La rabbia è un sentimento indefinito esattamente come l’angoscia e la noia. Nasce dall’incapacità di stare a contatto con se stessi e in alcuni casi dalla precisa volontà di non lasciarsi mai andare per davvero. Chi non sa vivere le proprie emozioni e le rifiuta dentro di sé, finisce per abitare come uno straniero in terra natia. L’effetto è riempirsi di relazioni, che però sono vuote incapaci di significare. Il risultato finale è la solitudine.
“Perché non vieni con me?” chiesi fingendo distrazione. “Non mi fanno andare” la risposta piena di rabbia. Compresi in quel momento che, se pure quella rabbia l’aveva sin lì protetta dal precipizio che gli si prefigurava davanti, allor quando il volto dell’altro non era in grado di riflettergli il suo, la sua totale incapacità di sopportare il dolore gli impediva qualsiasi movimento.
Restava sempre troppo vicina alla catena dei suoi pensieri. In quel macchinare continuo individuava puntualmente responsabili da condannare e quando aveva finito sfidava la sorte lasciando muovere in lei collera cieca, che non era capace di direzionare in alcun modo. Solo dopo aver finito in una sorta di autoerotismo di cui si vergognava profondamente, precipitava in uno stato di angoscia insopportabile. Si rifugiava allora nella pozzanghera dei suoi pensieri, nei quali mi era impossibile entrare. Gli stessi che la facevano tanto arrabbiare in un movimento senza posa. L’illusione era quella di andare, nella realtà era un ritornare in quegli stessi posti che voleva evitare.
Non c’era spazio per lasciarsi andare, per la tenerezza, per l’amore, che avrebbe dovuto concedere a lei ancor prima che a me. In lei non c’era alcuna possibilità di redenzione, perché temeva la colpa ancor più che la condanna. Le emozioni avevano un solo colore. Il rosso del fuoco come il drappo sventolato dal torero la accecavano di rabbia. Come una diga che straripa solo quando è troppo piena le emozioni non scorrevano in lei, ma venivano trattenute da cinte invincibili, da righe sempre troppo squadrate, dalle linee rette dei suoi schemi mentali con i quali pretendeva sempre di anticipare la realtà.
Era di quelle che da bambina camminava facendo attenzione a stare dentro i quadrati, angosciata dall’idea di piacere. Tutto doveva sempre essere perfetto, calcolato in anticipo, ordinato, controllato. Ma le persone non si possono controllare. Il costo del controllo è l’assenza di relazioni autentiche e infine la solitudine del cuore.
In questo sforzo immenso che faceva per “trattenere” pareva nutrita da sensi di colpa, indeterminazione e poca stima di sé. Le emozioni dovevano pure loro essere ordinate, incasellate ognuna al suo posto. Di fatto non scorrevano, ma straripavano fuori da lei, trovando da sole la loro strada. Per paradosso era la sua esigenza di controllare tutto che le impediva di controllare se stessa quando andava in crisi.
Solo io la vedevo bella in quel momento di estrema fragilità. Se solo in quelle mura invincibili di rancore avesse trovato una crepa, se anche per un solo istante avesse riconosciuto che c’era una parte di lei che non andava, allora ci sarebbe stata possibilità del cambiamento. Invece continuava a sperperare le sue energie in quel movimento vuoto di isteria e disperazione, in quell’altalena che va su e giù, senza che mai si muova dal punto al quale è fissata.
“Perché non vieni con me?” chiesi fingendo distrazione. “Perché non conosco la strada”, avrei voluto sentirmi rispondere. Gli avrei detto che non la conoscevo nemmeno io, che la strada era sotto i suoi piedi ovunque avesse scelto di andare, che il sentiero irto di ostacoli era un cammino lungo e faticoso fatto di singoli passi. Gli avrei detto che nessuno conosce la strada per davvero, perché il futuro è da scoprire, ma che ciò nonostante era arrivato il momento di andare.
Non aggiunsi altro. La guardai per l’ultima volta, sospirando come si fa di fronte alle cose perdute per sempre. La cura non implica mai la guarigione, ma la fedeltà e questo è un concetto che io stesso non ho mai voluto far mio per davvero.
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