La testimonianza come luogo della cura

 Durante gli anni del mio volontariato scrissi tra gli altri questo articolo sulla testimonianza che allora decisi di non pubblicare. Mi parve infatti troppo teorica e pressoché inutile per il tipo di contesto dentro il quale si collocava l’attività. Fu uno degli articoli conclusivi la mia esperienza. Di lì a poco avrei abbandonato la missione per rivolgermi all’infermieristica. Avevo concluso che era impossibile aiutare per davvero qualcuno, che il volontariato in realtà appagava solo me stesso. La cura delle persone era una missione irrisolvibile, comunque stessero le cose, per qualunque ragione si fossero ammalate.

Curare il corpo mi parve in confronto semplice, semplice rispetto alle intenzioni e ai risultati. Il malessere fisico chiede guarigione e la cura diventa un atto ovvio e tutto sommato semplice. Ma quando mi prendevo cura di quei bambini cos’ irrequieti, stabilivo con loro alleanze, legami di complicità, chi stavo aiutando per davvero? Me certamente, ma loro? Chi aveva deciso che certi comportamenti fossero migliori di altri? Chi aveva stabilito che il bambino irrequieto incapace di aderire alla regola e interiorizzarla fosse quello storto?

Cura la coerenza del comportamento

Più entri nel mondo della scuola, sopratutto dei primi anni di età e più ti rendi conto che l’obiettivo dell’apprendimento è piuttosto marginale, che il bambino viene premiato o punito non già per le sue capacità o i risultati che ottiene, ma per il suo comportamento. I bambini più disciplinati sono “bravi”, i più irrequieti “terribili” e con questa etichetta andranno camminando tutta la vita finché terribili lo diverranno per davvero. Io, che già allora, ancorché volontario, lavoravo per le istituzioni, contribuivo alla cura o ero parte del sistema che li ammalava?

Queste domande sono oggi più che mai attuali nella mia vita. Mi pare allora di tornare indietro a quegli anni, quando mi ero già arreso. Per questa ragione queste riflessioni tornano oggi attuali. Nell’articolo concludevo che si poteva insegnare qualcosa solo facendosi testimoni della verità che si cercava di insegnare. E’ sempre la vita stessa che in qualche modo cura, come prima aveva ammalta. Cura la testimonianza di una vita diversa. Alla fine la differenza sta tutta lì: sei credibile di fronte all’educando solo se sei un corpo coerente che agisce ciò che crede di poter insegnare. Fosse anche solo perché in te il bambino vede finalmente un modello diverso, fosse solo perché ha imparato a volerti bene alla fine finirà con il provare ad imitarti.

E’ allora che comincia la tua vera responsabilità perché con quell’insegnamento da quel punto in avanti dovrai farci i conti e ne sarai responsabile. 

 

Il testimone e la testimonianza nella missione

l testimone parla il linguaggio universale della divinità. La testimonianza è l’unica forma di comunicazione che offre spazi di significato senza né imporsi come comando, né chiedere in cambio ritorni su ciò che è stato comunicato.
Il testimone vive l’opera in lui in quanto si fa egli stesso opera. Il suo operato ha valore non in quanto al prodotto, ma in quanto la sua azione è testimonianza dell’universale, di un ideale che si incarna in lui e che senza di lui non avrebbe alcuna realtà.
L’azione è il simbolo della divinità realizzata nella sua carnalità. È quello stesso Verbo resosi manifesto come testimonianza, come uomo che vive solo in quanto in lui il verbo dimora e attraverso di lui si esprime come immagine, come simbolo.

Il messaggio della chiesa universale

La chiesa universale non può porre limiti alla comunicazione del suo messaggio, nella comunicazione non può in alcun modo selezionare la sua platea. Essa perciò stesso non può parlare nessuno dei linguaggi umani, perché essi rivelano immediatamente i propri limiti.
La Babele delle mille forme espressive, che è poi segno dei mille significati diversi che diamo al mondo, agli eventi e che chiamiamo cultura, non è in grado di esprimere l’universale. I tempi cambiano e il messaggio dell’universale deve cambiare anch’esso. Non è la parola proferita allora il verbo di Dio, ma quella incarnata nella testimonianza. L’Universale realizzato nella storia, resta identico a se stesso, non nel senso che è il quid che permane nel mutare, ma nel senso che è proprio quel mutare. L’universale è la sua storia, che avviene in tempi e luoghi determinati.

La testimonianza come riscatto dal peccato originario (la particolarità)

Com’è possibile dunque riconoscere il messaggio universale come lo stesso messaggio, se esso cambia in continuazione e in ogni tempo e in ogni luogo si colora di nuove tinte?
Il testimone, coscienza che agisce, si fa carico dell’universale. Lo vede con il cuore e lo rende vero e riconoscibile nei suoi comportamenti che divengono così testimonianza. L’universale emerge dalla storia nei piccoli gesti di misericordia, di sacrificio, di dedizione per l’altro.
La testimonianza non avviene tuttavia con un singolo gesto, non è una parte del corpo, ma l’intero corpo vissuto (Leib) che si fa carico della missione a lui affidata. Nel sacrificio del corpo viene ripetuta, secondo la sua imperfezione, il sacrificio della divinità posta a riscatto dei peccati del mondo. La testimonianza è un dono che non seleziona, che non fa differenze, che non sceglie, ma semplicemente si offre a chiunque voglia raccoglierne il significato.

Il testimone ha la forza di sopportare la contraddizione del suo operare

Al testimone non spetta il martirio, egli non è un dio, ma la forza di sopportare l’essere e farsi parola rivelata. L’azione per sua natura è contraddittoria e il testimone non può eludere la contraddizione che è in essa e dunque in tutti i suoi comportamenti. Egli deve “sporcarsi le mani con il mondo”, perfettamente consapevole che ogni volta che egli cercherà nella sua azione l’universale, troverà la particolarità dei suoi desideri, delle sue inclinazioni e delle sue convinzioni.

Perché dunque il volontariato può solo concepirsi come missione e la missione solo come testimonianza?

L’agire umano è diverso da ogni altro agire. Esso, se è umano, è frutto di una scelta, di precise intenzioni, per farla breve di una volontà. Come mostra Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito, tuttavia, non appena la coscienza prova a realizzare le sue intenzioni (universale) queste si pervertono nel suo contrario (particolare). Questo, a vederlo bene, è lo schema dentro il quale si muove l’intera opera del filosofo idealista

La maledizione della coscienza è che ella può solo fare. E’ il suo fare che la fa sprofondare ogni volta nell’abisso della sua contraddizione. Ogni volta che la coscienza si inabissa risorge come nuova figura in un movimento eterno di nascita e morte che riflette bene il movimento universale della vita, che sacrifica sempre il particolare (le singole individualità) per sopravvivere in quanto vita universale.

Il peccato della coscienza, se così vogliamo chiamarlo, resta allora quello originario di finitudine.

Nemmeno l’atto caritatevole (buono per definizione) può sottrarsi a questa contraddizione. Anche quest’ultimo si rivela, nella sua pretesa di ripristinare un’originaria ingiustizia, profondamente ingiusto. Questo non soltanto e non tanto per la difformità tra azioni e intenzioni (per cui posso sempre pensare del missionario che svolge la sua attività per malcelati interessi non resi manifesti), ma per un limite intrinseco all’azione in quanto tale.

Che diremmo di un Padre che nutre uno solo dei suoi figli ed uno solo ne veste? Che avendo poco cibo a disposizione, sceglie sulla base di un sadico lancio di dadi quale dei suoi figli salvare? Non sarebbe forse egli il più crudele degli uomini e persino sadico nel suo agire? Mentre il missionario si ammanta di misericordia e tutto cosparge della luce della sua divina santità, non si accorge forse che per uno che ne salva, mille ne condanna a morte?

L’ipocrisia dell’anima bella

L’ agire di quella che Hegel chiama “anima bella” allora è ipocrita e la malvagità delle sue azioni proporzionata alla bontà delle intenzioni che si era prefissato. Così per esempio Madre Teresa di Calcutta scrive in quella che può solo apparire una modesta consolazione: “Quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno”. Per quanto grande possa essere la misura della giara con la quale versiamo acqua nell’oceano, l’oceano non ne sarebbe mai sazio. La nostra azione è particolare e non può realizzare l’universale che era nelle intenzioni.

Più in quelle intenzioni pensano l’universale e più grande sarà il loro attrito rispetto all’universale. Ne viene fuori che l’uomo più egoista che dichiaratamente si muove sulla base del proprio interesse è meno sadico e malvagio di chi pretende con il suo fare di salvare il mondo. Questa è grosso modo l’ultima dialettica che Hegel dispiega nella Fenomenologia a proposito del rapporto tra coscienziosità e anima bella.

La tracotanza del pescatore di uomini

L’uomo pieno di misericordia, che agisce in funzione dell’ideale, non solo commette atti di ingiustizia esattamente come tutti gli altri, ma ha in più – così dicono gli altri che giudicano il suo agire, l’arroganza del sentirsi buono. Egli infatti scorge nelle sue azioni solo la perfezione del suo ideale e si rifiuta di vedere l’enorme ingiustizia che commette. Non si ravvede nemmeno di fronte all’evidenza del particolare che realizza. C’è un fare malvagio dietro qualunque gesto di altruismo.

Tutto questo la coscienza agente lo sa e agisce lo stesso perché pensa che fare sia comunque meglio che restare a guardare. Questo è il senso profondo del suo martirio, l’offerta di sacrificio che pone nell’altare dell’universale. Il missionario sa della contraddizione del suo operato, sa che il male che commette è tanto più grande quanto più lo era la bontà delle sue intenzioni e ciò nonostante non può esimersi dal tentativo di salvare il mondo. La tracotanza (hybris) è l’unico vero peccato dell’essere umano. Più sono santi è più in loro è forte il richiamo della divinità, ma anche della superbia del sentirsi tra i più vicini a Dio. Di questa tensione si fa carico il “pescatore di uomini”.

La risoluzione nella testimonianza

La testimonianza tuttavia a guardarla bene non è un’azione particolare, ma non modo d’essere, di vivere con lo spirito tutto (anima e corpo) la santità. Ecco perché l’azione, deve farsi testimonianza e la testimonianza missione di vita. La missione fa infatti l’esatto contrario dell’azione.

Mentre come visto quest’ultima dispiega l’universale nella forma del particolare, la prima raccoglie la molteplicità del particolare in un unico atto che le racchiude tutte. Il missionario viene sempre riconosciuto in qualunque contesto e tempo come vede bene Jovanotti nella sua “Io penso positivo”: “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa. Passando da Malcom X, attraverso Gandhi e San Patrignano, arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano”.

Il movimento contrario nell’altro che accoglie l’atto missionario

Parrà persino ingenuo rammentarlo ma il male è negli occhi di chi lo guarda. Alla fine è così che Hegel risolve la questione sopra posta. Il male non è infatti nell’azione in sé, ma nelle intenzioni, che però non sono mai manifeste. E’ quindi nel giudizio dell’altra coscienza che osserva che avviene la perversione del bene sopra esposta. E’ la coscienziosità, che non si ravvede del fatto che anche il suo giudicare è un atto, che scorge il male laddove l’anima bella credeva di aver posto il bene.

Non continuerò in questa sede per ragioni di sintesi la dialettica coscienziosità anima bella che chiude per altro la Fenomenologia dello Spirito. In questa sede ci interessa solo raccoglierne solo lo spunto di fondo per inquadrare il senso dell’atto missionario.

Il significato della missione

In maniera altrettanto evidente pare dunque che anche il bene sia negli ogni di chi lo guarda. È nella mano che ringrazia, che si scorge dunque la grazia del dono ricevuto. Guardato da questo punto di vista l’atto missionario dunque recupera la sua intenzione non dal lato di chi l’aveva posta nell’atto, ma da quello di chi lo riceve e ne raccogli lo spirito universale in esso celato.

La missione accoglie infatti le diversità delle provenienze, dei credi religiosi, delle convinzioni e delle motivazioni. In essa la diversità vive due volte, nelle motivazioni che spingono alla missione e nel significato che ognuno dà ad essa. In essa può confluire l’atto del credente e quello dell’ateo. Il gesto di carità può essere riconosciuto e accettato dal musulmano, come dall’induista o dal cristiano senza che l’offenda il fatto di averlo ricevuto da un cristiano, un induista o un musulmano.

Il gesto visto al contrario

Il missionario compie il gesto al contrario per così dire. Parte dal particolare della sua azione e realizza l’universale nel cuore dello sconosciuto confortato da quell’amore indisturbato. Ognuno accoglierà dentro se il significato della missione per come lo ha capito e lo restituirà a sua volta nelle sue di azioni. Questo messaggio, che è l’universale realizzato, passerà di mano in mano come avviene con il pane e con il vino durante l’eucarestia, di generazione in generazione da Che Guevara sino a San Patrignano fino ai confini del tempo.

Questo è il senso con il quale accolgo lo spirito della Lega Missionaria Studenti, con il quale io stesso ricevo la missione come dono e la restituisco a mia volta come dono. Per me che vivo la missione, l’azione non è diversa dalla preghiera, ma l’azione stessa è la preghiera.

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