Il destino e la volontà: le ragioni di un animo inquieto

destinoDue sono le cose che lottano dalla notte dei tempi: la volontà e il destino. Le cose che desideriamo avere sono spesso in conflitto con quelle che semplicemente pare ci accadano per caso o colpa. Il destino (schicksal in tedesco) era per gli stoici lògos (e tale lo intese anche l’idealismo tedesco). Dalla parola derivano tantissimi concetti quali “legge”, “logica”, “linguaggio”, “legame”. E’ quindi un concetto molto più articolato di quello intendiamo in genere con razionale. Fatto sta che tutto ciò che accade ha sempre una “ragione profonda” (lògos spermaticòs) nel senso di “originaria” e ad un tempo capace di generare. Il lògos è quindi potenza generatrice, pensiero gravido di effetti.

Il codice della vita: un linguaggio di 4 caratteri

Per capire il senso di un’affermazione che può sembrarci astrusa e distante dalla realtà basta pensare alla vita e al fatto che tutti gli esseri viventi siano il risultato di istruzioni racchiuse nel cuore delle cellule. Il DNA è infatti un codice linguistico di 4 lettere. E’ la parola universale contenuta in ogni essere vivente. Si sa infatti che la vita parla con una sola voce, ovvero, che una data sequenza genetica indicherà sempre la stessa informazione dentro un filamento di DNA a prescindere che quello sia il DNA di una pianta, un insetto, un batterio o un essere umano.
Verrebbe dunque davvero da dire “in principio era il verbo”, che in greco suona “En archē ēn ho Logos”. L’archē è appunto lògos. I latini traducono con “In principio erat Verbumda cui la nostra traduzione italiana che come sarà facile intuire perde tantissimo del senso originario che intendevano dare i greci al testo biblico. Dio quindi in principio è solo questa razionalità profonda che abita tutte le cose. Le cose a loro volta accadono nel tempo. In conclusione Dio è la “legge” dell’accadere, il divenire eracliteo, riferendoci con questo divenire al mistero della vita.

La legge che regola tutte le cose

Tutto ciò che accade accade per una ragione ovvero una legge che è gravida di conseguenze. Sarebbe opportuno prima di proseguire chiarire in che senso debba essere interpretata la parola “legge”. In italiano “legge” è infatti sia la norma che regola gli accadimenti umani ex-post, ovvero li disciplina dopo che questi sono accaduti premiandoli o sanzionandoli, che la “legge” fisica che ci permette di sapere ex-ante, quindi prima, date determinate condizioni, cosa accadrà. Questo secondo senso era non a caso quello più studiato dagli stoici, perché meglio interpretava il loro concetto di lògos. Stiamo parlando del sillogismo deduttivo da loro introdotto: “Se a e b, allora c“, Se vengono poste vale a dire alcune condizioni di partenza, la conclusione sarà necessaria. “C” accade perché è accaduto prima “A” e “B”. “Se c’è il sole e siamo dalla parte giusta dell’emisfero sarà giorno”.
Questo è dunque l’altro senso di lògos inteso come legge, o legame tra le cose che accadono (C è legato ad A e B, che a loro volta dipendo da D, E e così via). Gli eventi sono quindi concatenazione logiche, sequenze ordinate e non casuali “dettate” da un verbo che le ha pre-dette, nel senso letterale di dette prima. Questo legame che intesse tutte le cose, ci appare imperscrutabile, ed è quindi inteso appunto come fato, solo perché non cogliamo le infinite relazioni che regolano il tutto:
“Il cielo sa le ragioni e i disegni dietro tutte le nubi, e anche tu lo saprai quando ti eleverai così in alto da vedere oltre gli orizzonti” (Richard Bach)
La questione allora diventa una sola: se questo destino è preordinato, in che misura siamo liberi? Siamo infatti liberi perché capaci di scegliere e dunque operare sulla base della nostra volontà. Siamo anche esseri umani, distinti dagli animali, proprio perché capaci di esercitare la nostra volontà. Eccolo dunque dispiegato l’eterno conflitto di cui parlavo prima: Il destino contro volontà.

Il destino e la volontà: storia di un’eterna lotta

 
Se esiste un disegno superiore, non siamo liberi, oppure, se siamo liberi siamo in grado di intervenire sul quel destino modificandolo; destino dunque che in questo secondo caso sparirebbe dietro l’ombra della nostra capacità di determinare gli eventi. Come a dire o la ragione, interpretata come volontà, appartiene a noi o al destino che in quando lògos, nel senso di cui sopra, annullerebbe la nostra volontà.
Gli stoici paiono uscire agilmente da questo cul-de-sac. Per i greci infatti la nostra volontà è essa stessa logòs. I nostri pensieri sono fatti della stessa pasta che ha generato il mondo per così dire. Sempre per gli stoici dunque compito dell’uomo era ELEVARSI fino al punto di vista logòs spermaticòs
Questo in verità è un approccio spiritualista assai diffuso sia presso la filosofia occidentale che orientale. L’idea è quella di percorre gradi di conoscenza che sono ad un tempo livelli di approfondimento della realtà e attraverso questa guadagnare livelli crescenti di dominio sul sé e sulla realtà stessa.
Così come succede con un quadro impressionista, stando schiacciati sul quadro, non vediamo altro che puntini colorati privi di senso. Il lògos spermaticòs visto dal punto più basso della conoscenza individuale appare privo di criterio e informe, in una sola parola irrazionale.  Più alziamo lo sguardo, allontanandoci da noi stessi, più quei punti scriteriati acquistano la forza e la maestà di un progetto intelligente. 
Alzando lo sguardo l’insieme degli eventi subiti per caso, acquista la forza inesorabile di un destino comunque inevitabile. Insomma che le cose accadano per caso o per necessità resta il fatto che non potevano non accadere, in quanto indipendenti dalla nostra volontà. A questo punto a nulla serve opporsi al destino. Occorre piuttosto assecondarlo, accettarlo, comprenderne le ragioni. La moneta di scambio per questo salto conoscitivo è quindi l’indifferenza che i greci chiamavano atarassia: assenza di turbamenti o emozioni. L’atarassia è però l’esatto opposto della volontà. L’animo che desidera è in continuo perturbamento, una corda tesa verso l’oggetto del proprio desiderio.
Per gli stoici quindi non può che vincere il lògos, la battaglia semmai non va nemmeno imbandita: non serve al salmone risalire la corrente, ma piuttosto procedere in favore di vento verso il proprio destino, quello scritto a caratteri cubitali fin dall’inizio nel codice della vita.

Atarassia e destino ineluttabile

Per valutare il disegno complessivo del tutto ci siamo vale a dire talmente allontanati da noi stessi che tutto ci appare piccolo, indifferente, irrilevante, in quiete e perciò stesso inquieto. L’atarassia è il mare calmo della sera di fronte al quale troviamo ristoro.  
Ciò che ad ogni modo deve essere chiaro è che la razionalità che permea il tutto, le ragioni profonde per cui le cose ci accadono, non hanno una loro propria volontà. Ed è questo il secondo senso in cui volontà e destino sono contrapposti. La ragione di cui abbiamo parlato fino ad adesso infatti non vuole nulla. Come il sasso non cade perché vuole, ma perché deve, come lo scorpione punge la rana perché quella è la sua natura, le cose accadono semplicemente perché devono accadere.
Il Lògos “tutto sà” e “tutto può”, ma nulla sceglie perché nulla vuole, ancorché ottiene tutto ciò che sapeva e poteva. Noi invece siamo l’esatto opposto, vale a dire, pura volontà. Ma se le cose accadono per necessità il nostro volere è vano: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità”.

Il cristianesimo e l’annullamento della volontà

L’atarassia vista dal punto di vista del lògos individuale (non da quello della ragione universale) è dunque nichilismo:

Il sole sorge, il sole tramonta
e si affretta a tornare là dove rinasce.
Il vento va verso sud e piega verso nord.
Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
Tutti i fiumi scorrono verso il mare,
eppure il mare non è mai pieno:
al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere

Come uscire da questa impasse?

Se non siamo noi a volere, allora è il lògòs stesso che vuole e cosa potrebbe volere se non il “sommo bene”? Il logòs di cui parlavano gli stoici viene quindi  riempito di tutta la volontà fino a diventare un dio, anzi per dirla meglio l’unico Dio possibile. Il Dio cristiano non soltanto tutto sa e tutto può, ma vuole ogni cosa che accade. La volontà universale è a guardarla bene molto particolare perché nel volere tutto, non sceglie nulla. E’ dunque un fare che realizza sempre il bene, ma non sceglie il bene e quindi non può compiere nemmeno il male. Parliamo tuttavia di un bene assoluto, da non confondere con il nostro bene o meglio il nostro interesse. La volontà divina pare sappia anche il male, che però non gli appartiene, essendo generato dalla scelta dell’uomo. 

Il peccato originale

La “divina podestate, la somma sapienza e lo primo amore” per dirla con Dante diventa per tutta risposta illogica se non crudele. Pare infatti che attribuendo tutta la volontà al principio universale si cada nel paradosso di un Dio che pur sapendo cosa accadrà e potendolo evitare permette che accada. Dio permette dunque la crudeltà, la violenza, le guerre, come pure le malattie, gli uragani e tutte le altre avversità contro cui deve lottare ogni giorno l’uomo.
A nulla vale, dal mio punto di vista, il tentativo agostiniano di risolvere il male dentro l’unità del principio. Sant’Agostino era infatti così determinato a sottrarre da Dio ogni traccia del male che finì per incollarlo interamente al genere umano, introducendo così il concetto di peccato originale. 

Il paradosso della fede

A guardalo bene il peccato originale è un peccato di finitezza, connaturato all’uomo proprio perché essere finito, cioè dotato di scelta. Si arriva così alla fede, che  Kierkegaard intende bene come paradosso morale. Riporre tutta la volontà nel logòs ci ha condotto al paradosso della tripartizione degli attributi di Dio, che non può essere ad un tempo onnisciente, onnipotente e bontà infinita.

Il “paradosso” è propriamente un cortocircuito della ragione, un accettare senza volere o potere capire le ragioni per cui le cose accadono. L’atarassia si trasforma alla fine in devozione, che può essere intesa come supina accettazione di un destino, che si accetta come “giusto”, anche quando è severo e grava su di noi come risultato della nostra colpa, se non individuale almeno originaria.

Il logòs diventa dogma di fede, un “si” in condizionato che a guadarlo bene ha tutta l’aria di una parola già scritta, di un silenzio che accompagna la meditazione. La parola del credente è l’afasia di una ragione che non può dire senza contraddirsi.

Il puro volere e la ribellione dell’animo inquieto

 
Tuttavia né stoicismo, né cristianesimo risolvono il grande problema della volontà individuale. Il puro volere dell’animo inquieto che nel sorgere per ciò stesso si ribella a qualunque destino: “volli, sempre volli e fortissimamente volli” (V. Alfieri). La volontà pretende di esercitare i suoi diritti, per così dire: la devozione presto si tramuta in rancore e più tardi in angoscia.
 
La scelta autentica è infatti sempre una DEVIAZIONE dal sentiero tracciato. Questo è particolarmente facile da capire per un adolescente, che pone il suo diritto alla scelta e l’affermazione del sé proprio deviando dal sentiero tracciato per lui dal padre.
La volontà sepolta nella supina devozione, guarda adesso a Dio come a un soggetto crudele, che potrebbe impedire il male, ma semplicemente non lo fa. La sua ferma determinazione è adesso quella di diventare artefice del proprio destino: “Faber est suae quisque fortunae” era il motto rinascimentale. L’uomo è artefice del proprio destino.

La libertà: l’insostenibile leggerezza dell’essere

L’homo faber di cui parlavano i rinascimentali è dunque il giovanotto che si ribella al destino che per lui era stato scritto, essendo fermamente convinto che con il suo operato possa contrapporsi al fato. Egli è dunque libertà pura che impone al destino senza dargli alcuna alternativa. Insieme alla libertà l’individuo scopre tuttavia la responsabilità.

Egli non ha più colpe che gli appartengono in quanto insite nella sua intima natura, ma di cui infondo, proprio per questa ragione, non ne è responsabile. Tuttavia l’affermazione della propria libertà comporta il farsi carico delle conseguenze inevitabili delle proprie scelte. Mentre c’è sempre l’assoluzione per i propri peccati, non c’è perdono che cancelli la responsabilità del proprio operato. Essere liberi vuol anche dire essere responsabili delle cose che ci accadono, che questa volta sono interamente dipese da noi, dalle nostre scelte e non più da un destino crudele che ci sovrasta.

L’Io si aspettava di poter imporre la propria volontà e con ciò determinare se stesso. Si ritrova invece a provare le vertigini dell’altura, l’angoscia di fronte al prodotto delle proprie scelte dentro le quali però non si riconosce affatto. Hegel definiva questa passione, l’impulso che prova l’Io di fronte alla propria essenza non riconosciuta come tale e per ciò stessa vissuta come l’assoluto altro da sé: il nulla. L’anima che cercava la propria libertà scopre un incomprensibile senso di morte.

La scelta apre infatti le valli dell’ignoto. E’ perciò un sentiero interrotto, una biforcazione che ci fa percorrere luoghi non tracciati e di cui non sappiamo nulla. Dalle tenebre di un mare indistinto, dalle nubi di un orizzonte opaco, sorge come un germoglio tremolante l’IO, “scelta originaria” di sé e ad un tempo angoscia di fronte all’indeterminato.

L’Io è la volontà di potenza

La volontà individuale deve per forza farsi carico di questa angoscia, di questa “insostenibile leggerezza dell’essere“. La volontà deve farsi pura ed in questo senso potere e sapere tutto. I tre attributi di Dio vengono allora concentrati in un punticino minuscolo che in sé sprigiona la forza dell’intero universo: la volontà di potenza, che nel sapere e potere è al di là del bene e del male. La volontà di potenza in una sola parola supera il paradosso della tripartizione divina divenendo essa stessa un paradosso morale.

Nietzsche parlava di Volontà di potenza come della volontà che vuole se stessa, impersonale e intesa come perpetuo rinnovamento dei propri valori. La volontà di potenza non è desiderio concreto, ma il continuo desiderare come “tensione verso” o corda: “L’uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo, — una corda tesa su di una voragine”.
Il desiderio vuole continuamente e senza sosta il suo stesso accrescimento, dato che il desiderio è pulsione infinita di rinnovamento. Il superuomo nel suo volere supera continuamente se stesso, assume su di sé l’insostenibile responsabilità dell’essere, tutto il peso della volontà creatrice. E’ dunque una “corda”, una “tensione”, un legame che però da uno dei due lembi ha una voragine, in questo senso è un continuo “tendere verso”.

La riconciliazione del destino

 Di nuovo la soluzione diventa allora il lògos, questa volta inteso come “trama” della vita. L’io nel suo volere deve comprendere il suo “legame profondo” (logòs spermaticòs) con tutte le cose che sono:
“le radici profonde non dubitano mai che la primavera arriverà” (Martin Ruby).
La rinuncia a se stessi è il segno di una riconciliazione universale:
Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto cio’ che si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non e’ l’uomo che ha tessuto le trame della vita: egli ne e’ soltanto un filo. Tutto cio’ che egli fa alla trama lo fa a se stesso
Questa la conclusione cui giunge il capo indiano di Seattle nella famosa lettera di contestazione all’acquisto di parte della terra di cui era a capo. L’uomo non ha tessuto la trama della vita, ma è legato a quella stessa trama di cui è un filo.
“Tutto ciò che viene dalla terra è buono” si legge tra le righe di quella lettera. Questo non può che suonarci familiare, visto che quel destino era già stato inteso come necessario e quindi giusto. Tutto ci che ci accade ha però adesso un senso di fronte agli occhi dell’uomo riconciliato, perché sente che quel destino gli appartiene o meglio che lui stesso appartiene ad un destino più grande.
L’uomo riconciliato sceglie ciò che era sin dall’inizio, “diventa ciò che è”. Sceglie se stesso, sceglie la sua appartenenza alla vita. Dentro le profondità del suo abisso l’Io non scopre se stesso ma la vastità del cosmo, l’universale volontà che più non lo sovrasta, ma che gli appartiene. L’anima inquieta trova pace quando comprende di essere parte del tutto, che adesso non prova più a dominare, ma che semplicemente gli appartiene.
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