Ciò che muta nasce e muore, ciò che è vita eterna non muta. L’uomo pare più angosciato dalla condizione eterna che dischiude la morte che dall’idea che la vita finisca. L’esperienza della fine è infatti in lui connaturata e piuttosto frequente. Tutta la sua vita è un insieme di circostanze, situazioni, momenti che finiscono. Perché mai l’uomo dovrebbe temere la cosa che gli è più nota?
Vita eterna
Un uomo che sa solo finire, invidiato persino dagli dei, perché in lui v’è la possibilità (potenza) laddove loro vedono solo necessità, è reso inquieto dal tempo eterno, immobile, privo di significato. Il vero problema della morte allora non è che rappresenta la fine della vita, ma che pare non avere in sé una fine, in altre parole è il suo essere per sempre.
A dire il vero, in questo senso, non è tanto confortante l’idea di una resurrezione e di una vita eterna ultraterrena, quanto l’idea che la morta abbia fine il terzo giorno, privilegio concesso al dio fattosi uomo.
Perché mai la morte, la sofferenza, il dileguarsi ci appare subito meno grave se pensiamo che abbia una fine, se non perché siamo consolati dall’idea stessa che finisca?
La promessa di una vita eterna sia essa in paradiso che all’inferno non è consolatoria perché allontana l’idea della morte, della fine, piuttosto il contrario perché pone un limite alla tempo della morte. Sarebbe più corretto dire che pone la morte nel tempo, morte che non sarà eterna, ma terminerà con la resurrezione appunto.
Ciò che viene spostato nell’aldilà allora è piuttosto l’angoscia per l’eterna vita, l’inquietudine del “per sempre”. L’idea di un’eterna vita spostata nell’aldilà porta altrove la nostra angoscia, la rimanda in avanti per così dire. La morte è la fine senza fine, il sonno eterno, la cui eternità è spezzata dall’incontro con la divinità nel giudizio universale. La vita eterna, che non abbiamo ancora, pone un limite all’eternità del tempo sempre uguale che si apre con la morte. Siamo interessati alla vita eterna almeno quanto alla morte. L’una e l’altra sono condizioni disumane.
La funzione escatologica della morte
Se vale questo senso da dare all’angoscia come paura dell’ignoto (indeterminato, infinito, privo di limite), allora in qualche modo chi si smarrisce in questo tempo eterno e senza posa, andrebbe posto di fronte all’idea della fine come porta verso la salvezza. Dall’inganno del tempo eterno, sonno della ragione, ci si sveglia nello schianto che di colpo riporta alla realtà. La realtà è sofferenza, dolore, fatica ma non è eterna. Si tratta di un impatto violento con il suolo, che solo può opporre resistenza ad una ragione senza più freni. La ragione vinta dalla tentazione di mangiare dei frutti dell’albero proibito, l’albero del bene e del male, della somma sapienza e della vita eterna, viene liberata dall’idea della fine.
Un pensiero radicale forse e da maneggiare senza dubbio con accuratezza. Tuttavia pare proprio che sia dall’angoscia provata di fronte all’abisso che nasca prima il servo e poi la possibilità della sua emancipazione. Pare che compito della vita sia finire, non durare. L’essere posti di fronte all’essenza della vita è un atto liberatorio.
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