Emozioni e razionalità: la metafisica nella materia

Le emozioni sono degli “stati interni” e come tali accessibili unicamente all’individuo nell’interiorità della sua coscienza.

Emozioni come principi d’azione

Mentre inseguivo il sole ancora tremante non mi accorgevo che era mia l’ombra che andavo fuggendo, riflesso dei raggi che tanto bramavo. E come pretendevo di separarmi da lei, se non era lei che temevo, ma il fatto di non riconoscermi in lei?

L’angoscia è l’altro lato della felicità, come ombra prodotta dal sole. Le emozioni non possono essere prese una per volta, ma camminano tutte assieme. Non è la qualità dell’emozione che sconvolge l’animo umano, ma l’intensità. L’uomo trova la sua realizzazione nella ricerca della felicità, in quello stato nel quale l’obiettivo è posto, ma non ancora realizzato. Non è l’appagamento del desiderio (felicità) la condizione auspicabile per lui, ma la tensione del desiderare, la progettualità che ne deriva, persino il trattenere il desiderio in vista di uno scopo più altro.

Tutte queste condizioni sono ad un tempo sopportabili e auspicabili per l’uomo. Che ne è dello stesso una volta che ha realizzato il suo sogno? Deve subito predisporsi un’altra meta. Lo stato nel quale tutti i bisogno fossero stati soddisfati sarebbe uno stato di quiete assoluta simile alla morte. La felicità è una condizione estrema per l’uomo, assolutamente insopportabile almeno quanto lo è l’angoscia.

La ricerca continua e l’irrequietezza di un desiderio mai soddisfatto sino in fondo sono in lui condizione naturale.

La relazione tra funzione emotiva e funzione cognitiva

Le emozioni sono degli “stati interni” e come tali accessibili unicamente all’individuo nell’interiorità della sua coscienza. Se ne deduce che nessuno possa sapere cosa sta provando l’altro se questi non lo comunica in qualche modo (anche linguaggio non-verbale). La via d’accesso all’interiorità nascosta, può solo essere l’esteriorità manifesta. Del problema del rapporto tra stati interni e comunicazione si occupa Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche. In questa sede riflette tanto sul tema del dolore, quanto su quello delle intenzioni.
Va precisato che l’autore ha in mente il dolore fisico. Il “provare dolore” nei sui ragionamenti e inteso come la sensazione fisica che si presuppone all’origine del sentimento. Sta quindi prendendo di tutte le emozioni quella più facilmente oggettivatile. Posso provare dolore anche in stato di incoscienza e questa risulterà visibile dall’osservazione dei paramenti vitali senza provare l’emozione ad esso associata. Parliamo in questo caso non di ricordi rimossi, ma di esperienza mai risalite allo stato di coscienza.

La teoria wittgensteiniana degli “stati interni”

Nel suo precedente lavoro, il Tractatus Logico Philosophicus, il filosofo austriaco si era reso conto che l’elaborazione di un linguaggio formale lasciava inesplorato un regno ben più ampio e fondamentale per l’esistenza umana. Il problema estetico ed etico, il mistico, erano fuori dallo spazio logico del discorso formale. Si otteneva vale a dire una perdita di significato sul senso dell’esistenza propriamente umana. Su questa strada Wittgenstein avvia la cosiddetta “svolta” verso l’analisi del linguaggio ordinario, compiuta nelle Ricerche Filosofiche. Occorre “lasciare tutto com’è” ovvero limitarsi a osserva il funzionamento del linguaggio senza anticipare alcuna struttura formale.

In questo spazio Wittgenstein si occupa appunto anche del “dolore” come stato interno non accessibile all’altro. Il problema principale è quello del rapporto tra emozioni (o anche intenzioni interne) e parole (manifestazioni esterne). L’indagine in oggetto è dunque la relazione che intercorre tra l’interiorità dell’individuo e lo spazio pubblico della relazione intersoggettiva (linguaggio ordinario). Emerge che siamo in grado di comprendere gli stati d’animo dell’altro solo perché li abbiamo provati noi stessi.

“Nella misura in cui ha senso dire, che il mio dolore è lo stesso del suo, è anche possibile dire che entrambi proviamo lo stesso dolore.” (RF. pr. 243).

Il dolore non è un “sapere”, ma quello che con Husserl chiameremmo un “vissuto”, un “provare”, per utilizzare l’espressione di Wittgenstein.

Le emozioni sono private

Per l’autore austriaco il linguaggio non accompagna un’emozione che proverei comunque se non la rendessi pubblica. L’emozione stessa è piuttosto originata nel linguaggio ordinario per definizione pubblico. Uno degli assunti della teoria del linguaggio è infatti che non esista un linguaggio privato. Questo verrebbe sempre ricavano da una decodifica di un linguaggio pubblico o sarebbe sempre traducile in altri linguaggi. Uno stato interno dunque è sempre accompagnato da una manifestazione esterna:

“Si collegano certe parole con l’espressione originaria, naturale, della sensazione, e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida; gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e, piú tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore. «Tu dunque dici che la parola ‘dolore’ significa propriamente quel gridare?» – Al contrario; l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido.”

La prima volta che proverò dolore mi limiterò a urlare probabilmente o piangere. Da lì in poi subentrerà l’educazione che interverrà ammaestrando su un insieme di comportamenti che da lì in poi seguiranno alla sensazione del provare dolore. Non esiste dunque un momento nel quale viviamo un emozione e un’altro nel quale la esternalizziamo. Le emozioni vengono sempre anche espresse almeno in modo preconscio. Questa posizione è molto interessante, perché in effetti rende conto del presupposto assoluto della teoria psicanalitica. Questa prevede che le pulsioni “rimosse” o inibite verso la meta, tornino alla coscienza come “sintomi” manifesti.

Le emozioni sono come acqua di torrente a volte in piena altre ridotto a rigagnolo. Il loro movimento naturale è scorrere e in verità non possono essere trattenute, dacché sbarrata la via primaria troveranno immediata un percorso alternativo. Il compito non è impedirgli di scorrere, ma preparare loro il terreno in modo che seguano un terreno già tracciato.

Il linguaggio ordinario lo spazio dell’intersoggettività condivisibile

Dalla impostazione wittgensteininia  nascono dei paradossi che Wittgenstein stesso non manca di indicare. Se trovassimo una persona capace di imitare i comportamenti legati al provare dolore, non sarei assolutamente in grado di distinguere se lo sta provando veramente oppure no. In realtà se riuscissi a costruire una macchina capace di rispondere in modo coerente agli stimoli esterni, non potrei in nulla distinguerla da una coscienza, ovvero dall’insieme degli stati interni che essa è in grado di manifestare (tesi di Touring).

Se esistesse al contrario una persona talmente brava a sopportare il dolore da non darne nessuna manifestazione esterna o una manifestazione non immediatamente chiara per me (somatizzazione), non saprei mai se quel dolore è stato provato oppure no. Peggio se alla sensazione di dolore fisico si associasse euforia (masochismo). Le emozioni, nemmeno quelle più primitive, esistono indipendentemente dallo spazio pubblico interiorizzato attraverso il linguaggio.

L’impostazione wittgensteiniana nelle teorie sulla psiche

I presupposti principali desumibili dalla posizione wittgensteiniana sono utili al nostro ragionamento sulle emozioni:

Sentiamo dolore sempre con le parole (linguaggio ordinario). Da qui la considerazione che se non esistessero le parole per definirle non esisterebbero nemmeno le emozioni che dovrebbero comunicare. I processi evolutivi nel bambino sono accompagnati da altrettanti progressi nelle funzioni linguistiche (indicare, rappresentare, riconoscersi allo specchio, mentire ecc.).

Pensiero, sentimento e comportamento

Comunque stiano le cose se con “personalità” si intende una modalità di struttura di 1) pensiero, 2) sentimento e 3) comportamento che caratterizza il tipo di adattamento e lo stile di vita di un soggetto” (OMS) delle tre l’unica cosa esterna è visibile è il comportamento. A ben vedere tuttavia nessuno dei tre può esistere se non nella dimensione pubblica (intersoggettiva) della parola. Sui sentimenti ci siamo espressi, sui pensieri risulterà agevole comprendere che è impossibile formularli senza un linguaggio.

Un disaccordo tra pensieri, sentimenti e comportamenti, da sempre interconnessi nello spazio umano del linguaggio ordinario, potrebbe condurre a un disequilibrio di per sé patologico. La disarticolazione delle tre istanze pare in sé il problema.

Prima di interrogarci su cosa sia la malattia mentale, varrebbe la pena allora chiedersi su quale sia il luogo dove questa si collochi. Esattamente come nel caso delle emozioni, questa dal mio punto di vista va sempre collocata nello spazio intersoggettivo della parola. L’interiorità dell’individuo è una porta d’accesso all’esteriorità delle relazioni che lo costituiscono. La patologia mentale si colloca sempre all’interno di una visione del mondo, come spazio condiviso tra la soggettività e il suo oggetto. Da questa visione, intendo dire, dipende ciò che può essere considerato patologico e la misura del suo essere tale.

Emozioni come istinti razionali

Le emozioni sono dal nostro punto di vista la forma evoluta degli istinti ovvero motivi razionali all’azione o all’inibizione della stessa. Per quanto la nostra funzione specifica di essere umani sia la razionalità, noi non siamo sempre razionali, piuttosto vero il contrario. La maggior parte delle volte non abbiamo bisogno di chiamare in causa la razionalità per prendere decisioni, agiamo senza pensare, mossi da forze innate che sono simili a pulsioni.

Non v’è alcun dubbio che se una parentela abbiamo con i nostri cugini primati questa passa proprio dal lato delle pulsioni, spinte primordiali alla vita, ma si tratta appunto di una parentela non di una sovrapposizione. L’idea che gli stati più evoluti della coscienza poggino su quelli più ancestrali, in modo tale che qualcosa con gli animali condividiamo più un’aggiunta evolutiva è per così dire ingenua. A tutti i livelli esiste una differenza con gli animali che è qualitativa, non quantitativa.

L’stinto nell’uomo non è pulsionale ma emotivo

L’elemento istintivo è nell’uomo rielaborato ab orige in strutture logiche. Non c’è un momento nel quale agiamo spinti da pulsioni e un altro nel quale siamo razionali e capaci di compiere scelte, perché la ragione non è mai separata dalle pulsioni, come fossero auriga e cavalli . Siamo invece animali capaci di emozioni, che sono ad un tempo pulsioni e ragioni. Le emozioni possono anche essere agite o prendere vie traverse (sintomi) o restare sottaciute dietro sistemi apparentemente asettici, ma abitano in noi come processo vitale. L’istinto sta alle pulsioni come l’anima alle emozioni, ella sente per il fatto stesso che esiste.

Non c’è una differenza di grado tra le pulsioni e le emozioni, ma un salto concettuale un momento di discontinuità.  Non siamo anima vegetativa, sensibile e razionale (Aristotele). Non siamo cioè divisi in blocchi in modo che qualcosa condividiamo con  animali e piante e qualcosa no. L’elemento razionale è piuttosto proprio la capacità di ristrutturare, reinterpretandolo, cioè che nell’animale è assolutamente incosciente (e ancora di più lo è nel mondo vegetale).

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