La mia divisa: la difficile vita dell’infermiere

 Uno scritto di qualche anno fa e nel leggerlo non posso fare a meno di pensare a tutti i “grazie” che ho ricevuto in questi mesi e che in dieci anni hanno piuttosto scarseggiato. Siamo stati chiamati “eroi” e finalmente qualcuno si è accorto che esistiamo. E’ successo perché in questo mare che ci ha travolti vi siete accorti che è l’infermiere che si è preso cura di voi, l’unico che poteva vedervi nel vostro dolore e non come un organo da curare.
Io non sono un medico e non curo niente e nessuno, io mi prendo cura delle persone anche quando non c’è niente o più niente da curare. E’ la mia la mano che vi tocca per pungervi, per pulirvi, per massaggiare un cuore fermo o medicarvi la ferita perforata. E’ il mio sguardo che incontrate nell’umiliazione della perdita. Incontrate me quando non vorreste che ci fossi e debbo toccarvi, me che so che non vorreste essere toccati.

Per me è così spontaneo e naturale entrare in questa zona intima, nell’intimità del vostro dolore, nello spazio angusto della fine, nella rabbia a volte sfidante, altre volte autolesionista. Sono stato lì a toccarvi quando eravate in vita e delle volte a ricomporvi quando era finita.
Non sono uno specialista e non sono stato mai accanto al vostro pancreas, colon, cuore, fegato, polmone, vescica, mente. Sono l’ospite disatteso e che non vorreste mai che arrivasse. A me non date mai del lei e io non l’ho mai dato a voi, perché tanto sappiamo entrambi fin dall’inizio che la mia presenza è tanto sgradita quanto indispensabile.
Nel mio fare c’è il paradosso del curare chi non vorrebbe affatto farsi curare, perché non vorrebbe affatto essersi ammalato. Le formalità a noi non servono perché non mi avete mai percepito come un vostro superiore, forse come un subalterno. Nel mio fare c’è un rendervi un servizio, un atto dovuto e prescritto da altri che hanno deciso per voi e per me cosa c’era da fare. Il “tu” è un arrivare subito a quel punto in cui dovrò compiere quei gesti a voi tanto sgraditi, umilianti e ci devo arrivare subito. Non c’è tempo per i convenevoli o per le presentazioni.
Io sono lì a togliere i residui sgradevoli del vostro corpo, ma credetemi quando vi dico che saturano molto di più la stanza gli scarti eterei della vostra anima (e in qualche modo devo pulirvi anche da quelli).
Tutto questo comincia con una semplice domanda: “Come stai?” e quando alla fine ricevo un “grazie” il mio compito è terminato. Ai pazienti che sto incontrando per adesso vorrei solo dire che quel “grazie” non l’ho meritato, che sono troppo fragili e timorosi per arrabbiarsi, ma che dovrebbero farlo almeno con me. Vorrei dire che il debito che credono di avere verso il mondo è un credito che almeno io dovrei pagare prima di ricevere il mio compenso. E invece non dico niente annuisco solo con il capo.

La mia divisa negli anni ha cambiato colore

Era tutta bianca con le strisce blu quando ero ancora studente. Neanche a farlo apposta ricordava l’abito delle suore di Madre Teresa cui fui legato per anni. Diventò blu con una sola striscia gialla. Il colore all’inizio pensai rappresentasse il diverso grado tra noi infermieri, ma erano invece soltanto le varie misure. Adesso è bordeaux e tante volte del colore che dico io. Me la dettero il primo giorno quando cominciai la mia nuova avventura al poliambulatorio. Il fatto che nessuno avesse la divisa doveva farmi capire qualcosa. Il primo giorno però la misi e sembravo calimero, il secondo l’accantonai.

Oggi la riprendo al pronto soccorso e la rimetto addosso col mio bel fonendoscopio, la penna nel taschino esattamente come il primo giorno e qualche anno di più sulla felpa che mi riscalda. Perché hai fatto l’infermiere spesso mi si domanda. Perché io da filosofo avevo deciso di fare quel passaggio tanto strano? Ho le idee molto chiare in proposito. Perché mi piacciono le relazioni, mi piace educare, mi piace essere un punto di riferimento per i più deboli.

Oggi la divisa mi dice qualcosa della mia identità

Come il costume per i super eroi la divisa non serve a nascondere la mia identità, ma a crearla. Senza non sarei riconoscibile. Dentro quella divisa spesso mi proteggo. Mi proteggo dai malumori, dalle ansie e dalle angosce delle persone. Come fosse l’impermeabile con la pioggia la divisa mi protegge da tutto ciò che i pazienti mi tirano addosso. Mi protegge dai loro liquidi biologici, dai loro odori, dalle loro fobie, dalle loro lamentele, dal loro egoismo. Io sono lì per loro, al loro servizio e li ascolto. Ascolto la loro paura che spesso diventa il campanello fastidioso che suona, la lamentela per la troppa fila, la rabbia per l’ingiustizia di un sistema sanitario che non funziona e di cui a nessuno frega nulla tranne che quando si è malati.

Già la giustizia. Io mi son sempre chiesto cosa centrasse la giustizia con la malattia. La malattia è la cosa più democratica che esista, ma non sa cosa sia né la giustizia, né la grazia. Raramente ho incontrato la gentilezza, pochissime volte la grazia dei gesti, ma succede anche quello. Vorrei dirvi che il malato è prezioso, che è gratificante avere a che fare con lui. Invece vi dirò che la mia divisa trattiene le parti più indigeste del mio lavoro e che solo lei riesce a non farmi restare attaccato sulla pelle tutto ciò che mi arriva addosso.

Il paziente è egoista

Tutti noi quando stiamo male lo diventiamo. E’ nella natura umana: nelle difficoltà si pensa solo a sé. Il paziente crede di essere al centro del mondo. Questo lo capisco. La sua famiglia in quel momento lo mette al centro di ogni interesse e sforzo. Ma in un ospedale non può certo avere la pretesa di essere il solo. Al paziente spesso non interessa quanto tu sia stanco o oberato di lavoro. Non gli importa e pensa solo all’ingiustizia che sta subendo, perché io sono sano come un pesce e a lui manca l’indipendenza in quel momento.

La malattia lascia emergere il lato più autentico di noi. Ed è per questo che mi attrae. Lascia emergere le complesse dinamiche familiari. Il figlio accompagnato dalla madre per il suo piccolo problemino, la moglie che conosce alla lettera la sintomatologia del marito, l’anziano che viene da solo in ritardo e con tutti i documenti fuori posto. In questi anni ho sentito più lamentele che ringraziamenti, più rimproveri che apprezzamenti e tutto mi è scivolato addosso.

Io lo immagino esattamente così il supereroe. La gente, se c’è ne fosse uno, presto comincerebbe a lamentarsi con lui: “Perché salvi lui e non me, perché permetti questo e quell’altro… dov’è la giustizia!”. E tu li salvi, ma a loro importerebbe solo della macchina nuova fiammante che gli hai distrutto. Già me li immagino le lamentele. E poi vuoi mettere se qualcuno non lo salvi? Staremmo lì ore e ore a commentare come si fa con i calci di rigore, dimenticandoci che infondo il pallone è tondo come il mondo e va dove vuole. Dimenticandoci che le cose accadono perché accadono e che nella vita in effetti non decidiamo quasi niente.

Siamo solo dei poveri illusi convinti di decidere qualcosa, convinti di valere qualcosa, di essere diversi da qualsiasi altra cosa in questo mondo

Siamo egocentrici e forse è questa l’unica vera malattia. La morte non lo è. E’ un destino ed è forse l’unica verità che in tanti anni di filosofia sono riuscito a trovare. L’unica cosa vera di questa vita è che moriamo. Ma il nostro Dio ci ha mentito. Ci ha mentito promettendoci un’aldilà che non vedremo, un cielo che possiamo solo guardare dal basso.  “Noi non moriamo” ci siamo detti. “Noi sopravviviamo alla morte”: questa è la convinzione dell’occidente. Da questa bugia deriva la pretesa assurda che a tutto ci sia una cura, a tutto una soluzione. E’ questa l’arroganza del malato e ad un tempo la fonte della sua frustrazione.

Tutto questo ogni giorno mi resta attaccato sulla divisa

Me lo scrollo di dosso a fine turno, me lo porto dentro nei miei giorni senza posa, nel mio tempo che scorre da solo e lontano dagli altri. Che sia mattina o notte che vuoi che importi a chi la sera non è sotto le sue lenzuola. Che sia domenica o Natale cosa vuoi che cambi per chi ha una flebo sempre in mano? E a nessuno importa. Perché quello è il tuo lavoro. Pare una giustificazione a tutto: è il mio lavoro, non il mio DNA. Non sono diverso dagli altri o geneticamente modificato. Sotto la divisa son di carne ed ossa anche io.

Sono pochi i grazie che ho ricevuto e non li cerco neanche, perché la mia divisa mi protegge anche da quelli. Perché la lusinga è anche peggiore della lamentela e a me non interessa né questa, né quella. Dietro tutto questo però resta la fragilità. Ecco la parola che nessuno ha voglia di pronunciare. Il paziente è fragile, ferito, indifeso rispetto alla sua malattia, ma soprattutto rispetto a me che lo debbo aiutare. E’ costretto a fidarsi in un ambiente a lui ostile, nelle corsie sempre troppo piene, che però sono casa mia. La mia divisa tuttavia protegge anche lui, lo protegge dalla sua e dalla mia fragilità. Nonostante tutto restiamo io e lui e nelle nostre fragilità sappiamo vederci meglio che altrove. In quel luogo siamo più autentici e reali ed è allora che capisco che la divisa non nasconde, ma dispiega; non copre, ma svela.

 

/ 5
Grazie per aver votato!