Marlena e la sua canzone: ogni cosa ha un prezzo

Marlena stava a sentire i colori del suo umore, non sapeva soprassedere né restare in quella contraddizione. Era stato il suo primo amore e tuttavia lo aveva tradito. Non si sentiva in colpa anzi, né provava stupore.

Al contrario tutto gli parve per la prima volta naturale. Ma ogni cosa ha un prezzo che al momento opportuno giunge per farsi sentire.

Marlena e la sua canzone

Con lui non fu un bacio che mi travolse e non posso neanche chiamarlo amore, ancorché avrebbe potuto esserlo. Fu l’incontro sfuggente di una notte, la volontà del destino che ci fece incontrare per qualche po’, prima che ognuno di noi riprendesse la sua parte nel mondo. Sono abbastanza certa che nemmeno si ricordi di me, come son certa che ciò nonostante mi ricorderò per sempre di lui.

La notte principiava sulla calura di una giornata estiva. L’arsura raggelava l’anima e la teneva come immota, impassibile, incapace di vere emozioni. Ero uscita da casa per la mia solita chiamata. Il mio amato era dall’altro capo, legato a me da un filo sottile che ci permetteva di ascoltarci, ma non di toccarci per davvero. Quel legame così effimero mi pare adesso la metafora del nostro amore, andato avanti più per un’incapacità di porvi rimedio, che per reale convinzione. Tutto ha un prezzo e noi pagavamo quello di esserci concessi all’amore, prima dell’amore. Pagavamo per aver seminato nel campo sempre fertile della carnalità, i cui frutti tuttavia erano per noi ancora troppo acerbi. Lo avevo così tanto amato e desiderato di quanto adesso mi sentivo distante da lui. Avevo pregato perché ritornasse da me, ma adesso che lo avevo quasi non sapevo cosa farne. Siamo donne infondo semplici e scontanti.

Non ho ricordi chiari di come di svolse quella conversazione al telefono, con lui era un continuo allontanarci e riavvicinarci. Vedevo bene come tutto dentro me stesse per cambiare. Come la linea dell’orizzonte separa il cielo dal mare, quello era il punto in cui le mie due vite, la vecchia e la nuova, si incontravano per allontanarsi via via, una verso le alture del cielo, l’altra verso le profondità del mare. Ed era proprio così che mi sentivo in quel momento, tesa tra il vecchio e il nuovo, senza che sapessi decidere. Tirata da un lembo e dall’altro ancorché non mi persuadessi da che parte stare.

Fu in quel preciso momento che lo incontrai.

Per il giovane sconosciuto fu facile raccogliere ciò che altri avevano seminato, cibarsi come un ospite in casa d’altri. Mentirei a me stessa se non dicessi che quell’ospite fu tanto gradito, quanto atteso nelle mie fantasie, se non confessassi che quell’incontro, per quanto casuale, avvenne dentro un luogo che avevo per lui predisposto. Avevo tante volte detto di no, ma quella si fermo con la sua macchina e alla domanda: “vuoi salire?”, risposi di si. Restò stupito e per un certo po’ imbarazzato quando dissi che quella era la mia prima volta. A quell’ora della notte vicino la stazione chi vuoi che passeggi tutta sola per le strade? Si ricompose in fretta e mi rassicurò quel tanto che mi occorreva.

Era facile discutere con quello sconosciuto, il suo viso era gentile, il suo sorriso familiare e Dio solo sapeva quanto mi portasse lontano dalla monotonia della vita di allora. Come la rondine giunge solo quando è primavera, lasciando sempre dietro di sé la brutta stagione, per cui può sempre dire del suo tempo che è quello giusto, lui arrivava nel bel mezzo della mia anima senza nemmeno intuire la burrasca che lo aveva appena preceduto, né quella che sarebbe giunta dopo.

Sapeva a differenza di me, andare dritto al punto, senza girarci intorno, senza indugiare sul mio corpo. Non c’era tempo per i convenevoli, o forse non ce n’era nemmeno bisogno. Conosceva il mio corpo, come io il suo. Le corde del mio cuore suonarono non perché lo volessi, ma perché stimolate, dalle sue dita sicure. Non vi fu bisogno di pensar nulla, il mio corpo si muoveva in armonia con se stesso. In altri tempi sarei probabilmente stata lapidata, ma adesso mi sarebbero al massimo toccati i commenti maldicenti di chi, non potendo, crede di saperne sempre più degli altri.

L’incontro di una notte è sempre più facile che la vita intera. Si gioca a carte scoperte, ma ognuno per conto suo. Si vince soltanto da entrambe le parti, perché quel gioco è truccato, ma lo si sa già, per cui tutto vale. E così facile lasciarsi andare con gli sconosciuti, quanto trattenerli dopo. Non ho mai capito se avessi potuto innamorarmi, perché di lui non sapevo nulla in quel momento, ancorché i nostri corpi si erano conosciuti prima e meglio degli altri. Per certo c’è che non ne avrei saputo di più, perché non vi fu un dopo. Quello di cui sono persuasa è che non avrebbe potuto funzionare, ma proprio perché lo sapevamo entrambi, funzionò per una notte e finché non giunse l’alba del nuovo giorno.

Quella fu credo la mia linea di orizzonte,

il punto dove non si scende e non si sale, dove si può restare soltanto per un po’, senza che sia urgente comprendere dove andare. Non ho mai realizzato per davvero cosa pagai in pegno quella notte, perché lì per lì mi parse non costare nulla. Eravamo soli io e lui, tornai a casa ancora presa di adrenalina. Non avevo né tempo, né voglia di per dormire, occorreva prepararsi per il giorno, mi parve finire lì. Tutto invece ha un prezzo e i cancelli del mio cuore che si erano così convintamente aperti di moto proprio, d’improvviso si serrarono, senza che nemmeno me ne accorgessi, spaventati mi dissi allora, ma in realtà muti di dolore.

Avrei voluto altro, rincontrarlo, senza un vero obiettivo, senza che sapessi dire né come, né perché sarebbe stato possibile. Mi sentivo una ragazzina, completamente rapita da quei sentimenti che non sapevo, né volevo controllare. Erano sensazioni sconosciute, che muovevano dal basso ventre. Ne sentivo tutta l’urgenza e l’impellenza.

Comprendevo bene che erano loro a dominare sulla ragione e persino sulla mia stessa volontà. Erano tiranne come l’istinto alla vita, incoscienti. Tuttavia più che la vergogna per il desiderio di un corpo che  avevo appena conosciuto, poté la delusione di un telefono che non squillò mai. Il numero ricevuto indietro, come pegno d’amore, era truccato almeno quanto la partita che avevamo giocato. L’amore sa sempre cosa vuole e trova sempre modo di ricomporsi, anche quando negato o tradito. Non potevo fargli cambiare strada, né dargli direzione, potevo solo metterlo a tacere, o per meglio dire, serbarlo ove non avrei udito altro che rumore.

Tutto in quell’incontro s’era messo in ordine,

lasciando dopo ancor più confusione. Non vi fu tempo di tessere le fila, di trarre le corrette conclusioni che pure erano ovvie, quanto le passioni che mi bruciavano dentro, non ne avevo le forze, né probabilmente l’intenzione di farlo. Non mi andava allora di scrutare una per una le parti del mio cuore, per capire cosa vi appartenesse per davvero e cosa andava tolto. Fu molto più facile appianare i dislivelli, riportante le mille note di quella sinfonia a quell’unica nota piatta e continua, che fa rumore, ma equivale al silenzio. Fu più facile chiudere in un cassetto quell’incontro e porre la chiave proprio lì ad un passo da me, in modo da nasconderla pur avendola costantemente davanti agli occhi.

Allora non sapevo cosa sarebbe costato quel gesto. Ritornai alla mia vecchia vita, come se nulla fosse successo. Compresi che l’altro non era in grado di sopportare il peso della verità, che forse avrebbe accettato, ma non capito. Perché confessare quella che ai suoi occhi era per certo una colpa, quando io non andavo in cerca di assoluzione?

Le labbra di un uomo sono dolci come miele, consuete come il giorno e la notte, come il susseguirsi delle stagioni. Fu più facile per me rivolgere il mio sguardo altrove, confondere la delusione per un amore mai nato, con il tormento di una relazione che non sapevo come concludere. Come all’alba del nuovo giorno gli spiriti della notte si dileguano, malcelati dalla luce del sole, le mie passioni non scomparvero, ma badarono bene, da lì in poi, di rendersi manifeste.

Ciò che mi pareva perfetto e compiuto si fece occulto e restò lì nascosto tra le lenzuola sempre troppo calde delle tante notti irrequiete. L’abitudine anestetizza e rende sopportabile ogni cosa. 

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