio che m’avvampava nel vederla in quello stato. Gonfio di lacrime, tremante e seducente al tempo stesso.

La bellezza procace nella sofferenza

C’era qualcosa nel suo dolore che la rendeva procace, fertile, irresistibile. Qualcosa succedeva in lei dopo essersi liberata, qualcosa in me dopo aver dato sfogo al mio malessere. Pareva più un tentativo di metterla alla prova, che un modo per lasciarla. Occorreva probabilmente capire se reggeva l’urto dei miei abissi, avrebbe solo dovuto restare. Dentro me dopo essermi sgonfiato, qualcosa s’acquetava, e lo stato di inquietudine si ridimensionava. Avesse compreso solo questo mi sarebbe bastato.  Avesse avuto mai una volta la pazienza di aspettare, di sopportare. Lei non ci riusciva, spariva nel vuoto degli abissi dai quali prontamente rifuggivo. Navigava oltre la via fantasia, nell’orizzonte dove sparivano le altre sirene.

Tornai a casa e accettai per l’ennesima volta quei silenzi.

Era cominciato nel frattempo l’Autunno e insieme a lui gli impegni l’Universitari. I miei colleghi si ricordavano di me solo nel momento del bisogno, ma non so perché trovavo comunque importante accordarglielo.  Avrei potuto stare sulle mie, ma non lo facevo mai, ne ai tempi del liceo, né adesso all’università. Era uno dei pochi momenti nel quale mi vedevano forse, o mi sopportavano più probabilmente. Fatto sta che Il mio primo esame era andato particolarmente bene e la mia tesina di fine corso indicata dalla docente come modello su cui basarsi. Tutti erano lì a chiedermi, telefonarmi e ascoltare.

Alla fine toccò anche a lei. Lei che aveva sopportato di essere la seconda, con la quale ci eravamo incrociati durante l’ultimo esame l’estate appena terminata. Che si era solo allontanata senza rancore, nel silenzio dignitoso del commiato. Lei che adesso mi chiedeva se potevo dare una occhiata alla sua tesina. L’avrei definita la mia ex, se non fosse che era l’ex di una ex. In quella estrema confusione, fu comunque un ritorno di fiamma.

La mia seconda possibilità: tentato dalle sirene

Era Settembre, ero sfinito, fallito, spento e ancora desideroso di una seconda possibilità. Andammo al porto, facemmo un giro più lungo del normale, comprammo castagne tra battute e sorrisi maliziosi.

Era bella, non era lei, ma aveva un modo di guardare, di fare, di pensare che non riempiva di colpe, di giudizi né tanto meno di silenzi.

 Lei c’era in qualche modo, pronta ad insegnarmi come stare al mondo, come avere a che fare con gli altri ragazzi. Lei c’era quando stavo male e piovevo addosso alle mie ansie e angosce. C’era con una battuta, c’era con un consiglio. Era il contrario speculare della prima. Semplicemente c’era in ogni occasione e non andava via. Non andava via quando “non so”, riempiva i vuoti dei miei silenzi, sopportava senza soffrire dei miei turbamenti. Li prendeva in giro facendosi una risata e strappandomene una.

 Finalmente la conobbi, finalmente la lasciai. La muta che tanto ci aveva messo a completarsi era finita. Lasciai le spoglie di ciò che ero esattamente in quel punto e ricominciai, con una nuova pelle, un nuovo volto e una nuova vita.

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