L’intimità nell’era dei social: la relazione perduta

L’intimità dopo facebook

Mentre uno dei miei tanti impasti lievita e con le mani ancora  unte di burro volevo impegnare il mio e il vostro tempo parlandovi dell’intimità. Oggi i mezzi informatici ci permettono di accedere con più facilità ad informazioni, contenuti, confronti spinosi e pornografia. Questo non lo reputo di per sé un male, badiamo bene. Vengono di un sol colpo superati tabù, inibizioni e soddisfatte le proprie curiosità personali. I social hanno insegnato un nuovo modo di comunicare, di accedere all’informazione. Hanno disegnato il nuovo cittadino globale, privo di confini interni, asessuato, amorfo e disposto a farsi spiare dal buco della serratura.

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Più in generale viviamo nell’epoca dell’esteriorità, dei social, del selfie. Si tratta di attirare verso noi l’occhio clandestino dello sconosciuto. Lo facciamo accedere alla nostra zona intima che in inglese chiamiamo privacy. Come fossimo guanti girati al contrario tutto ciò che abbiamo dentro lo tiriamo fuori. Di nostra iniziativa e contenti di guadagnare “like”.

Vedo il problema di condividere la propria intimità, anche in chi è genuinamente interessato a coinvolgimenti emotivi e sentimentali, a relazioni autentiche. Come se si trattasse dell’amor perduto, la si cerca dove proprio non c’è più. Credo che questo dipenda in grossa misura dal fatto che questo spazio è continuamente violato e nei fatti disabitato. L’intimità è uno spazio interiore, la casa dell’anima, una stanza cui nemmeno noi entriamo tanto spesso. E’ una cosa rara, che ha a che fare con il sesso molto più di quello che si crede. Il corpo perfetto, messo in mostra, l’attenzione per il particolare e persino l’ansia del nudo sono contrari all’intimità vera. L’intimità, la dimensione del privato, la relazione viene continuamente violata.

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Di questa violenza non siamo però né vittime, né complici, ma proprio responsabili. L’io in questa epoca non è dissolto, ma esploso, in modo tale che tutto ciò che era dentro salti di colpo fuori a macchiare lo schermo di un pc, o tablet o telefonino. Gli schizzi tracciati sul muro dei social, che scorre inesorabilmente verso il basso, sono residui organici del sè. Elementi deteriorati dell’io che osserviamo come fossimo medici d’autopsie. Queste nature morte sono in realtà decomposte. In questa vuota presenza ogni lacerazione viene fotografata e l’immagine, che perde il calore delle cose vive, non trasmette neanche l’olezzo delle cose putrefatte.

Il pudore: l’amico dimenticato

Niente è più erotico e sentimentale del pudore: il rossore del viso che acconsente e lascia l’altro toccare la propria pelle. Il pudore non è la vergogna, ma l’esigenza di proteggere noi stessi e di lasciare al tempo stesso che l’altro, quando vogliamo, diventi ospite gradito. Il pudore è un confine sottile che poniamo tra noi e l’altro, un confine estetico ed etico assieme. E’ infatti innanzitutto una questione di buon gusto esporsi o non esporsi pubblicamente. La pudore dipende però anche  la nostra capacità di creare un confine e dunque la possibilità di stare ora dentro o fuori. Senza di esso restiamo come budini collassati senza niente attorno che ci sostenga.

Il punto è che questa intimità, questa capacità di guardarsi per quello che si è nelle proprie debolezze, impurezze, zone grigie è difficile da conquistare. L’intimità è uno spazio che può essere molto scomodo, in primis per noi stessi. Il primo passo è dunque proteggerla dallo sguardo indiscreto di chi ama guardare dal buco della serratura.

La vergogna nemica dell’intimità

La vergogna al contrario è il più grande ostacolo verso l’intimità.  Chi si vergogna di se stesso non è capacità di guardarsi dentro, di abitare quello spazio complesso della propria interiorità. L’intimità infatti è lo spazio del quotidiano, del maleodorante, della forma imperfetta, dalla fatica quotidiana, dello stress, della rabbia. Insomma dentro l’intimità ci siamo noi stessi e se rifiutiamo questo incontro con i nostri lati più spigolosi, fragili, inibiti, egoisti, superficiali rifiutiamo la possibilità di un incontro autentico con l’altro. Se rifiutiamo di guardare noi stessi fino in fondo, non incontreremo mai l’altro per davvero.

Può sembrare paradossale ma è più la vergogna di noi stessi a creare l’esigenza di metterci in mostra che non l’autostima. La messa in posa, la ricerca della linea perfetta e l’esigenza stessa di desiderare un like, nascono da una profonda mancanza di fiducia verso noi. La relazione viene completamente decostruita e come fossimo in un talent show ci ritroviamo sopra un palco con i nostri giudici di fronte ad emana sentenze. C’è più intimità in uno sguardo complice di un sorriso che nella nudità frettolosa del primo incontro.

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Abitare la propria casa è la condizione per condividerla con gli altri

L’intimità con sé stessi si conquista da soli. Solo dopo si può provare a condividerla. Non si possono condividere spazi dentro i quali non entriamo nemmeno noi. Ecco perché è la capacità di stare soli con se stessi, di ascoltarsi senza giudicare, di accarezzarci senza toccare è la prima condizione per costruire una buona relazione. Chi salta questo momento, chi crede che possa essere l’altro con il suo sguardo, a regalarci stima in noi, chi proietta nell’altro le proprie aspettati non è capace di costruire la sua casa. E’ nell’aspettarsi che l’altro sappia fare cose che non riusciamo a fare noi, che nasce l’esigenza di mettersi in mostra, di lasciarsi osservare attendendo un giudizio.

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Indifferente però è che quel giudizio sia positivo o negativo, la relazione ha già perso la sua reciprocità, la sua intimità. Non ci si incontra più nell’abbraccio, ma nella divisione dei ruoli giudicato/giudicante.

I social ci hanno trasformati nei cittadini globali, capaci di condividere in rete immediatamente ogni informazione e contenuto. Ma cosa resta della relazione quando lo spazio dell’intimità viene continuamente violato? L’intimità, che in inglese suona “privacy” è un prezzo inevitabile da pagare? Dipende paradossalmente da queste “condivisione” continua su facebook nell’ansia del “like”, la nostra incapacità di condividere? Voi che ne pensate?

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