La mia scuola: un giardino sempre verde

Ricordo ancora quando si andava a scuola, svegliandosi ogni mattina con il freddo che riempiva d’acqua le mascelle e la mano gelida a dar forma ai capelli che presto avrebbero ripreso quella che volevano loro.

Si prendeva l’autobus per andare a scuola

L’autobus era sempre pieno, e si stava stretti stretti. Di tappa in tappa il gruppo di ingrandiva, fino ad arriva davanti le porte di scuole dove flotte di ragazzini sbarcavano e li aspettavano l’orario d’entrata.

Nei gruppi c’era sempre il comico, quello dalla battuta facile, anche se non bellissimo; c’era l’intellettuale che aveva sempre il discorso pronto, quello vestito bene e quello vestito male. C’erano i mille discorsi per non entrare a scuola. Chi aveva studiato troppo poco e chi voleva semplicemente farsi un giro in centro.

Poi c’ero io che nella scuola avevo tutto il mio mondo. Ero sempre assorto nei miei pensieri, riflessioni via via più complesse. Tra i miei compagni di scuola c’erano i miei amici, gli insegnanti erano sempre stati giudizi benevoli e consolanti per me, feedback positivi, c’erano i voti che davano le loro soddisfazioni e tante cose che riuscivo a capire.

Fuori dalla scuola invece c’era quasi il nulla

Ero molto introverso, asociale, incapace di stare nei gruppi. Avevo giusto qualche amico. Non giocavo quasi mai al pallone, non ne ero capace. Ero poco aggressivo e questo in tante cose faceva la differenza. Ricordo non sfoggiassi quasi mai grandi vestiti, cosa di cui allora mi duolevo. Ero anche mingherlino e invidiamo tutti quei fisici prestanti. Fuori dalla scuola erano tutti troppo belli o troppo furbi o ancora troppo forti, insomma avevano tutti qualcosa in più. A me per sottrazione restava solo la scuola: quella scocciatura che non piaceva quasi a nessuno.Un luogo che mi soddisfaceva e proteggeva, che mi metteva in relazione in modo diverso con persone e insegnanti.

Non erano tutte rose e fiori, ma d’inverno sapevo come impegnare i miei pomeriggi. Studiavo ore, mentre mio fratello frettolosamente finiva i compiti e usciva a giocare. Avevo qualche compagnetta o compagnetto, cui davo ripetizione, che presto divennero amici e amiche. Ero fatto così, mi bastava tenermi accanto poche persone, con cui riuscissi ad interagire senza imbarazzo. Dire che stavo sempre con le ragazze però sarebbe sbagliato, stavo certamente più comodo con loro e badate bene che la considero ancora adesso una virtù. Le trovavo più riflessive, mediamente più interessate ai particolari, persino più impegnate nel sociale. Con i ragazzi non sapevo fare gruppo e non sapevo stare in gruppo. C’era sempre qualcosa da dire che non sapevo, qualche battuta da capire che non capivo, qualche telefilm di cui si parlava che non avevo visto.

Gli anni della scuola passarono così veloci e lenti allo stesso tempo.

Immerso com’ero come un pesce dentro l’acqua neanche mi accorsi di quanto fossero preziosi, difficili e complessi quegli anni. Ma i giorni stavano per finire. Giunti alla seconda metà del quarto anno, cominciai a stare male. Si insomma quando finisci le elementari sai già che ci saranno le medie e così pure quando finisci anche quelle. In tutto sono 13 anni e per un bambino che nel frattempo diventa ragazzo sono praticamente un tempo che non riesce nemmeno ad immaginare, né progettare, né programmare.

Credo e temo che fu quello innanzitutto a destarmi ansia. Allora probabilmente non seppi nemmeno dirlo bene. C’era infondo la felicità di tutto, anche mia, per la scuola che finiva e poi l’università. Tuttavia qualcosa mi diceva che non era giusto. La mia disattenzione prese la forma di un’angoscia vuota e senza forma. Di un mostro di cui si vedeva solo l’ombra, capace però di risucchiarti in un nero senza fine, profondo quanto il mistero di un futuro che non sapevo immaginare. Che fine avrei fatto all’università? Cos’era per davvero quel luogo dove frequentare non era obbligatorio, dove davi un solo esame per professore?

Badate bene, dopo un primo anno molto complicato, gli anni universitari furono ancora più belli e avvolgenti di quelli della scuola, ma questo ancora non lo sapevo. Allora sapevo soltanto che dai quei banchi non avrei mai voluto separarmi, mentre la mia età mi costringeva a farlo.

Al professore che non sono riuscito ad essere lascio questi ricordi

Credo che mi venne lì per la prima volta l’idea che avrei fatto il professore. Quando dopo aver superato le mie difficoltà e peripezie mi diplomai, trovai brillante la fantasia di poter ritornare esattamente in quella scuola ad insegnare.

Trovai probabilmente consolante il fatto che avrei potuto ricalpestare quei luoghi e che il mio ciclo scolastico in quel modo avrebbe potuto ripetersi più e più volte. Non sarei uscito da quell’ambiente per davvero, solo sarei stato dall’altro lato del banco.

Sono certo che per quanto possano sembrare controverse e articolate le strade che scegliamo di prendere portano tutte al nostro destino, anche quando quello che sentivamo essere il nostro non si realizza. Il destino appare a noi come un caso, fortuna o maledizione che sia, solo se non sappiamo vederci dentro.  Ricomporsi vuol dire anche questo: recuperare i mille sentieri e comprendere che sono uno solo, perché tutto è interconnesso. Siamo crocevia dei tanti “io” che siamo stati.

 

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