Lo Streben nella dialettica di Io e Non-Io. Chi ha paura di Fichte?

Fichte non è semplicissimo da capire, ma neanche impossibile. Lo Streben, la tensione continua dell’IO verso il NON-IO rappresenta l’essenza dell’IO stesso. Si tratta dunque di un concetto chiave per capire bene Fichte. Per capire cosa sia lo streben bisogna però cominciare da Kant e dalla Critica della ragion pratica. L’io di cui parliamo e infatti un IO PRATICO, che agisce, fa cose, per intenderci alla buona. Solo in questo modo assume un significato l’espressione “Pone se stesso“. Pone perché materialmente fa. Il suo fare è un fare innato, istintivo, collaterale alla sua stessa natura.

 

ATTENZIONE! QUI PUOI TROVARE UN RIASSUNTO DEL PENSIERO DI FICHTE. 

 

 Se non avete una conoscenza di base dell’autore. Vi consiglio di leggerlo prima di continuare

Dall’IO-devo all’IO assoluto: La ragione è pratica

Ricordiamo solo brevemente che per Kant la volontà deve essere pura pratica. Al contrario di quanto non succedeva in ambito teoretico l’Io ha infatti bisogno di determinare da sé il proprio imperativo categorico: il “tu devi”. Questa è l’essenza della libertà: la capacità di determinare sé i propri principi morali.

 

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In ambito morale poiché la libertà DEVE essere possibile perché posta dall’IO stesso, in quanto volontà pura, (non desiderio) devono altresì essere possibili le tre ipostasi della ragione. L’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e quella di un mondo esterno sono le premesse della libertà umana. Kant riprende quindi, in ambito di ragion pratica, il noto schema già proposto da Cartesio. Anche in questo caso, una volta fondato l’IO come principio autoevidente (la libertà per Kant), si procede alla dimostrazione dell’esistenza di Dio e di un mondo esterno.

Per Kant tuttavia le tre ipostasi della ragione sono poste non dall’IO-Penso (Cogito), ma dalla volontà. Questa è la grande innovazione da cui ha origine l’idealismo trascendentale portato avanti poi da Fichte. Si tratta di principi inconoscibili la cui esistenza più che essere provata è sperimentata, e posta secondo i propri principi. Le ipostasi della ragione sono dunque IDEALI REGOLATORI. Sono vale a dire principi cui TENDERE ancorché di loro non si può dire nulla con certezza. Bisogno dunque agire “COME SE” l’anima fosse immortale, Dio esistesse ed esistesse una realtà esterna oggettiva fuori da noi.

 

Finito e infinito: il concetto di limite

Se dicessi che l’universo è finito voi cosa immaginereste? Provate sul serio ad immaginarlo. Non so… un muro, una linea, un confine che delimiti l’universo… ditemi voi! Dato un confine non è sempre possibile immaginare un “oltre” la linea? Un qualcosa al di là della linea tracciata di cui non sai nulla, ma solo che c’è?
Ecco questo è il rapporto tra finito ed infinito per i filosofi romantici. Non puoi non pensare ad un al di là del confine, perché se poni un confine puoi al tempo stesso sempre superarlo. Il finito rimanda sempre all’infinito.

Quello che si può fare per mantenere un limite senza vederselo spostare “al di là” all’infinito è allora TENDERE ad esso senza però mai raggiungerlo. Solo così puoi mantenere il confine come tale, ovvero, come limite alla propria attività. Come fa Achille con la tartaruga per Zenone, oppure un punto con gli infiniti punti sempre possibili tra un punto e un altro, come fanno gli infiniti poligoni iscritti in un cerchio, l’uomo TENDE alla libertà senza mai ottenerla o raggiungerla.

Rimuovere la differenza tra sè e il NON-IO è infatti il mezzo con il quale l’IO pone la propria libertà o indipendenza assoluta. Questa tensione, questo slancio verso l’aldilà da sé è la struttura fondamentale dell’azione umana. È anche un concetto che Fichte mutua direttamente dall’idealismo trascendentale kantiano.

Che senso ha un limite siffatto? Un ideale regolativo per esprimerci con la terminologia di Kant? Be… nonostante il poligono non diventi mai un cerchio puoi sempre dire che un dodecagono è più vicino al cerchio di un pentagono. Nonostante la libertà volontà umana non realizzerà mai la legge morale che è dentro di lei, gli ideali regolatori permettono di distinguere un’azione migliore di un’altra. Insomma il confine posto come limite ideale serve a stabilire dei criteri effettivi, fattuali

LO STREBEN COME ESSENZA DELL’IO

Bene questo tendere all’ideale è lo STREBEN che in tedesco significa proprio “tendere” o anche “stirare”. Era come visto il modo con il quale la ragion pura pratica TENDEVA alle ipostasi della ragione ovvero la Dio, l’esistenza del mondo e l’immortalità dell’anima.

 

È l’Io pratico che agisce e fa esperienza della legge morale dentro di lui che “vuole” i noumeni. Siamo io e tu coscienze individuali sperimentare l’infinito, non l’Io penso astratto e universale. Non possiamo essere liberi se non operiamo in funzione della legge morale senza che essa presupponga le idee di (Io, Dio e libertà). L’essenza della ragion pura pratica è infatti la legge morale. Il suo essere pura la rende certa e necessaria e da questo deriva la certezza e necessita dei postulati della ragione. L’IO deve agire come se esistesse l’anima, come se esistesse Dio e tendendo alla libertà. Questo “come se” indica la struttura portante dello “streben” fichtiano. Esso è infatti un tendere come ideale senza che però questo ideale venga mai raggiunto.

DALLE IPOSTASI DELLA RAGIONE AL NON-IO

Abbiamo insistito così tanto sulla ragion pratica di Kant perché a ben guardare, fatti salvi i differenti rapporti tra IO e NON-IO concepiti da Fichte, la struttura dello “streben” appena vista resta immutata. l’Io in Fichte ha per sua stessa natura la necessità PRATICA di rimuovere il non-Io. Deve infatti poter eliminare la differenza tra sé è l’altro da sé per poter affermare la propria indipendenza e dunque la propria assoluta libertà.

La libertà resta dunque il tema centrale anche per l’idealismo trascendentale di Fichte. L’io fchtiano e tuttavia un IO ASSOLUTO, ovvero un IO che produce da sé l’opposizione. Nell’atto in cui l’Io afferma la propria identità (IO=IO), scopre infatti la non identità, l’assolutamente altro da sé, il NON-IO. Fichte affermare significa negare il contrario: “Omnia determinatio est negatio”.

Fermi, fermi, fermi che qui diventa complicata la faccenda!

Che vuol dire porre e contrapporre? Che vuol dire che l’Io pone se stesso e contrappone a sé il NON-IO (nello stesso preciso momento)? Facciamo un altro giochino. Se ti dico “buono” sai dirmi qual è l’opposto? Diresti “cattivo” giusto?  Eraclito fu il primo che disse che ogni cosa aveva il suo contrario. Si può sempre immaginare il contrario di qualcosa, esattamente come si può sempre immaginare un al di là dal limite. Ciò per la semplice ragione che il nostro modo di ragionare funziona così: lega sempre gli opposti.

Se ti dico “frandicite” (e bada bene che mi sono appena inventato la parola) puoi sempre pensare a una “non-frandicite”, giusto? Questo senza neanche sapere cos’è la “frandicite”. Se dico “a” puoi sempre pensare ad un “non-a” (qualunque cosa sia “a” intendo). Si dice che è una proprietà interna al concetto legare l’identità alla negazione. Se prescindiamo dal contenuto dunque il concetto è un puro porre e contrapporre. Esattamente questo l’IO ASSOLUTO per Fichte. L’Io è l’atto puro del porre se stesso e negarsi. Perché mai?  Già Socrate diceva “Conosci te stesso”. L’obiettivo del’IO resta allora quello di guadagnare l’identità di soggetto e oggetto. Avere come oggetto sé stesso dunque (IO=IO).

 

Appena l’IO pensa se stesso (si pone) esattamente come succedeva per “frandicite” pone un opposto da sé di cui non sa assolutamente nulla, come assolutamente nulla sai della misteriosa “frandicite”. Sa solo che c’è e che la sua sola presenza nega l’identità assoluta dell’Io con sé stesso.  Esattamente come poni un al di là dal confine senza sapere nulla di ciò che ci sia e come poni una non-frandicite senza sapere nemmeno cosa significhi la parola, posto l’Io poni un NON-IO, un Noumeno, una Realtà che sia altro da te, una res extensa insomma chiamala come vuoi l’importante è che ci capiamo. Fichte spiega così l’esigenza di pensare il noumeno come STREBEN, tensione.

Qui però arrivano i guai!

Abbiamo detto che l’Io nel porre la propria identità pone con ciò stesso la differenza. Esattamente come quando posto un oggetto su di un piano s’è posta una differenza tra lo spazio occupato dall’oggetto (IO) e tutto lo spazio esterno (NON-IO), l’IO crea il NON-IO. Egli crea da sé la differenza che è chiamata a superare. Insomma se la canta e se la suona. Capite la maledizione dell’Io. Non può fare a meno di porre la differenza e non può fare a meno di tentare di superarla per essere libera.

Che succede posto il NON-IO? Si dice che l’IO deve RIMUOVERE la differenza tra sè e il NON-IO APPROPRIANDOSI del NON-IO. Come? Conoscendolo, desiderandolo, consumandolo. L’IO è un IO pratico ricordiamolo. Non conosce, ma vuole. Vuole la libertà perché questa è la sua intima essenza? La nostra vita non è forse una ricerca continua dell’amore, della libertà o del sesso sfrenato. Qualunque cosa si voglia, non è forse che: “Volli, sempre volli, infinitamente volli”

Bene l’IO tende al NON-Io come l’amante tende all’oggetto d’amore, come una tensione infinita, una promessa mancata, una tensione eterna e senza fine. Perché? Perché chi nasce tondo non può morire quadrato.

 Il poligono per quanti lati possa avere non sarà mai un cerchio. L’IO per quanto abbia posto il NON-IO non colmerà mai la differenza tra sé e l’altro da sé. Questa è la tragedia umana, questo è l’atto del porre e contrapporre.

 

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