L’Italia ai tempi del Coronavirus

Coronavirus il nuovo virus dal passato

L’articolo non è dedicato al coronavirus, non è un articolo scientifico, ma terapeutico, nel senso letterario di medicina doloris come intendeva la filosofia già Seneca. Quando si sta male, fa sempre bene sapere che qualcuno c’è già passato. Occorre, allora, appoggiarsi a chi ha più esperienza, a chi magari condivide la nostra stessa difficoltà o almeno pensiamo possa riuscire a capirla. Si chiama riconoscimento. Una roba che da Socrate in poi ha a che fare con noi, ma è bisognosa dell’altro (Platone, Alcibiade 132d-133c).

Riconoscere è infatti un conoscere due volte (dal latino “re” = “di nuovo”). Questo perché il riconoscimento richiede che siano almeno due persone a farlo e che lo facciano vicendevolmente. Vi citerei la dialettica signoria-servitù, ma in pochi sanno che non è a quella che bisogna guardare, dentro la Fenomenologia dello Spirito, quanto piuttosto alla dialettica (che la chiude) Coscienziosità-Anima bella. Qui vi basti sapere che l’altro significato di riconoscere è “confessare”. Si riconoscono, per esempio, le proprie colpe. Ma perché mai le “colpe” andrebbero conosciute due volte? Non basta una volta sola? Infondo io so di aver sbagliato, me lo tengo per me e amen.

Riconoscimento e perdono: l’abbraccio della storia

Il sunto della questione è che il male, ovvero la colpa, è negli occhi di chi guarda per così dire, dunque nel giudizio dell’altro su di noi. Chi ha tempo legga la celebre “Pragmatica della comunicazione umana”, gli altri possono rivolgersi a  questo. Anche in questo caso il discorso è più semplice di quel che si crede. Se voglio vedere il mio viso devo guardarmi allo specchio, se voglio vedere la mia coscienza lo specchio sono gli altri. Da come mi vedono gli altri, dipenderà il modo con cui mi vedo io. “Conosci te stesso” è un riconoscersi nell’altro e viceversa (reciprocità):

Il cristianesimo e la colpa

A me spiace non ancora essere arrivati al dunque, ma la colpa non è mia, bensì del cristianesimo che inventò proprio il concetto di “colpa”, ovvero di “peccato”. Nelle parole di Socrate su Alcibiade pare infatti filare tutto liscio. I greci eran così o filava tutto liscio perché si rispettavano le regole o bisognava che chi compiva l’errore accettasse le naturali conseguenze delle stesso (catarsi). Nella maggior parte dei casi era la morte a ripristinare l’equilibrio iniziale (tragedia).

A ben vedere, quindi, è finita meglio a noi cristiani dacché abbiamo piuttosto sublimato la catarsi attraverso il concetto di “colpa”, ovvero di “perdono”. Insomma è morto il figlio in croce una sola volta, il peccato ce lo portiamo dietro per sempre.  Non è tuttavia la nostra di morte che libera dall’errore, quanto piuttosto il perdono dello Spirito Santo, probabilmente inteneritosi. Finiti i della morte dei primogeniti maschi (Esodo, 11: 4-7) ve la farà pagare nell’aldilà per sempre. La catarsi finale si trasforma piuttosto in un giudizio universale posticipato in un tempo senza tempo.

Della colpa e del perdono: la riconciliazione dello Spirito

Il riconoscimento diventa allora un dialogo (dià= “due”, lògos “ragione”) all’interno del quale il riconoscere dell’uno equivale al perdono dell’altro. Tuttavia, laddove “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, il giocattolo funziona solo se a confessare sono entrambe le coscienze. Ecco allora il riconoscimento è accompagnato da una confessione reciproca delle proprie colpe. Il perdono e allora l’abbraccio fraterno delle due coscienze, testimonianza della riconciliazione universale. Come vedete non sono di parola e la dialettica “Coscienziosità – Anima bella” ve lo spiegata lo stesso.

Questo però mi sarà costato almeno la metà dei miei lettori, cui avviso di prendersi una pausa prima di continuare.

L’abbraccio con il  passato: la psicoterapia della storia

Quando tuttavia è una intera generazione di persone che sta affrontando una crisi emotiva e fisica collettiva? Chi sono questi “altri” che possono venirci in soccorso? Quando succede che un evento generale solleva, dal ventre della terra, gli umori maligni del mondo, gli unici che possono venirci in aiuto sono le generazioni passate, la nostra storia. Il riconoscimento non può essere orizzontale per così dire, tra pari, ma verticale tra generazioni. Occorre guardare alla storia, che insegna solo a patto che ci sia qualcuno che voglia imparare.

Coronavirus il passato che avanza

Il volto è il teatro dell’uomo. Lì è il più nudo e il più mascherato.
(Roger Judrin)

La crisi ci intima di stare distanti, separati dal un muro invisibile della nostra paura. L’ansia è la nebbia che è calata a coprire i volti delle persone oscurati da ogni nostra espressione. Qualcosa traspare dagli occhi, che guardato smarriti. Non eravamo così fragili da tanto tempo. Non eravamo così aggressivi, angosciati e privati dei nostri punti di riferimento… Forse non lo eravamo mai stati.

Quelli del boom economico

Già… la nostra generazione è figlia dei figli del miracolo economico. I nostri padri ricordano la fame di una guerra che gli è stata solo raccontata, ma noi siamo i figli del benessere poco abituati al sacrificio, alla fame e “coccolati” da una medicina che ci ha abituati (a torto) all’idea che per ogni cosa c’è una soluzione.

Per i nostri nonni era diverso, si moriva semplicemente perché si viveva. Adesso che piovono bombe dal cielo, non di metallo ma di materiale geneticamente attivo, siamo costretti a guardare bene le cose e per farlo abbiamo bisogna di diradare la nebbia, l’ansia.

L’ansia è un fiume che scorre, occorre guardare da dove viene per capire dove intende portarci. In quest’ottica guardare alla storia prima e ai dati attuali può essere utile a dare una corretta luce al problema, perché questa non è affatto la prima pandemia che conosce l’umanità e come vedremo, nemmeno la peggiore.

L’amore ai tempi del colera

E’ il titolo del famosissimo romanzo dello scrittore colombiano  Gabriel García Márquez, Premio Nobel per la letteratura, pubblicato nel 1985 in lingua spagnola e con una tiratura milionaria. E’ però anche l’icona della più recente epidemia che ricordi l’Italia e che la coinvolse direttamente, prima di quella odierna ovviamente.  Nel 1910 scoppia il colera a Napoli, Geddings scrive turbato a Roma, comprensibilmente, visto che il colera nel 1884 aveva ucciso 6.000 persone (due terzi dei decessi totali dell’epoca). Allora non c’era la quarantena, ma circa 60 mila persone erano fuggite dalla città per rifugiarsi in campagna. I poveri spostatisi tutti dalle campagne in città, che non avevano ville, ovviamente, morivano prima e di più.

Questo ve lo ricordo ogni volta che vi lamentate perché lo Stato prova, nonostante voi, a salvarvi la vita. Il colera allora arrivava dall’India e Geddins erano più di dieci anni che lo studiava. Le autorità del tempo tuttavia negarono, sostenendo che le febbri erano piuttosto gastroenteriti (febbre napolitana). Passerà un mese prima che le autorità italiane ufficializzassero l’epidemia (e questa non dovrebbe suonarvi nuova come cosa).

Napoli caput mundi

Da Napoli partivano ogni giorno centinaia di persone per i porti americani, perché allora gli immigrati che portavano malattie eravamo noi (e portavamo anche criminalità organizzata). L’8 Settembre Geddings annuncia alle autorità americane l’esistenza della epidemia: “vivevo nel paradiso degli ingenui, degli stolti” scriverà più tardi.

Il mondo era globalizzato anche allora e le ragioni per cui l’Italia decise di provare a nascondere l’epidemia sono sempre quelle: i soldi. Il governo allora guidato da Giolitti dichiarò quindi l’epidemia finita dopo nemmeno un mese, anche se in realtà continuò fino alla primavera dell’anno successivo. Il contagio ovviamente arrivò negli Stati Uniti, anche a causa del silenzio di Roma, dove comunque l’epidemia fu contenuta per tempo. Quando l’Italia invase la Libia nel 1911 i soldati portarono in regalo il colera ai residenti, cui stavamo dando le note lezioni di democrazia. La Francia venne contagiata probabilmente sempre attraverso i suoi porti (allora non c’erano glia aerei).

La Spagnola: l’influenza fatale

E’ meglio conosciuta come influenza spagnola. Si tratta di un’influenza insolitamente mortale, chiamata così perché la sua esistenza fu riportata soltanto dai giornali spagnoli. Era forse l’unico stato non coinvolto nel conflitto bellico in Europa e la sua stampa poteva dedicarsi a cose che non fossero il bollettino di guerra. Pensa un po’ tu che culo, l’influenza e la guerra!

Era un ceppo di virus H1N1, primo del suo nome, nato dalla tempesta… no scusate quella è un altra cosa. Fu in verità il primo dei Coronavirus a dimostrarsi fatale per l’uomo. Arrivò ad infettare 500 milioni di persone e provocare 50 milioni di morti su una popolazione mondiale di 2 miliardi. Fu la pandemia più grave della storia dell’umanità. Per chi non conoscesse cosa sono gli H1N1 basti ricordare che è un ceppo di influenzavirus di tipo A, che a loro volta appartengono alla famiglia degli Orthomyxoviridae. I quali nemmeno a dirlo si dividono in virus dell’influenza A, B, C, D, Isavirus, Quaranjavirus e Thogotovirus (non chiedetemi perché non hanno continuato con le lettere).

Darwin e le modifiche genetiche che NON fa l’uomo

Tutti gli influenzavirus sono a RNA, ne esistono di diversi sottotipi, in accordo con le possibili combinazioni tra le diverse forme di emoagglutinina (H) e di neuraminidasi (N). Questo tipo di virus saranno sempre HN.

Il più famoso fu proprio H1N1 che causò l’influenza Spagnola di cui sopra e quella Russa del 1877-78 non ché la più recente influenza suina. Ricordiamo però anche l’H3N2 nota anche come influenza di Hong Kong del 1969 o aviaria, simile a quella asiatica del 1957 (H2N2). L’H3N2 era già stata causa dell’influenza Russa del 1889-1895 (6 anni). l’H5N1 causò invece la più recente influenza aviaria (per la seconda volta). Ma perché mai un virus “nuovo” fa una strage, sparisce e poi ritorna come nelle peggiori serie horror? Ce lo spiegò bene Darwin: tutti siamo soggetti a modifiche genetiche “naturali”, che per lui erano frutto di combinazioni casuali.

Sia dia il caso che il virus sia la “vita non-vita” più semplice che esiste in natura e che una volta entrata nella cellula ospite sfrutti proprio il suo DNA per moltiplicarsi. Quante sono le probabilità, dunque ,che sfruttando una fabbrica non tua, si commettano errori di trascrizione? La risposta e tante, tanto più quando le specie animali infettate sono più di una. Mentre dunque il vaiolo che infettava la mucca a noi faceva un baffo, ma ci proteggeva da quello che infettava noi, delle volte succede l’esatto contrario.

Quello che fa un baffo ad altri animali, fa ammalare violentemente noi. Lo scambio crociato uomo-animale è il principale responsabile delle mutazioni dei virus, che comunque mutano, anche nel passaggio da uomo a uomo. Solitamente, ma non è una regola, lo fanno in senso adattivo, ovvero depotenziando nella sua capacità di generare la malattia. Siamo già, credo di ricordare, ad un 27 varianti del Coronavirus isolate.

Chi vuole pensi che le mutazioni siano naturali, gli altri che siano indotte dalla manipolazione umana, infondo la ciccia non cambia. Il fatto è che mutano e mutano abbastanza in fretta.

La peste nera del’300 e il “trionfo” della morte 

Tutto questo è però nulla se paragonata alla grande peste. Era nera come la notte che non lascia speranza, come il lutto che cancella ogni colore, come il giudizio universale che muove il grande mondo. La più nota pandemia della storia dell’uomo.

Ebbe inizio negli anni ’30 del XIV secolo. Si diffuse dall’altopiano della Mongolia, attraverso la Cina (si sempre loro). Nel 1347 arrivò in Sicilia e poi Genova  per poi passare alla Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia e Irlanda. Siamo quindi già a due pandemie che passarono dall’Italia verso il resto del mondo (l’attuale è dunque la terza). Ma non potrebbe essere altrimenti perché allora come oggi siamo nel bel mezzo del mediterraneo, tra Cina ed Europa. Qui non è la storia che insegna, ma la Geografia.

Il tasso di mortalità per la peste allora era del 50%: moriva un malato su due. Considerando che pensavano di curarli togliendo loro sangue infondo è andata anche bene (ah… la scienza e le sue solide certezze!). Tra le fake news di allora girava per altro voce che fossero stati gli ebrei a causare il contagio. Molti parlarono invece di castigo di Dio (quello della Somma Bontade di Dante). Si deve alla peste anche il Decameron Di Boccaccio.

Quest’ultimo ci da ancora una volta l’dea di come funzionava la sanità una volta. Mentre a Firenze imperversava la peste, un gruppo di sette donne e tre (solo tre) uomini, per far passare il tempo si raccontavano delle storie a vicenda. La cornice dell’opera del maestro rinascimentale ci dice dunque due cose: 1) le nobildonne del tempo erano particolarmente frigide (o l’omosessualità più diffusa di quel che si crede), 2) solo i ricchi sopravvivevano in una sorta di “Grande Fratello VIP” dell’epoca.

Il Coronavirus: ogni volta è sempre come la prima volta?

Se siete arrivati sin qui vuol dire che sono stato particolarmente bravo a non annoiarvi, ma anche che siete sufficientemente svegli per capire dove voglio arrivare. Non si tratta affatto della prima pandemia e per tutto quello che vi ho raccontato non si tratta nemmeno di quella più grave. Questo perché nel frattempo sono migliorate le condizioni generali di vita (più igiene, meno malnutrizione, ecc.) e perché per fortuna la medicina ha fatto qualche leggerissimo passo in avanti da quando curavamo i malati con il salasso.

Il COVID ha un nome di rappresentanza che è SARS-CoV-2. Come per tutti i virus esiste infatti il nome del virus e quello della malattia che provoca. La sigla sta infatti per severe acute respiratory syndrome coronavirus. Indica cioè la sintomatologia. La scelta del nome da dare alla malattia è importante, perché segna nell’immaginario collettivo ciò a cui prestare attenzione.

Purtroppo pare sempre più chiaro che la sindrome respiratoria è solo il sintomo emergenziale, ma niente affatto l’unico. Andò molto peggio però con l’AIDS (Acquired Immune DeficiencySindrome) chiamata inizialmente GRID (Gay-related immunodeficienc /immunodeficienza correlata all’omosessualità). Carino vero? Questo nome non solo suonava vagamente discriminatorio, ma aveva lo svantaggio di portare largamente fuori strada. L’omosessualità ovviamente non centrava nulla, quanto piuttosto le pratiche sessuali non protette. In tutti i casi il virus che provoca l’AIDS è l’HIV (Human immunodeficiency virus/ virus portatore di immunodeficienza nell’uomo). Il virus che provoca la SARS nel nostro caso è il CoVis-19.

Il buon nome di famiglia: Orthocoronavirinae

Il cognome del CoVis-19 è Orthocoronavirinae della famiglia Coronaviridae, del sottordine Cornidovirineae, dell’ordine Nidovirales. Avete presente il trono di spade: “Nata dalla tempesta”, la prima del suo nome, regina degli Andali, dei Rhoynar e dei Primi Uomini, signora dei Sette Regni, protettrice del Regno, principessa di Roccia del Drago, khaleesi del Grande Mare d’Erba, la “Non-bruciata”, “Madre dei Draghi”, regina di Meereen, “Distruttrice di catene”. Qui è uguale.

Esattamente come i Targaryen questi virus qua sono particolarmente aggressivi. Della stessa famiglia abbiamo già avuto il piacere di conoscere il primo SARS-CoV scoperto nel 2002, MERS-CoV scoperto nel 2012 e adesso con il nuovo fiammante  SARS-CoV-2 del 2019. Il nome “coronavirus” deriva dal termine latino “corona“, a sua volta derivato dal greco κορώνη (korṓnē, “ghirlanda”), che significa “corona” o “aureola”. Ciò si riferisce alle spinule. Il primo caso di Coronavirus risale però al 1912 e venne isolato per la prima volta da veterinari tedeschi.

Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?

Nel 1960 venne isolato un virus influenzale che causava comuni raffreddori. I ricercatori erano quindi convinti che questa simpatica famigliola fosse poco nociva e capace di causare nell’uomo solo sintomi lievi, finché non comparvero i tre dell’apocalisse di cui sopra.

La loro pericolosità consiste invece, come visto, nel fatto che passano spesso dall’uomo all’animale e viceversa e hanno quindi un’estrema mutabilità. Il genere di interesse per l’uomo è il Betacoronavirus. Quello che causava quasi tutti i raffreddori stagionali i bei tempi che furono.

I magnifici sette

La variante SARS del Coronavirus neanche a dirlo comparve la prima volta in Cina nel 2002 (Guandong). La sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus (MERS) comparve nel 2012 in Arabia Saudita. E nel 2019 a Wuhan è successo quello che tutti sappiamo: è arrivato il più incazzato della famiglia, quello che nessuno evidentemente invitava per le feste: il SARS-CoV-2. La sua somiglianza genetica con il precedente è del 70%. Di seguito l’elenco:

  1. Coronavirus umano 229E (HCoV-229E)
  2. Coronavirus umano OC43 (HCoV-OC43)
  3. Coronavirus umano NL63 (HCoV-NL63)
  4. Coronavirus umano HKU1 (HCoV-HFU1)
  5. Coronavirus da sindrome respiratoria acuta grave (SARS-CoV)
  6. Sindrome respiratoria mediorientale da Coronavirus (MERS-CoV), conosciuto anche come Novel Coronavirus 2012 (2012-nCoV) e Human Coronavirus Erasmus Medical Center/2012 HCoV-EMC/2012
  7. Coronavirus 2 da sindrome respiratoria acuta grave (SARS-CoV-2), conosciuto anche come Coronavirus di Wuhan, responsabile della malattia COVID-19.

La trasmissione dei coronavirus tra umani avviene principalmente attraverso le goccioline respiratorie emesse da un individuo infetto mediante tosse o starnuti, che successivamente vengono inalate da un soggetto sano che si trovi nelle vicinanze. Sembrerebbe che sia possibile infettarsi anche dopo aver toccato superfici o oggetti ove sia presente il virus e portando successivamente le mani verso la propria bocca o verso il naso o gli occhi.

Nulla di nuovo sotto il sole?

La differenza principale rispetto agli altri è che il periodo di incubazione per il nuovo arrivato è di 8-14 giorni. Periodo nel quale, seppur limitatamente, il paziente infetto è contagioso. Il tasso di contagiosità oscilla tra 1,4 e 3,8. Insomma un individuo malato ne infetta fino ad altri quattro in un arco temprale massimo di 14 giorni. Il suo genoma è identico all’89% al SARS-like-CoVZXC21 diffuso nei pipistrelli e solo il 40% degli aminoacidi coincide con quello della precedente SARS.

Persistenza del virus

Diverse ricerche cercano di stabilire la persistenza del SARS-CoV-2 su vari tipi di superfici e ambienti anche in relazione alle condizioni variabili di temperatura, umidità, ecc.

Aria

Ricerche indicano che il virus può rimanere infettivo negli aerosol per ore mentre sulle superfici fino a giorni. Infatti, la COVID-19 è trasmessa dagli aerosol, in cui occorrono circa 66 minuti affinché si dimezzi il numero delle particelle di virus vitali. Il 25% mantiene ancora la virulenza dopo poco più di un’ora e il 12,5% della carica virale persiste dopo circa tre ore. 

Metalli e altri materiali

Sull’acciaio inossidabile, per dimezzare la carica virale sono necessarie 5 ore e 38 minuti. Sulla plastica, invece, l’emivita è di 6 ore 49 minuti; sul cartone l’emivita è di circa tre ore e mezzo. La carica virale sul rame si dimezza più velocemente che altrove, dove la metà del virus viene inattivato entro 45 minuti. Perché tengono i libri chiusi in un sacchetto per una settimana? Boh… perché non han voglia di leggere forse.

Acqua

I sistemi di sanificazione delle acque potabili dovrebbero garantire di rimuovere o inattivare il virus, così come quelli delle piscine e delle vasche di idromassaggio.

Al 23 marzo 2020 si ritiene che il rischio di trasmissione della COVID-19 attraverso i sistemi fognari sia basso; pur non potendolo escludere del tutto a oggi non ci sono prove che ciò si sia verificato. Nell’epidemia di SARS del 2003, è stata documentata la trasmissione associata agli aerosol delle acque reflue; per cui va monitorata l’efficienza dei sistemi di clorazione delle acque reflue. Una ricerca indica come la ricerca con Wastewater-Based Epidemiology (WBE) individua efficacemente i casi positivi di SARS-CoV-2 stimati dai titoli virali delle acque reflue è di ordini di grandezza maggiore del numero di casi confermati clinicamente; questo facilità le autorità a comprendere meglio la progressione il tasso di mortalità e la progressione della malattia.

Cosa causa il COVID?

Fatte le dovute presentazioni andiamo alla ciccia. La sintomatologia da Covid è nota a tutti e questo articolo non vuole di certo scavalcare gli studi che si stanno facendo in merito. La domanda che sorge spontanea è tuttavia: ma se non è affatto un virus “nuovo” per sintomatologia, né per modalità di trasmissione, perché fa così paura? La risposta sta tutta nel tasso di contagiosità, da cui dipenda la violenta velocità di trasmissione. Supponiamo che ci sia un paziente zero, isolato per noi a Codogno.

Codogno caput Mundi, 0vvero 3 – 0 Italia, Ovest del mondo

Questo tizio ha camminato per 14 giorni tranquillo, felice, beato e asintomatico, contagiando fino a 4 persone, che a loro volta sono andate vagando in giro indisturbate contagiando altre 4 persone ciascuno nell’arco di 14 giorni (e siamo già a 16). Il resto del conto fatevelo da soli. Fatto è che appena il primo manifesta il sintomo, BOOM! Compaiono a catena tutti gli altri. Il risultato è un sistema sanitario in tutto il mondo in forte sovraccarico.

Come risolvi il problema nell’immediato? Come ai tempi della peste, con la differenza che provi a salvare tutti e non solo i ricchi: tutti a casa per 15 giorni. Per quale ragione? Per far scendere quel numerino da 3.8 (4 contagiati per un infetto) al numero più basso possibile in modo da RALLENTARE artificialmente un tasso di contagiosità naturalmente più alto. Rallentare dunque, non impedire, perché nessuno ha la pretesa di impedire la diffusione di un influenzavirus. Questo è solo questo è il senso di: MASCHERINE, COPRIFUOCO, e forti e dolorose limitazioni delle libertà individuali. Occorre far fare una cosa che il virus fa malvolentieri: zampettare da un individuo a un altro.

Dati epidemiologici andiamo ai numeri

Certo che gli ultimi rimasti a leggere l’articolo saremo io e gli algoritmi che controllano che in rete che non vengano dette castronerie sul Covid, perché ho fatto questa lunga premessa? Perché penso che l’ansia non sia MAI un sentimento adeguato a gestire l’emergenza e fidatevi di uno che lavora in area di emergenza. Serve calma, serve lucidità, serve prendersi tempo per capire e agire in modo coordinato e COERENTE.

Sono tutte cose che purtroppo non stiamo facendo. Si è passati da una sottovalutazione del problema (si mangiavano involtini primavera, rassicurando chi arrivava dalla Cina) ad una esasperazione comunicativa (l’esercito dispiegato su Codogno) e poi di nuovo a una sottovalutazione “estiva” e di nuovo un esasperazione dei toni. Queste montagne russe non fanno bene, né alla credibilità delle istituzioni, né all’emotività che le interiorizza. Occorre serietà, rigore, disciplina, ma anche una giusta strategia comunicativa. Comunicare nel modo giusto è ESSENZIALE proprio adesso, che i pazienti non devono correre al primo starnuto al pronto soccorso, ma se possibile essere curati a casa dal medico di famiglia.

I problemi non vanno negati, ma nemmeno esasperati. In quest’ottica vale la pena dare un’occhiata ai primi dati epidemiologici italiani. La fonte è il ministero della salute:

“Eppur si muove”: la forza dei numeri

La frase che Galilelo Galieli mai citò per davvero all’indomani del suo processo e che ne scongiurò la morte è emblematica per la modernità. Mentre Giordano Bruno fu mandato al rogo, perché reputava l’anima mortale (e rompeva anche un po’ il caxxo), Galieli (che pure lo rompeva) potè fingersi pazzo. Questo successe perché la verità, poggiava sui numeri e poteva fare a meno di lui. Non era la SUA verità, ma apparteneva ormai al mondo, per il semplice fatto di averla compresa. Bruno invece dovette morire e non per difendere la sua verità, ma LA verità, quella di fede, che è salvata solo dalla testimonianza.

Quando siete nel panico guardate sempre allora prima i “numeri”, do infatti per scontato che li preferiate al rogo. I “fatti” hanno una forza oggettivamente e sono una buona base su cui accampare ragionamenti. “Una rondine non fa primavera” diceva già Aristotele: un singolo malato non è statisticamente rilevante (Galilei). Questo però non vuol dire che non abbia importanza o non sia una vita per cui valga la pena lottare anche con il corpo (Bruno).

Voi non ci pensate forse ma “statistica” e una delle forme aggettivate di “stato”, es. pandemia-pandemico, quindi stato-statistico (o “statico” per l’altro significato di “stato”). Significa letteralmente “di stato” ma potrebbe essere meglio reso con “ciò che si occupa delle faccende di Stato”. E’ molto più semplicemente lo strumento con cui uno Stato acquisisce dei dati (es. sulla popolazione, sulla mortalità, alfabetizzazione ecc.), li analizza e decide poi cosa fare.  Guardiamo quindi ai numeri, perché è su quelli che dovrebbero essere prese decisioni difficili come imporre un nuovo lock down o la somministrazione del vaccino.

I numeri del Coronavirus

Del tasso di mortalità in generale non voglio parlare. In primo luogo perché dal mio punto di vista anche una sola vita umana ha valore, per cui non mi piace parlare in termini statistici delle persone. In secondo luogo perché in assenza di un denominatore credibile (che presto comunque avremo) il tasso è comunque ipotetico, ovvero arrangiato su un numero ipotizzato di contagi. I dati oscillano tra tassi di moralità del 18%, che tengono in considerazione solo i pazienti sintomatici (l’unico dato reale), a tassi più credibili compresi tra il 3 e lo 0.8%. Questi ultimi che sono detti invece tassi “prospettici”, ovvero tengono conto proprio dello RT per conteggiare una cifra plausibile di possibili contagi.

Ciò che a noi operatori sanitari tuttavia importa non è la cifra brutta, ma la velocità con cui la gente si ammala. La cosa che veramente importa tuttavia non è sapere quante persone si ammalano di SARS una volta infettate dal COVID-19, ma quanto velocemente questo succede. Nel caso del polmone al Pacreas, per esempio, solo l’8% purtroppo sopravvive a 5 anni, il 92% dei malati pure. Possiamo serenamente ipotizzare che il tasso di mortalità del COVID sia molto più basso. Non è importante sapere a quanto ammonta il mio debito, ma quanto in fretta lo devo ripagare. Se devo 100.000 euro ad una persona un conto è darli entro un mese un conto è restituirli in 100 anni. Quello che conta è cioè l’impatto sul nostro Sistema Sanitario Nazionale, che già arrancava da anni.

Ciò premesso, resta però sempre la forza disarmante dei numeri: la fascia maggiormente interessata dalla mortalità è quella che ci aspettavamo che lo fosse: quella compresa tra i 50 e gli over 90. Vuol dire che i giovani non si ammalano? Vuol dire che i giovani non muoiono? Assolutamente NO.

Vorrei ma non posso

Vuol dire che il SSN deve attrezzarsi a curare principalmente quella fascia di età. Vuol dire però, cosa assai più grave, che al contrario della Spagnola del secolo scorso questo virus è anche piuttosto selettivo per età. Insomma il paziente asintomatico, vettore ideale di trasmissione, è il giovane paucisintomatico, che tenere lontano dalla socialità è difficile almeno quanto tenere lontano dal QUEL vasetto di marmellata. Esistono poi i bambini cui impedire di mettersi tutto in bocca è praticamente impossibile e che si infettano con qualsiasi cosa, ma raramente sviluppano sintomatologia clinicamente rilevante.

Andiamo a concludere con l’ultimo grafico per età, che intendo mostrarvi e che chiarisce ancora meglio come è distribuito il paziente critico (quello che occupa le terapie intensive per capirci) oltre che quello fortemente sintomatico (che sta letteralmente saturando i nostri ospedali).

Guardate il rosso e l’arancione nel grafico di sotto. La fascia interessata è quella perinatale E quella che va dai 30 agli over 90. Quindi anche i giovani sviluppano sintomatologia grave, ma come è giusto che sia hanno più chance di farcela.


 

Per concludere

Un articolo che spero non turbi l’occhio dello specialista, serve a riportare la gente alla normalità. La normalità è che di COVID-19 si muore, come si muore però di infarto, di tumore, di incidenti stradali e di mille altre cose. Dobbiamo imparare a convivere con questa malattia e stare sereni, che non vuol dire non prestare la massima attenzione a tutto PIUTTOSTO IL CONTRARIO. Esattamente come per l’HIV, che non era la malattia dei gay, abbiamo imparato a proteggerci dall’altro usando il preservativo e non scambiandoci le siringhe infette, esattamente come per HCV abbiamo capito che era meglio il monouso, adesso dobbiamo imparare a difenderci in modo diverso dall’altro.

La compagnia degli anelli 

L’HIV era una malattia che aveva a che fare con gli sconosciuti, come del resto HCV. Nessuno di noi avendo un compagno/a (perché non ce ne frega niente dei vostri gusti sessuali) dentro una relazione stabile pretende che si usi il preservativo. Quante volta il fratello assaggia dalla stessa forchetta? Insomma le grandi infezioni virale erano quelle che ci suggerivano di proteggerci dagli sconosciuti, cosa che prima della loro comparsa non facevamo. La diffusione violenta dell’HIV dipese allora proprio dal fatto che le pratiche sessuali promiscue, da sempre esistite (ragazze e ragazzi non si raccontano storie per passarsi il tempo), non erano associate a pericolo di morte. Lo erano piuttosto altre le cose che prima spaventavano la febbre alta (infezioni perinatali), la diarrea (colera), sangue nella tosse (tubercolosi). ecc.

Prima dell’HIV e della scoperta degli antibiotici ci faceva paura altro insomma. Cose di cui nemmeno ci curiamo più, ma che prima erano associate a pericoli gravissimi. Adesso questo nuovo virus ci costringe a ragionare in modo ancora diverso rispetto al passato.Poco o tanto che duri, temo che parole come “distanza sociale” e “smart working” non ci lasceranno più.

Per il momento va sottolineato però, che il pericolo principale non ci arriva dallo sconosciuto, rispetto al quale siamo abituati da tempo a difenderci, ma al collega, dall’amico, dal familiare, insomma, da chi insomma, per motivi affettivi ci fa abbassare la guardia.

Il positivo asintomatico non è colui che è responsabile tramite la sua condotta (pratica sessuale non protetta ecc.) di averci contagiato, ma è un portatore assolutamente inconsapevole di esserlo nella stragrande maggioranza dei casi. Questo portatore può essere chiunque. L’unica soluzione è per il momento considerarci TUTTI positivi e agire pensando a questo.

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