Che cos’è la verità per la coscienza che osserva e dove precipita quest’ultima quando non pare più essercene una? La domanda sul dove potrà sembrare strana, giacché si tratta in effetti di uno stato emotivo della mente. Se tuttavia oggi riconosciamo candidamente che le strutture trascendentali dell’Io-Penso siano identiche per tutti, perché mai gli stati emotivi dovrebbero cambiare da persona a persona? Sulla fondazione “quasi trascendentale” dei presupposti della comunicazione allora dedicai la mia tesi di dottorato, cui rimando per un appronndimento del tema.
Qui non mi spingerò sino al punto da criticare la modalità di fondazione trascendentale della soggettività che possiamo tranquillamente supporre affidabile. Allora cercai piuttosto di dimostrare che se in effetti le strutture della mente sono in evoluzione, così come lo sono quelle della civiltà cui i singoli individui appartengono, le strutture profonde (Tiefenstructur) della soggettività mutano seguendo una legge evolutiva che è la stessa che seguono tutte le cose (movimento dialettico).
Se come cercheremo di mostrare anche il nostro inconscio è fatto della stessa pasta dei nostri pensieri allora anche le passioni dell’anima (i suoi vissuti) devono poter essere determinabili a-priori rispetto a modelli (archetipi) quasi-trascendetali. Per questa via si arriva a formulare l’ipotesi di un inconscio universale astratto. Un “non-luogo” originario e pre-conscio che sarà oggetto delle riflessioni che seguiranno.
I sentieri dell’anima: dall’universale astratto alla cultura
Almeno l’idea di un inconscio universale deve necessariamente essere condivisa dal momento che viene limpidamente riconosciuta la necessità di una trasmissione di significati a livello inconscio. Da questa “trasmissibilità” dipende per altro la spiegazione filogenetica degli stati evolutivi della psiche individuale e collettiva. Dall’uccisione del padre primordiale ad opera dell’orda di fratelli è possibile dedurre tanto la nascita del complesso edipico, quando quella del sentimento religioso, solo in quanto presupponiamo che il cammino dell’umanità sia un’evoluzione nella quale gli stadi di sviluppo sono tolti e conservati (aufgebot).
A questo punto sorge spontanea la domanda: “Da dove, vengono tolti e dove vengono conservati?”.
La risposta breve sarà appunto: dall’inconscio universale verso la cultura come intersoggettività condivisa (realtà).
Questa trasmissione può essere pensata in termini evolutivi di miglior adattamento della specie al suo ambiente e per questa via comunque riconoscergli un fine, oppure avvenire casualmente. Resta il fatto che le ipostasi di questa continua trasformazione vengono mutuate di generazione in generazione. Sul teatro di questa trasformazione invece non paiono esserci dubbi, deve necessariamente avvenire dal lato della consapevolezza, quindi essere lo spazio inter-soggettivo dell’opinione pubblica, ovvero appunto la cultura (Kultur). Questa è la struttura sovra-soggettiva che potremmo più genericamente chiamare “spirito di un’epoca” o “civiltà”. Pare in effetti anche l’unico luogo trascendentale dove può innestarsi l’ideale dell’Io, con i suoi divieti, precetti morali/religiosi ecc.
La Cultura può essere in aggiunta concepita in rapporto dialettico con l’universale astratto quale suo inveramento. Così posta la questione il guado tra la visione materialistica della psiche e quella spiritualistica non pare più così insormontabile. Il passaggio successivo sarà solo riconoscere che la mistica si rappresenta questi “luoghi” spiritualmente ovvero per immagini e sensazioni, laddove il concetto scruta leggi e divieti. Il conflitto tra Io e istanze inconsce (pulsioni) è l’altro lato del conflitto dell’Io e i divieti socialmente imposti (Super-io), essendo i primi dialetticamente rimossi nei secondi (così traduce Vincenzo Cicero il termine aufheben).
La via d’accesso al mistico
Tipo meccanismo della rimozione è per Hegel il conservarsi dello stato precedente nel nuovo, il persistere della struttura amorfa dell’inconscio universale (tesi), nel passaggio dall’Io (antitesi) al Super-Io (sintesi). In effetti la condizione di salute mentale potrebbe così essere descritta come un accordo delle istanze imposte dalla società con le pulsioni inibite a metà, ovvero quella che Hegel definì coincidenza di in-sé e per-sé.
Occorrerà ammettere che la via d’accesso allo spazio inter-soggettivo, appena definito in termini di Cultura, cambierà la natura dell’oggetto per così dire. Chi pretenderà di accedervi tramite il pensiero logico e analitico si vedrà sparire innanzi l’alone di mistero che esso cela e dunque parte del suo potenziale semantico. La terra delle ombre illuminata a giorno perde la sua spettralità e insieme il suo fascinoso mistero. La via mistica dell’illuminazione coglie piuttosto il sentimento del tutto, coglie emotivamente la connessione del sé-proprio con il sé universale definito volta per volta dalla cultura del suo tempo.
Se l’universale astratto è indeterminato e inaccessibile alla ragione che tutto determina e divide, la Cultura è quello stesso universale illuminato a giorno. Il primo è totalmente inconscio, il secondo totalmente conscio. L’universale astratto è appresso tramite l’intuizione, il secondo conosciuto come “somma” di conoscenze particolari. L’inconscio universale è il lato totalmente emotivo del sé, la cultura quello totalmente razionale.
Quando parliamo di “luogo” in riferimento al precipizio della coscienza tuttavia facciamo comunque riferimento allo spazio pre-soggettivo e pre-conscio che sopravvive all’elaborazione culturale, che non ha ancora rivelato la sua natura intersoggettiva e trascendentale all’anima che vi è precipitata dentro.
La dialettica di inconscio e conscio
Ho già trattato in modo semplificato gli argomenti principali della dialettica hegeliana qui. Presuppongo quindi l’esistenza di uno stato originario (in-sé) dello Spirito, uno stato di consapevolezza “aggregatosi” da questo precedente stato originario (per-sé) e la possibilità che i due punti di vista interagiscano tra loro (in-sé-per-sé), senza tuttavia dover sostenere necessariamente che si arrivi alla coincidenza delle due prospettive.
In accordo con il punto di vista espresso dalla scuola di Francoforte reputo piuttosto un bene che la dialettica resti negativa. La riconciliazione (Versöhnung) non è né possibile, né auspicabile. Una dimensione nel quale l’universale s’è interamente realizzato non lascerebbe posto per il particolare, il dissonante, il cognitivamente distorto. Un regno della luce senza ombre, sarebbe un deserto arido e disumano nel quale ogni problema è già stato risolto, ogni discussione conclusa preventivamente, ogni parola dissolta nel silenzio di un’intesa universale (Verständigung).
La verità prima della coscienza
La verità originaria è dunque l’in-sé come stato primo dello spirito, identico a se stesso, uno e indeterminato. E’ uno stato privo di consapevolezza, ma non di passione: vuole, ma non sa di volere. Allorché da Galileo Galilei in poi siamo stati costretti a ridurre l’analisi scientifica alla sola causa efficiente, pare inverosimile che il mondo agisca in vista di un fine. Tuttavia almeno la realizzazione della propria natura deve essere riconosciuta come fine ultimo di tutte le cose (Spirito e Natura).
Anche il più crudo dei materialisti potrà infatti agilmente riconoscere che il fine ultimo della vita (l’essere, lo spirito, l’anima del mondo che dir si voglia) è mantenere se stessa, perseverare, ovvero realizzarsi. Non si tratta qui della volontà individuale, quindi di azioni organizzate in vista di un fine, ma di un destino che al contrario per il singolo appare imperscrutabile e che spesso si oppone alla sua propria di volontà . La volontà universale si esprime come legge del destino (logos) che muove tutte le cose. Per questa via Schopenhauer arriva a postulare l’esistenza di una volontà di vivere che l’uomo condivide con l’intero universo e che ne costituisce il tratto essenziale (noumeno).
La coscienza (Io) invece nasce come negazione dell’astrattezza indeterminata dell’uno e rappresenta quindi il lato conscio della volontà. L’Io vuole e sa di volere. La sua verità è consapevole, limitata all’interno delle categorie di spazio e tempo (fenomenica).
La dialettica di Io e Non-Io è un’interpolazione continua di in-sé (inconscio) e per-sé (conscio), in modo tale che l’uno possa sempre passare nell’altro. Ciò che resta è il Sè, che passa continuamente dalla stato di consapevolezza a quello di inconsapevolezza (rimosso per la coscienza). Questo perché presupponiamo (come detto) che non esista possibilità di riconciliazione e quindi che la coincidenza di in-sé e per-sé non sia possibile. L’inconscio non può tradursi tutto nel conscio, la realtà non può diventare interamente razionale. Quando parlo di interpolazione mi riferisco allora alla danza degli opposti di ispirazione eraclitea, il continuo mutare dell’uno nell’altro, il fluire dinamico della vita, che esprime il Tao del mondo (argomento che qui non tratterò).
La verità è una responsabilità
Che cos’è dunque la verità? E’ un respiro a pieni polmoni che allarga le pareti della stanza. E’ il sorso di un te caldo, la luce opaca della sera, la passione per la vita dentro di noi, che rinnova la volontà universale fuori di noi.
La verità è una linea retta, un confine rassicurante che permane nel continuo mutare degli opposti, che permette di fare ordine tra il noto e l’ignoto. E’ una porta chiusa che stabilisce cosa è abitabile (Heimlich) e cosa no. E’ un vincolo condiviso con gli altri. Infine è qualcosa di esterno a noi (la realtà) come suo riflesso. E’ una rete di relazioni tra l’anima propria, anima collettiva e anima del mondo. La verità è il mondo stesso (Lebenswelt) pure lui tripartito in mondo proprio (Eigenwelt), mondo comune (Mitwelt) e ambiente (Umwelt). E’ il continuo “arrangiare” l’anima al mondo e viceversa.
La verità è una responsabilità che l’adulto assume sul bambino, incapace di distinguere la realtà dai pensieri della sua mente. É un limes oltre il quale si aprono le valli del perturbante.
L’ambivalenza del limite
Il rapporto dell’uomo con la verità è però ambivalente. Ciò che limita protegge e rassicura da un lato, rinchiude e inquieta dall’altro. Se da un lato la verità sembra rassicurare l’animo umano illuminato come dallo splendore del sole, dall’altro pare inquietarlo quando questa si fa troppo vicina fino al punto da ustionare. Per questa ragione la verità è nell’uomo una ricerca continua e non un possesso. E’ una tensione (streben) per un traguardo mai raggiunto piuttosto che un luogo dove sostare. Famoso l’incipit della metafisica di Aristotele: “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere”. Questa ambiguità è meglio espressa nel secondo libro della metafisica.
La ricerca della verità
Il rapporto con la verità pare dunque “scottante”. La verità illumina e riscalda, ma è impossibile da contenere tutta, al punto tale che presa in una sola volta essa non è tollerabile per l’uomo. E’ per lui impossibile non coglierla affatto come coglierla del tutto.
La ricerca della verità sotto un certo aspetto è difficile, mentre sotto un altro è facile. Una prova di ciò sta nel fatto che è impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità, e che è altrettanto impossibile non coglierla del tutto. […] E, fors’anche, poiché vi sono due tipi di difficoltà, la causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi. (Aristotele Metafisica, 993a 30-35).
La causa di questa difficoltà risiede in noi come dice lo stesso Aristotele, creature della terra di mezzo. La verità può quindi essere appresa solo in parte e di questa parte ve ne sarà una assolutamente evidente, l’altra semplicemente inaccessibile.
Il retaggio aristotelico nella scienza moderna
Se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà è altrettanto impossibile dire tutto di essa. Sempre parafrasando Aristotele pare che la “somma” di tutti i contributi dia invece un risultato considerevole. La somma delle conoscenze, già nella visione aristotelica, dunque, si pone come sostituto dell’intuizione del tutto, via d’accesso preferenziale alla verità nel pensiero orientale e nella mistica cristiana. In linea con la posizione aristotelica fu lo stesso Galilei, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, a sostenere che la differenza tra la conoscenza umana e quella divina sta nella via d’accesso al mondo, per gradi nel primo caso e intuita nel secondo. Egli aggiunge tuttavia anche che la differenza tra i due tipi di conoscenza non è qualitativa, ma quantitativa.
Possediamo meno conoscenze di quelle divine e ad esse accediamo per “somme” crescenti di contributi e non in una sola volta, ma la verità cui abbiamo accesso è la medesima. Come è possibile tuttavia che la coscienza del tutto appreso in una sola volta sia qualitativamente identica alla somma di conoscenze parziali?
Anche presupponendo di avere a disposizione un tempo infinito e quindi di riuscire a sommare l’insieme delle conoscenze umane, come è possibile pensare che siano uguali qualitativamente all’unica conoscenza divina appresa in una sola volta?
Ricevere 1 milione di euro tutti assieme è come averli mese per mese nell’arco di una vita? Mangiare un quintale di riso in un unico boccone è come mangiarlo poco per volta durante l’intera esistenza? La risposta è talmente evidente che convincersi del contrario richiede necessariamente malafede (artificio retorico). La verità intuita come tutto sarebbe per noi scottante, insopportabile oltre ogni misura e comunque in nessun modo equivalente alla somma delle conoscenze volta per volta apprese. Al contrario di ciò che sosteneva Galilei la verità presa come tutto condensa gli opposti, dissolve lo spazio e il tempo, ed è qualitativamente diversa dalla somma delle conoscenze parziali.
Il paradosso della verità tra angoscia e meraviglia
La riduzione ad uno degli opposti, fu un grosso problema per il cristianesimo che in questo propone una soluzione radicalmente diversa da quella proposta tanto dalla filosofia greca quanto dalla mistica orientale. Se nella cosmogonia greca sarà facile scorgere una dualità di bene e male uniti all’interno del movimento creatore, la cosmogonia cristiana nell’addossare tutto il principio all’unica realtà divina, deve risolvere il problema del male, che non può avere uno statuto ontologico suo proprio, ma deve in qualche modo essere derivato dal bene.
La soluzione diventa ben presto quella di addebitarlo interamente all’uomo, che in quanto volontà sceglie di allontanarsi dal bene. Nel prendere le distanze dall’unità originaria, ovvero nell’atto stesso del suo nascere, dunque, l’uomo è affranto da un sentimento di colpa vissuto in termini di peccato originario e angoscia esistenziale. L’anima guarda al tutto pantocreatore con un sentimento di annientamento, impotenza e insieme di ammirazione. L’angoscia di fronte alla verità si sostituisce dunque al sentimento di meraviglia che prova l’uomo greco di fronte alla natura e di cui ci ravvisa lo stesso Aristotele:
“Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori”. (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. Giovanni Reale).
La coscienza che non ha bisogno di unificare la dualità del principio, non sente il bisogno di addossare su di sé il male. Non è dunque angosciata nella sua intima natura di fronte alla vista della verità, ma meravigliata. La meraviglia è comunque uno stupor mundi, un restare attoniti di fronte all’immensità che l’orizzonte apre innanzi. A poco serve come visto la consolazione aristotelica prima e galileiana dopo che basterebbe l’infinito tempo per coglierlo tutto: la verità trabocca in ogni dove e colma qualsiasi vaso vorrebbe contenerla.
Il paradosso è il cortocircuito della ragione e non può essere risolto.
La meraviglia è il sentimento speculare dell’angoscia comunque innescata dall’intuizione immediata della verità e al contempo dalla consapevolezza della sua inafferrabilità. La coscienza non sopporta la contraddizione e resta attonita di fronte al paradosso espresso dalla verità. Ha quindi bisogno di dividere, tenere separato un proprio da un non-proprio, che va prontamente riconosciuto ed espulso dall’Io (rimosso).
Per l’uomo greco la verità è di fronte a lui e ne prova meraviglia, per il cristiano è nella sua interiorità e ne risulta angosciato, ma in entrambi i casi la verità non appartiene all’uomo, piuttosto è l’assolutamente altro dal sé.
La coscienza divide laddove il principio unifica, spazializza laddove il principio è etereo, temporalizza laddove il principio è eterno. La coscienza non può pensare l’unità senza dileguarla subito dopo.
Di fronte alla minaccia di questo dileguamento il cristiano trema angosciato, respingendo tale angoscia nell’interiorità della sua anima. Lo spazio teatrale della tragedia umana viene quindi interiorizzato, racchiuso nell’intimità dell’animo inquieto, risolto nel silenzio della meditazione e della preghiera. La coscienza che non sopporta il peso della verità, divide tra una zona sua propria (Heimlich) e una a lui aliena (Unheimlich), introiettando la Natura ostile fatta di nascita e morte che il greco poneva di fronte a sé, senza mai comprendere che si tratta di un’unica e medesima realtà.
Cosa resta di questo spazio interiore cui si aveva accesso tramite la meditazione una volta che l’anima è stata ridotta a illusione derivante da materiale pulsionale? La morte di Dio lascia come grande erede l’inconscio propriamente detto, luogo interiorizzato della tragedia umana che prima fu dei greci e i cui personaggi vengono ampiamente utilizzati come simboli per comprenderne i meccanismi di funzionamento.
La temporalizzazione come ancora di salvezza dell’anima
La coscienza, abbiamo detto, non sopporta la verità e scioglie il paradosso che si apre dentro di lei attraverso il tempo. La verità che è fuori dal tempo contiene consustanziati i contrari che la coscienza stessa rappresenta come dispiegati in un prima e un dopo. Porre in sequenza, in modo tale che ciascuna cosa possa divenire il suo contrario è un modo per sopportare l’insostenibile leggerezza della verità. In questo modo, attraverso la temporalizzazione, l’anima si rappresenta la verità potendone sopportare la vista per così dire.
Il tempo è il luogo dell’anima, la sua casa, lo spazio il suo riflesso esterno (mondo). Dio è il non-luogo che li ha prodotti entrambi, la verità ambivalente che sin qui abbiamo cercato di rappresentare. La coscienza dunque sorge allontanando da sé la contraddizione, il paradosso strutturale della coabitazione degli opposti in un unico tempo e luogo (apéiron). Guardando bene la nota formulazione del principio di non contraddizione lo stratagemma della coscienza dovrebbe adesso apparire evidente: “È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto”.
Le cose possono quindi essere e non essere, ciò la coscienza riesce bene a vederlo, a patto che questo succeda in tempi differenti o rispetti diversi. Le cose non sono quello che diverranno e sono state un qualcosa che non sono più. Essere e non-essere sono da sempre interpolati, ma a questo punto distinguibili in atto (presente) e potenza (futuro/passato). Il presente è dunque un essente stato, un essere in atto ciò che si era in potenza.
L’essere in potenza esprime dentro di sé una progettualità, la possibilità di divenire qualcos’altro. In questo senso esprime un’idea di futuro.
Il divenire dunque disinnesca la contraddizione nell’evolversi dei tre tempi (presente, passato e futuro) che tuttavia restano interpolati tra loro e assolutamente indistinguibili nel concetto di “essere in potenza”. L’essere in potenza diventa presente una volta realizzato. Rispetto al passaggio in atto si configura quindi come passato. Nel suo essere in potenza esprime però anche una progettualità non ancora realizzata. L’essere in potenza è dunque la temporalizzazione dell’anima (esser-ci).
Il divenire e la dialettica di apparenza e realtà
La coscienza può cogliere questo divenire solo come apparenza (fenomeno) ovvero come cose che accadono in tempi diversi o rispetto a cose diverse. Fuori da questa apparenza c’è un terreno inospitale per lei (noumeno) che si rappresenta come realtà inaccessibile, fuori dal tempo e dallo spazio. Tempo e spazio (intuizione pure a-priori) sono dunque i due cherubini posti a difesa delle valli dell’inconscio, dove invece la contraddizione è d’obbligo e ogni significato rimanda sempre a qualcos’altro. Si tratta allora delle colonne d’Ercole oltre il quale comincia il regno del non senso ove è bene che la coscienza da lucida non vada.
Il regno dei cieli posto nelle sfere più alte del creato come l’assolutamente altro da sé è però accessibile solo attraverso una introspezione interiore: “in interiore homine habitat veritas” (Sant’Agostino).
Occorrere comprendere che è la coscienza a porre la divisione dentro un ché di originariamente indiviso. Per questa ragione l’esteriorità inaccessibile (noumeno) è lo stesso che l’interiorità inconscia: massimamente grande e massimamente piccolo coincidono ebbe a dire già Cusano. Questo è un pensiero che la coscienza può sopportare solo in astratto, ovvero tenendo divise le due cose, spazialmente o temporalmente anche dopo averle unificate concettualmente. Come già detto la coscienza non può fare a meno di pensare un prima e un dopo, un momento in cui le due cose erano insieme e secondariamente sono state divise. Non può pensarle ad un tempo insieme e divise. Questo è come dice Aristotele impossibile.
Il mondo ultraterreno, definito inconscio, nel senso che di esso non è possibile trarne alcuna consapevolezza, somiglia per certi versi al paese delle meraviglie dentro la quale la piccola Alice si avventura. A questo proposito torna utile il gioco di parole che la serratura posta a sbarrare la strada pone in essere allorquando Alice prova ad aprire la porta d’accesso:
Serratura: Impassabile
Alice: Vuoi dire impossibile?
Serratura: Noo!! impassabile!.. nulla è impossibile!!
Impossibile ha quindi il senso di impassabile proprio a segnalare l’idea di un confine insuperabile oltre il quale si accede alle valli dell’impossibile.
L’inconscio secondario
L’unità originaria da cui è nata la coscienza non è dunque rappresentabile dalla coscienza stessa, che nel suo sorgere l’ha tolta. L’inconscio cui accede quest’ultima è piuttosto quello successivo alla sua nascita. Semplificando quanto più possibile il concetto immaginiamo di tracciare una linea retta su un foglio infinito. Per quanto l’infinito spazio resti tale da una parte e dall’altra, anche se diviso in due, le due metà che si ottengono saranno diversificabili l’una dall’altra. Anzi sarebbe più corretto dire che sono diversibicabili l’una grazie all’altra.
L’infinito, una volta posto un limes, non è dunque più identico a sé. Al contrario viene posto una volta come identico (IO) l’altra volta come altro da sé (NON-IO). Questa operazione permette di dividere i due mondi e coglierli l’uno in contrapposizione all’altro rendendoli così traducibili l’uno nell’altro. Il mondo delle meraviglie, desiderato da Alice, è a ben vedere un mondo “invertito”, non più il caos originario senza forma:
“Se avessi un mondo come piace a me la tutto sarebbe assurdo, niente sarebbe com’è perchè tutto sarebbe come non è.
Cioè, se una cosa può apparire normale, normale poi non potrebbe essere.
Cioè, se vedi un qualcosa come appare, non dovrebbe essere… ciò che è.
I fiori parlerebbero e non ci sarebbe niente di strano, come non ci sarebbe niente di strano nel vedere un coniglio bianco con un panciotto e l’orologio!”.
In effetti così posto il mondo onirico pare meno “scandaloso”. La meraviglia di un mondo dove tutto è il contrario di quello che appare di nuovo risolve l’angoscia originaria di un mondo privo di determinazioni al suo interno. Infondo si tratta di operare continue inversioni di significato (Umkerung) non di operare in assenza di significato. Il mondo inconscio è dunque un mondo visto attraverso lo specchio (sempre per citare la suggestione di L. Carroll) dove semplicemente viene posto a destra quello che in realtà è a sinistra e viceversa.
Nel loro essere speculari dunque il conscio e l’inconscio diventano traducibili l’un l’altro. L’attività psichica sembra in effetti un continuo passare dell’uno nell’altro. L’Io pare quindi rimuovere significati respingendoli nell’inconscio e ripescarli all’occorrenza quando ha bisogno di ristrutturarsi. Quello del conscio e quello dell’inconscio sono due linguaggi diversi, ma pur sempre due linguaggi e per questa ragione pur sempre traducibili l’uno nell’altro. Tra-durre ha in questo caso l’accezione originaria del “traghettare” da una sponda all’altra significati.
L’inconscio universale
L’inconscio di cui stiamo parlando tuttavia non è lo stato originario dell’essere, ma quello successivo alla nascita della coscienza. Se esiste un momento nella storia dell’umanità nel quale è sorta la coscienza, è esistito allora anche uno stadio dell’umanità preconscio, dove l’uomo abitava un mondo indiviso dal sé privo di consapevolezza com’era.
In questa fase dominata da impulsi primordiali, all’uomo non era dato distinguere l’Io dal suo mondo (fase originaria del sé). Se da un lato l’essere dell’Io tratteneva ogni realtà non distinguendosi dal mondo esterno, l’alterità poteva solo essere rappresentata come nulla. La verità nella sua forma primordiale appare tenebrosa e perturbante in sommo grado. La coscienza che sorge rimuove quella stessa verità che vede dileguarsi nell’atto stesso del suo sorgere. L’inconscio individuale nasce sulle ceneri di quello universale in esso dileguatosi.
L’inconscio universale è però ben diverso da quello prodotto secondariamente dalla coscienza. In esso non ci sono ancora leve d’appoggio per invertire alcunché o operare “ribaltamenti”. L’anima originaria del mondo dunque è per la coscienza tutto fuorché il “paese delle meraviglie”. E’ l’assolutamente altro della coscienza, che nel sorgere ne conserva a qualche livello un ricordo indelebile e inverosimile.
Rispetto a questo mondo originario interrotto dalla sua nascita e da ripristinare con la sua morte la coscienza prova un sentimento ambivalente. Nè è attratta e al tempo stesso spaventata. Qualche cosa sa, qualche altra preferisce non sapere. Viene successivamente posto in un al di là irraggiungibile immaginato una volta come infero l’altra come etereo. Si tratta del mondo ultraterreno nel quale il tempo si è tutto contratto in un solo istante. “Per quanto tempo è per sempre?” – chiede Alice, “A volte un secondo!” si sente rispondere.
L’istante sottratto alle opere del tempo
L’istante sottratto alle opere del tempo è l’Eternità che tutto famelica ingoia. E’ una dimensione insopportabile da svegli, un luogo dove è bene che la coscienza non vada restando conscia. La negazione è una struttura paradossale perché nega sempre qualcosa, come la coscienza che è sempre coscienza di qualcosa. Ecco perché questa realtà originaria ancorché tolta immediatamente con il sorgere della coscienza resta conservata nella coscienza stessa che l’ha tolta come angoscia esistentiva.
Il principio di non contraddizione che divide nel tempo e nello spazio ciò che era uno è dunque il Cerbero posto a guardia dei cancelli dell’Ade. A guardare bene le cose, però, il principio di non contraddizione pare affondato nella coerenza dell’azione. Se la prima difesa del principio di non contraddizione è per Aristotele la coerenza logica, per cui chi nega deve comunque utilizzarlo (almeno l’affermazione che “niente è vero” deve essere “vera”), l’ultima sciabolata che lancia contro lo scettico è infatti la coerenza della prassi:
Perchè uno non se ne va, un bel giorno, a gittarsi, poniamo, in un pozzo o in un burrone, anzi si vede, che se ne guarda appunto come se non pensasse che sia tanto buono quanto non buono il caderci dentro? È dunque chiaro, che crede che ci sia del meglio e del peggio” (Aristotele, Etica nicomachea).
L’argomento forte qui sembra che in effetti potremmo anche sopportare la contraddizione logica, ma non agiremmo comunque in modo contrario al nostro interesse. A ben vedere questa seconda difesa del principio è ancora più fragile della prima. Viene in mente la considerazione dei Ricordi dal sottosuolo come argomento confutante:
“L’interesse! Ma che cos’è poi l’interesse? Ve la prendereste voi la responsabilità di definire in modo assolutamente esatto in che consiste l’interesse di un uomo? E se poi un bel giorno risultasse che l’interesse dell’uomo non soltanto può, ma addirittura deve, in qualche caso, consistere proprio nel desiderare non il proprio utile, ma al contrario il proprio male? ” (Dostoevskij, Ricordi dal Sottosuolo).
Nel breve spazio della conclusione di un articolo sin troppo denso di significati mi limiterò a dire che l’interesse della conoscenza è la sua verità pratica, E’ una verità agita. Nell’azione l’interpolazione di bene e male, la contraddittorietà tra risultati ottenuti e intenzioni originarie. è se possibile ancora più intensa che nel pensiero. In altre parole se esiste un luogo dove crolla il principio di non contraddizione è proprio l’azione in vista di uno scopo. Aristotele però questo lo sa e immediatamente sbarra la strada :
“Sarebbe un uomo folle o un insensibile se non temesse nulla” (Aristotele, Etic aNicomachea).
Il sogno come scandalo per la coscienza
C’è quindi una sola struttura di pensiero che lascia funzionare la contraddizione da svegli, in barba alla sicumera aristotelica. Si tratta della struttura di pensiero dei folli, struttura che agisce il paradosso e scandalizza la coscienza. L’azione spudoratamente irragionevole irrompe dunque nella certezza della coscienza di aver allontanato per sempre da sé l’unità originaria posta in un Oltre-mondo (Überwelt). Il ragionamento destrutturato appare così inquietante agli occhi della coscienza razionale, le ricorda l’angoscia originaria provata di fronte al nulla, prova della fragilità del suo fondamento (principio di non contraddizione). La follia viene prontamente confinata da Aristotele in un regno barbaro privo di ragione, quando non considerata vera e propria malattia:
“E degli stolti, alcuni sono privi di ragione per natura [10] e, poiché vivono soltanto col senso, sono bestiali, come certe razze di barbari lontani; altri invece, che sono privi di ragione a causa di malattia come l’epilessia o la follia, sono morbosi. Ora, di queste disposizioni morbose uno può possederne qualcuna soltanto qualche volta, senza esserne dominato” (Aristotele Etica nicomachea).
Conclusione
Che cos’è la verità, giusti a questo punto attonito mi chiedi? La verità è un bisogno senza alcun fondamento sotto. E’ una pia illusione concessa all’uomo perché conservasse il suo stato di ragione. La verità che era prima della coscienza e che sarà dopo di lei è semplicemente insostenibile per l’uomo che riconosce l’illusorietà del suo fondamento.
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