L’angoscia esistentiva: l’ora della mezza notte

La grande angoscia: l’origine del male

Allo stato attuale le mie riflessioni sull’angoscia, tema che propongo, sono disordinate. Sono state gettate su carta in modo convulso e disarticolato, più per fissarle nella memoria che per amore di scienza. La prima impressione su un fatto è certamente la più ingenua, ma anche quella che nella sua ingenuità coglie meglio la totalità dell’evento.

Le successive analisi modificheranno certamente quell’impressione iniziale, fino al punto dal riconoscerla completamente insensata probabilmente. Tuttavia la prima impressione ha anche la qualità di essere la porta d’accesso alla conoscenza di un fatto. La scelta è quindi se esteriorizzarla, portarla a consapevolezza per così dire o lasciarla agire silenziosamente quale pregiudizio implicito del nostro atteggiamento investigativo. Avendo un arsenale filosofico ben strutturato ho preferito dar voce alle mie impressioni su un tema molto complesso come quello dell’angoscia, piuttosto che lasciare che queste stesse impressioni agissero sottotraccia.

 

L’origine dell’angoscia

L’adolescenza è ingiustamente letta dall’adulto con il periodo della fioritura, ricordata con nostalgia e senso di giovialità. Per molti invece è il luogo della disperazione, l’origine di un’angoscia che probabilmente hanno sperimentato sin da quando erano bambini. Il risveglio delle pulsioni sessuali per alcuni è un riaccendersi del senso di morte, un essere risucchiati dentro il buco nero del nulla, piuttosto che un essere chiamati alla vita. Non fosse che vita e morte siano lo stesso evento e che l’estasi erotica è un dileguarsi momentaneo nel nulla della creazione, potremmo anche sorvolare su questo stato emotivo.

Salire e scendere sono lo stesso identico movimento. La coscienza che si inabissa è quella che si eleva, quella che scivola nelle valli dell’Ade è quella che accede alla luce del grande Giorno. Entrambe restano mute. Si resta in entrambi i casi incapaci di descrivere quell’esperienza mistica, balbettata in malo modo. Molto meglio fa l’arte in tutte le sue espressioni, ma questo è un altro tema.

Il punto di visto assoluto 

La sostanza è che dal punto di vista dell’Assoluto vita e morte si appartengono. La coscienza che fa esperienza si inabissa e risale quindi in un movimento illusorio di gioia e dolore. Liberarsi di questa illusione significa però liberarsi dello stato di coscienza. L’esperienza della nascita è cioè separata da quella di morte perché a viverla è una coscienza che non può fare a meno di contrapporsi e cogliersi nella contrapposizione. La coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Il pensare l’unità per lei è quindi impossibile.  Si rappresenta piuttosto il mondo per negazione, ma la negazione non può non avere un oggetto (negazione determinata).

In termini più moderni parleremmo di bias cognitivi di cui ricordiamo i più rilevanti per la nostra discussione:

  1. Posto A è sempre possibile pensare un non-A. L’identità non può essere posta senza che con questa venga posta la differenza. Posto un IO viene immediatamente contrapposto un Non-IO (Fichte).
  2. Nel gioco di causa ed effetto potremmo retrocedere all’infinito. Famoso è il gioco del “perché?” domanda che può essere sempre posta dopo qualsiasi affermazione, rimandando ad un gioco di spiegazioni senza posa. La fondazione ultima non è possibile.
  3. Non possiamo pensare il limite senza superarlo idealmente. Il limite mentre racchiude apre ad un “oltre” (struttura di rimando).  Così nella famosa “Infinito” di Leopardi si legge: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura”. Questo è di gran lunga il paradosso più importante, perché in effetti è proprio il limite che apre lo spazio alla trascendenza dei “sovraumani silenzi”. La coscienza nel suo delimitare rimanda sempre ad una ulteriorità, all’esperienza mistica.

L’illusione della coscienza

La coscienza è quindi una struttura di rimando che non genera soltanto l’opposizione, ma che è al contempo in grado di superarla, ovvero di guardare a quell’oltre di sovraumani silenzi di cui parla Leopardi.  Questa capacità della coscienza genera il doppio punto di vista fenomenologico (per sé) da un lato, ovvero quello della coscienza che fa esperienza e quello dell’assoluto (in  sé), che avviene dietro le sue spalle per così dire. La coscienza è però anche coscienza di avere coscienza di qualcosa, quindi in qualche modo anche coscienza di questo qualcosa che non riesce a vedere.

Esiste cioè un terzo livello di approfondimento nel quale la coscienza è consapevole di avere un punto di vista limitato (immagina oltre il suo stesso limite). Pensa dunque al suo punto di vista (fenomenico) come contrapposto ad una realtà in sé (noumenica). E’ quindi indifferente quale delle due realtà ponga come illusoria e quale come reale. L’importante è comprendere che questa differenza tra fenomeno e noumeno è strutturale, ovvero invalicabile. Non dipende da come è fatto il mondo, ma da come è fatto l’uomo che si rappresenta il mondo.

Le due vie all’ingiù e all’insù

Su questo doppio punto di vista si basano quasi tutte le tradizioni mistiche occidentali e orientali. In particolare la mistica medievale di stampo plotiniano, distingue una via all’in su (dall’Anima all’Uno) e una all’in giù (dall’Uno all’Anima). La prima via è percorsa dalla coscienza per gradi di acquisizione di stati via via più elevati, la seconda dall’Uno stesso che crea il mondo specificandosi. Per dirla con Hegel l’Assoluto procede dall’in-sé (inconscio) al per-sé (coscienza), la coscienza dal per-sé all’in sé, ovvero si appropria via via di livelli crescenti di consapevolezza.

Se si ha presente la concezione dello streben fichtiana si avrà tuttavia chiaro che l’IO è una struttura che rincorre un NON-IO che continuamente gli sfugge. Il NON-IO è un oceano che l’Io non svuota mai. Trascende sempre l’IO ancora una volta non per caratteristiche interne al NON-IO (che appare come infinito), ma per la struttura interna dell’IO che nell’incontrare il suo limite lo sposta in avanti per così dire. Il NON-IO trascende sempre l’IO perché l’IO se lo rappresenta sempre come trascendenza.

Lo stato finale di assoluta consapevolezza non può dunque essere un atto di coscienza. E’ per la mistica l’incontro con la divinità semplicemente intuito.

Gli stadi di sviluppo della coscienza

Tutte queste premesse teoriche servono per acquisire la complessità di un movimento che nel dispiegarsi fattualmente è invece piuttosto semplice e sperimentato da tutti noi nella quotidianità.  La coscienza fa esperienza dell’oggetto in atto ed è quindi convinta della verità dell’oggetto di cui fa esperienza (punto di vista fenomenologico). Può non essere vero che l’oggetto esista, ma sarà sempre vero che creda nel fatto che esista. La coscienza dell’aver coscienza è invece un atto successivo che può avvenire solo dopo (ex-post) a seguito di una sospensione dell’azione che apre alla riflessione sui noi stessi e le nostre convinzioni che prima agivano inconsapevolmente (ex-ante).

Da ragazzi per esempio siamo convinti che esista il bene tutto da un lato e il male tutto dall’altro, siamo pieni di energie e determinati  a cambiare il mondo. Questa convinzione agisce in noi e non viene messa in discussione finché è agita. E’ l’adulto che guardando al ragazzo che è stato  può rintracciarne i “quadri trascendentali” e al tempo comprenderne i limiti. Questi i temi che ho approfondito durante la mia tesi di dottorato.

Occorre in definitiva comprendere che la coscienza non è fissa nella sua identità, ma diviene, muta forma, rinuncia alla verità della consapevolezza di sé che prima aveva e ne acquista di nuove. Questa dinamica così complessa in astratto è in concreto il percorso della crescita, il movimento della vita che è in noi. I vissuti della coscienza esprimono quindi una dinamica del divenire che è la stessa che esprime il divenire mondo, essendo quest’ultimo fatto della stessa pasta dei pensieri. Accedere all’anima del grande mondo (Logos) significare accedere a se stessi, ovvero superare la differenza tra razionale e reale.

L’illusione degli opposti e l’unità del movimento della vita

La danza degli opposti esprime quindi l’unità del movimento che preso come intero resta sempre identico a se stesso (in quiete). Ancora una volta è piuttosto indifferente capire cosa porre dal lato dell’illusione e cosa dal lato della verità, avendo consapevolezza che si tratta di poli di un’unica e medesima realtà. Quello che ci interessa prendere è infatti l’intero del movimento che è un continuo passaggio dall’identità alla differenza, dall’ in-sé al per-sé, dall’uno ai molti, dall’universale al particolare e così via per tutte le coppie di opposti.

In particolare per quello che interessa a noi, il seme deve morire affinché germogli l’albero, ma la morte del seme e la nascita del germoglio rappresentano il movimento della vita, che presa come tutto, resta sempre dentro sé. La vita permane nel sacrificio perpetuo delle singolarità dentro le quali volta per volta s’apprende o dilegua. Il trapasso nel regno dei morti e la gestazione “uterina” sono quindi lo stesso evento al punto tale che le dottrine orientali parlano di reincarnazione a significare che l’elemento che trapassa nel nulla e quello che dal nulla fiorisce a nuova vita è il medesimo (anima del mondo).

Nascita e morte nell’esperienza umana

Questa dinamica di nascita e morte, gioia e dolore, è molto forte nei suoi contrasti nelle prime fasi della vita, quando sono in gioco le trasformazioni anche fisiche più forti. Sono però, non a caso, anche le fasi meno  consapevoli. Potremmo dire estremizzando che lo stato di coscienza propriamente detta sorge non appena può farlo. Sorge vale a dire quando le spinte antagoniste primordiali si sono indebolite a sufficienza. Resta il fatto che la trasformazione (maturazione o crescita che dir si voglia) è un processo di demolizione della struttura precedente, di smantellamento degli assi cognitivi, di ristrutturazione del Sé, che passa da una deflagrazione tanto più imponente quanto più è fondamentale la trasformazione posta in atto.

L’Io è lo stato di coscienza che ora dilegua ora sorge, il Sé il movimento che persiste nel mutare dello stato di coscienza, ciò che passa dall’in-sé (inconscio) al per-sé (conscio). È l’elemento fisso che si eleva passando continuamente da stati di incoscienza inferiori a stati di coscienza superiori.  L’in-sé-e-per-sé infine è lo stato terminale della coscienza, il punto nel quale il Sé (non l’Io) è pervenuto alla piena consapevolezza di essere ogni realtà (il razionale è reale), di permanere  come assoluta identità nel continuo dileguare degli opposti.

La percezione del persistere nel mutare

Il movimento può essere visto tuttavia solo dal punto di vista dell’io che osserva, che vede sorgere e tramontare il sole nascere e perire, laddove il sole nella sua verità resta fermo. Finché non si è guadagnata consapevolezza del persistere del sé in tutti questi mutamenti, infatti, questi ultimi appaiono scollegati tra loro. Non si ha quindi la percezione del persistere nel mutare. Senza la consapevolezza, l’essere resta sempre nella sua forma: uno, immutabile e indivisibile. Un po’ come la freccia, rappresentata da Zenone, nel paradosso di essere sempre ferma negli infiniti istanti di cui si compone il movimento, l’essere inconsapevole è immobile, non serbando da nessuna parte la memoria del suo mutare.

Che abbia ragione Parmenide o Eraclito, che cioè il mutare sia una volta illusione l’altra volta l’essenza delle cose, resta il fatto che il mutamento può essere percepito come tale solo in quanto passaggio dall’inconsapevolezza (inconscio) alla consapevolezza (conscio). Questo passaggio può avvenire solo dal lato della coscienza propriamente detta (IO).

 

Il limite strutturale della coscienza propriamente detta (IO)

L’IO conosce solo nella differenza e nella separazione. Nel momento stesso in cui apprende il tutto lo dilegua nel suo contrario (il nulla). La determinazione, atto specifico della coscienza, è infatti un porre e contrapporre. Questa è quindi la condizione tragica della coscienza, che può cogliere l’universale ma lo scioglie immediatamente in coppie di contraddittori (determinazioni). La coscienza pensa l’universale e realizza il particolare. È il Nous anassagoreo che estrapola dall’apéiron inesauribile dell’inconscio coppie di contrari significanti. Se così stanno le cose, la trasformazione è per la coscienza che ne fa esperienza, un atto discontinuo, un passaggio traumatico dalla vita alla morte. Più la trasformazione è radicale è più la deflagrazione interiore è potentissima nel suo sorgere.

L’evento della nascita

Della prima grande trasformazione che è poi quella che pone in atto la vita dell’uomo non abbiamo alcuna memoria, probabilmente non a caso. La nascita è un evento doloroso, senza alcun dubbio traumatico in sommo grado. E’ simbolicamente la cacciata dell’umanità dal giardino dell’Eden. Conclusasi la gestazione all’individuo occorrerà procurarsi da mangiare, faticare per dormire, provare dolore ecc. Fisicamente è un’amputazione del corpo dal suo stesso corpo: la prima grande scissione dall’unità gestazionale. Questo primo evento costituisce indubbiamente un serbatoio inesauribile di angoscia (l’apéiron).

Dall’infanzia all’adolescenza

Ancorché il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è molto meno traumatico, è anche il primo grande evento di trasformazione del quale siamo assolutamente consapevoli, al punto tale che potremmo definire l’inizio dell’età puberale l’ingresso nello stato di coscienza propriamente detta. La pubertà è dunque in noi una seconda nascita e più precisamente la nascita della coscienza. Sotto di lei ci sono solo costellazioni di ricordi confusi e non meglio organizzati secondo un prima e un dopo. La trasformazione puberale è quindi meno repentina rispetto all’atto della nascita, ma svolta interamente dal lato della consapevolezza per così dire. È in questo senso l’opposto del nascere evento svolto tutto dal lato dell’inconsapevolezza. L’adolescenza è il trapasso alla stato di coscienza, che avviene per gradi di sviluppo sottaciuti fino all’esplosione nell’età puberale.

La pulsione sessuale e il sentimento dell’angoscia

La nascita dell’autocoscienza è quindi rappresentata nella Fenomenologia dello Spirito come l’ingresso dell’adolescente nel mondo. Nel passaggio dall’infanzia all’età adulta l’adolescente è agevolato dalla pulsione sessuale, potente almeno quanto il senso di morte che cela. In effetti in lui il richiamo alla vita si fa dirompente, consapevole e costitutivo. Il senso di morte è quindi silenziato dalla pulsione ad agire, dal desiderio (Begirde). La Begirde una volta appagata dilegua tuttavia il suo oggetto, rivelando il senso di angoscia che intendeva nascondere. Nel tentativo di appagare la sua concupiscenza, l’adolescente fa dunque esperienza dell’angoscia, prodotta al contrario di quello che si crede non già dal desiderio mancato, ma da quello appagato (cupio dissolvi). Il desiderio di possedere l’oggetto, di consumarlo, infatti, lo dilegua proprio nell’essere appagato. Se è pur vero che subito dopo la coscienza può rivolgersi ad un altro oggetto, per un breve istante ha fatto esperienza dell’angoscia. La sua pulsione vitale lo ha messo di fronte al nulla che ha prodotto con il suo stesso desiderare.

La vita chiama con sé sempre la morte, l’esperienza dell’unità dell’incontro sessuale quello della separazione estrema.

A questo livello l’incontro amoroso non è da intendersi come in contro di anime (autocoscienze che si sanno come tali). E’ piuttosto l’incontro di un’autocoscienza inconsapevole ancora di cioè che è, che non riconosce nell’altro un’altra autocoscienza come lei. L’anima nel suo sorgere è sola, inconsapevole di ciò che vuole. La pulsione sessuale così posta come concupiscenza non mette a tacere il nulla da cui è nata, al contrario lo lascia riaffiorare. L’angoscia di morte fiorirà in una valle incapace di essere saziata dal fiume sempre in piena delle pulsioni sessuali. Questo “schianto” originario per la coscienza appena sorta,  rimanda in verità al primo ben più robusto del suo ingresso nel mondo di cui però non ha memoria.

Il sentimento dell’ignoto

In questa  fase si sperimenta “la sensazione” tumultuosa e tiranna del nulla che bussa alle porte, il terrore senza nome. Il lupo delle fiabe che ingoia la bambina insieme ai suoi buoni propositi abbandona il terreno fervido dell’immaginazione per presenziarsi nella sua ignota consistenza. L’anima del mondo non riconosciuta come tale si insinua nelle valli del sogno e pervade indisturbata gli incubi del giorno. Avanza dentro l’Io quella che, non riuscendo a definirla meglio, da adolescente io stesso chiamai La sensazione.  Vivevo già allora nella consapevolezza che definirla era un toglierle il fondamento (a lei e a me).

Di qualsiasi cosa si tratti, questa angoscia originaria, vissuta come “oscura”, ci illumina sul luogo da cui proveniamo e quello nel quale con ogni probabilità ritorneremo. Fosse anche soltanto una rappresentazione ancestrale  resta valido il monito cristiano “polvere eri e polvere ritornerai”. Almeno matericamente prendiamo dalla terra molecole che restituiremo alla terra una volta trapassati. Se insieme a questo passaggio di materia per così dire ci sia anche un passaggio di spirito è questione che la cultura occidentale ha relegato allo spazio angusto della fede. Mi limito alla considerazione che un mondo fatto anche di spirito oltre che di materia è da preferire. Fosse anche illusoria l’idea del persistere nel mutare, questa illusione è costitutiva dell’essere umano e rimuoverla paga il prezzo della disumanizzazione.

L’inabissarsi della coscienza

Comunque stiano le cose la coscienza, in questi passaggi di stato dall’essere al non-essere, conserva a qualche livello una certa consapevolezza di sé. La coscienza dunque prima di cedere il passo alla nuova figura è animata da spiriti di profonda inquietudine che sussurrano in lei in modo via via più insistenza. Solo alla fine, giunta l’ora della mezzanotte, quegli spiriti faticosamente tenuti a bada risalgono allo stato di coscienza, lasciando che l’Io si inabissi nelle valli dell’angoscia.

A ben vedere ancorché preparato adeguatamente nelle profondità inconsapevoli del sé,  il passaggio di stato è un istante repentino, sottratto al tempo. L’istante è un’eternità contratta per così dire in un tempo senza tempo. Sarebbe quindi più corretto dire  che la coscienza si trattiene nel ricordo di quell’istante, non in quell’istante che si dilegua una volta posto. Appare evidente che se qualcosa “trattiene” troppo a lungo la coscienza in questo stato di passaggio, in questa angoscia senza nome, l’Io si atrofizza perdendo infine la forza di trarsene fuori. La malinconia è il sentimento che trattiene la coscienza nel ricordo, come fanno le sirene con il canto che Ulisse non vuol sentire.

La tortura del tempo immobile

„L’Eternità è innamorata delle opere del tempo.“ —  William Blake

La coscienza non sopporta l’eternità, vuole finire. Nel tempo siderale che non conosce fine, nello spazio angusto di un sé contratto fino all’inverosimile, matura dunque il sentimento dell’angoscia. Essa è il ricordo di ciò che è avvenuto fin dall’inizio e che in ogni incontro con l’alterità si ripete sempre uguale. L’anima che non riconosce se stessa nell’essere altro, persiste nell’angoscia del continuo dileguarsi, senza che dall’altro niente s’apprenda. L’anima che non è stata correttamente addestrata a perdere consapevolezza prima di addentrarsi nelle valli dell’ignoto, rischia di restare intrappolata nell’eternità dell’istante sottratto al tempo. L’angoscia così si trasforma da sentimento transitorio che accompagna il passaggio da uno stato all’altro, in angoscia esistentiva.  La coscienza definitivamente perdutasi nel mondo, si ritrae tutta in se stessa, incapace di tenere a bada la “insostenibile leggerezza dell’essere” (Kundera).

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