Pomponazzi e il Concilio Laterano V
Nel 1513 il concilio laterano V approva la bolla Apostolici regiminis, che sancisce il dogma dell’immortalità dell’anima umana. Appena tre anni dopo, nel 1516, Pietro Pomponazzi, ormai celebre filosofo e medico pubblica il suo Trattato sull’immortalità dell’anima. Nel testo discute le diverse interpretazioni della teoria aristotelica dell’anima.
Il Trattato approda alla conclusione che “quello dell’immortalità dell’anima è un problema neutro”. E’ un problema vale a dire razionalmente indecidibile, risolto soltanto dalla rivelazione divina. Una posizione agnostica sicuramente sgradita ai numerosi teologi che ritenevano con Tommaso d’Aquino. Per essi l’immortalità dell’anima fosse dimostrabile, ma perfettamente in linea con quanto avevano sostenuto sin dal XIV secolo altri teologi, a iniziare dal francescano Duns Scoto.
Un nuovo modo di discutere
Pomponazzi dichiara sin dall’inizio di muoversi a un livello di analisi puramente “naturale”.Un’analisi che intende vale a dire prescindere dai dati rivelati e assume come punto di partenza la complessità dell’uomo. Questi ha una “natura indeterminata” e si colloca in una posizione intermedia fra gli esseri mortali e quelli immortali.
Tanto premesso tuttavia il Trattato non è strutturato come quelle dispute nelle quali i filosofi medievali e rinascimentali si limitavano a discutere “per esercizio” retorico. Pomponazzi si muove certamente con grande cautela. Esamina le varie concezioni dell’anima umana con eccezionale sottigliezza dialettica. Presenta obiezioni e contro-obiezioni a ciascuna di esse. Le tesi in competizione non vengono però considerate equipollenti, giacché una soltanto viene ritenuta razionalmente plausibile. Insomma si tratta di un vero e proprio saggio contro le tesi formulate dal concilio.
Per queste ragioni a Venezia il Trattato finisce addirittura al rogo. Pomponazzi viene denunciato per eresia dal frate agostiniano Ambrogio Fiandino. Solo grazie al sostegno del potente cardinale Pietro Bembo, Pomponazzi evita gravi conseguenze. Gli viene comunque ordinato da Leone X di ritrattare quanto ha sostenuto “contro la determinazione del concilio”.
Le tesi contro l’immortalità dell’anima
La caratterizzazione dell’uomo come essere “molteplice e ancipite”, posto al confine fra il mondo temporale e quello eterno sembra richiamare idee di ispirazione platonica. In realtà Pomponazzi dedica ben poca attenzione alla concezione dell’anima di Platone e si confronta invece si da subito con Aristotele. In particolare prende in considerazione le letture di Averroè, di Tommaso d’Aquino e quella di Alessandro di Afrodisia.
Contro Averroé
Dopo aver aderito in giovane età alle diffusissime idee di Averroé Pomponazzi pare definitivamente convinto che l’ipotesi più probabile è che l’anima intellettiva individuale sia mortale. Il Trattato propone, infatti, una critica severa tanto della posizione di Averroè quanto di quella di Tommaso. Richiamandosi a Tommaso, Pomponazzi sostiene che la dottrina dell’unità dell’intelletto è falsa sul piano filosofico. E’ inoltre inaccettabile sul piano esegetico, perché attribuisce ad Aristotele idee da lui mai professate.
Lo spirito della modernità si erge già in Pomponazzi in tutto il suo vigore. Egli in un sol colpo affonda il principio di autorità medievale e adduce contro di esso la lettura diretta del testo. Aristotele infatti – insiste Pomponazzi – ha insegnato che il pensiero umano necessita sempre di “immagini” che, seppur smaterializzate, derivano dalla nostra esperienza sensibile. Ciò significa che nessuna attività dell’anima umana è totalmente indipendente dal corpo. Quindi non si può dimostrare che l’intelletto sia separabile e immortale.
Contro Tommaso D’Acquino
Pomponazzi è dunque contro Averroè, che ipostatizza l’intelletto facendone una sostanza separata unica per l’intera umanità. Egli tuttavia rivolge la sua critica contro lo stesso Tommaso. Quest’ultimo concepisce invece l’anima intellettiva come la forma sostanziale del corpo. Pretende tuttavia che essa sia una forma capace di sopravvivere (nella sua individualità) dopo la morte del corpo. Pur dichiarando che tale posizione è vera, Pomponazzi la considera l’espressione della fede cristiana. Gli nega cioè un fondamento razionale e la considera contraria al pensiero aristotelico.
Per Pomponazzi è filosoficamente assurda l’idea che l’anima abbia un’esistenza separata da esso. Essa è infatti unita al corpo come una forma e capace di conoscere solo grazie ai materiali offerti dai sensi. E’ assurdo pensare che esista una funzione del corpo dotata di capacità conoscitive paragonabili a quelle delle Intelligenze celesti. Ancora più assurdo è ritenere che, dopo la resurrezione della carne, ciò che si era separato si riunisca nuovamente al copro. Si tratterebbe di “farneticazioni”, paragonabili alle favole pitagoriche sulla trasmigrazione delle anime.
La critica di Pomponazzi è a ben vedere più radicale. Egli infatti considera il tentativo tomista di fondare su Aristotele il dogma dell’immortalità dell’anima come l’espressione emblematica di quella tendenza a “mescolare i diversi brodi”. Critica cioè la tendenza medievale ad appiattire l’uno sull’altro le idee dei grandi pensatori. Di allineare tutti ai dogmi della fede. Questo rappresenta a suo avviso il maggior difetto della cultura cristiana dal medioevo in avanti.
La posizione dell’uomo nella natura e i diversi “tipi” di uomini
Con abile mossa polemica, Pomponazzi cerca dunque di evidenziare le profonde affinità fra le posizioni, apparentemente antitetiche, di Averroè e di Tommaso d’Aquino. Esse rappresenterebbero due diverse versioni di una stessa erronea lettura “spiritualista” di Aristotele. Sarebbero frutto di una interpretazione che pretende di attribuire all’intelletto un destino separato dal corpo. Questo destino che non gli appartiene e che lo eleverebbe al rango delle Intelligenze celesti. Poco importa poi se questo intelletto è uno o molteplice quanto la molteplicità degli individui.
Il principio della gradualità della natura, concepita come una struttura gerarchica che non prevede discontinuità, impone invece – secondo Pomponazzi – di riconoscere che l’intelletto umano è una forma intermedia. Esso si colloca a un gradino inferiore rispetto agli Intelletti totalmente separati dalla materia, ma al di sopra delle facoltà sensitive. Né è totalmente immerso nella materia né pienamente separato da essa. L’intelletto umano non opera attraverso un organo ma necessita, per iniziare la sua attività, delle “immagini” ricavate dall’esperienza sensibile.
Secondo Pomponazzi dalla celebre definizione aristotelica dell’anima come “atto primo di un corpo naturale organico” non si può che trarre una conclusione: l’anima umana è mortale “in senso assoluto” e immortale solo “relativamente”. In altri termini essa non sopravvive alla morte del corpo e quindi è “veramente mortale”. Può tuttavia “impropriamente” esser detta immortale perché nell’attività di pensiero riesce a elevarsi sopra il mondo materiale e corruttibile. Riesce vale a dire a conoscere il mondo intellegibile, immateriale ed eterno.
L’uomo e il cosmo
Risulta allora chiaro perché l’analisi della concezione aristotelica dell’anima si intreccia con una più generale riflessione sulla posizione e funzione all’interno del cosmo dell’uomo. Le affermazioni iniziali sulla natura umana “indeterminata” e “ancipite” dell’uomo sono state spesso accostate alla concezione della dignità dell’uomo (capace di abbassarsi a livello bestiale oppure di innalzarsi a un’esistenza quasi divina) diffusa nella tradizione neoplatonica. Per Pomponazzi resta tuttavia che l’uomo non è un essere privo di natura e quindi capace di assumere qualsiasi natura. E’ invece un essere che per sua natura occupa una posizione intermedia fra il regno del corruttibile e quello dell’incorruttibile.
Tanto Averroè quanto Tommaso d’Aquino, secondo Pomponazzi, sono caduti nell’errore di non prendere sul serio la tesi aristotelica che tutte le sostanze sensibili sono composte di materia e forma.
La concezione dell’anima di Pomponazzi
Se però si pensa l’uomo come una vera unità psicofisica, si è condotti a riconoscere che l’anima è una forma corporea. Le sue capacità intellettive – che pure non necessitano di un organo – sono capacità del corpo. Non per questa ragione possono mai esercitarsi in modo del tutto indipendente dal corpo. L’anima umana è semplicemente la forma di un corpo. Vive e muore insieme al corpo e opera con esso. Non può quindi elevarsi alla conoscenza pura, non discorsiva propria delle Intelligenze separate e di Dio.
L’anima umana ha ciononostante un “odore” di immaterialità. E’ simile agli “dèi” perché ha capacità intellettive e può esercitare la volontà. Rappresenta quindi la più alta fra le “forme materiali”, superiore a quelle dei vegetali e degli animali. Benché appartengano a un unico genere, però, gli uomini si differenziano fra loro per capacità, funzioni, livello di perfezione. Se le differenze individuali sono potenzialmente infinite, è possibile almeno distinguere tre grandi classi, o per meglio dire tre “tipi” di uomini.
Al livello più alto si collocano coloro che, dominano completamente le loro componenti vegetative e sensitive. Sono divenuti quasi completamente razionali e devono perciò essere “annoverati fra gli dèi”.
Al livello più basso vi sono coloro che coltivano solo la loro “parte vegetativa e sensitiva” a scapito dell’intelletto. Divengono quindi quasi bestie.
In una fascia intermedia si collocano infine gli uomini “puri” – gli uomini “normali”, “qualunque” – che non si abbandonano solo alle loro funzioni corporali. Sono però incapaci di consacrarsi alla sola attività intellettuale. Vivono moderatamente, seguendo le virtù morale.
La fondazione dell’etica e la critica della religione
Proprio questa sua concezione gerarchica e organicista della società consente a Pomponazzi di risolvere alcune delle più rilevanti obiezioni all’ipotesi mortalista. In effetti, dopo aver presentato quell’ipotesi con cautela Pomponazzi risponde sistematicamente agli argomenti tradizionalmente presentati contro di essa. In particolare a quelli che evidenziano le gravi conseguenze etiche, politiche e religiose di questa posizione.
- Poiché l’uomo ha un innato desiderio di felicità e di immortalità, è possibile che esso sia vano e non venga mai soddisfatto?
- È concepibile un’etica per chi non crede in una vita dopo la morte?
- La credenza nelle punizioni e nei premi nell’aldilà non è indispensabile alla coesione sociale?
- Se non c’è un destino ultraterreno perché alcuni uomini spingono il loro altruismo fino al sacrificio della stessa vita?
Nel dare una risposta “almeno probabile” a simili quesiti Pomponazzi combina elementi aristotelici e stoici. Gioca inoltre sulla tensione presente all’interno dello stesso pensiero aristotelico fra la concezione dell’uomo come “animale razionale” e la concezione dell’uomo come “animale politico”. L’omo raggiunge la suprema felicità sviluppando le sue capacità conoscitive in una vita interamente dedita alla contemplazione filosofica e si realizza nella vita associata.
L’etica e le sue basi
Pur con qualche tensione e incoerenza, Pomponazzi giunge così a gettare le basi di un’etica autonoma e “mondana”. Un’etica che non assume come sua indispensabile premessa l’idea che l’uomo sia destinato a una vita ultraterrena.
A suo avviso tutti gli uomini sono dotati:
- di un intelletto fattivo, che sovrintende alle inferiori funzioni produttive).
- Sono datati di un intelletto pratico (che conosce la distinzione fra bene e male e governa la vita morale).
- Sono dotati di un intelletto speculativo (che esercita le funzioni puramente conoscitive).
Ora il fine del genere umano nel suo insieme è di esser partecipe di quei tre intelletti”. L’uomo tuttavia non può realizzare questo fine se non si conserva. La virtù inoltre è indispensabile alla sua conservazione. Da questi ragionamenti Pomponazzi deduce che la moralità è un fine “umano comune”, funzionale alla sopravvivenza del corpo sociale.
Tutti gli uomini, quindi, devono partecipare perfettamente dell’intelletto pratico. Solo relativamente devono però partecipare gli altri due. La moralità è quindi il fine che tutti gli uomini devono perseguire. Ciò che può condurre tutti alla felicità. Questa infatti si raggiunge vivendo conformemente alla virtù e svolgendo correttamente la propria funzione all’interno della società.
La religione come “favola” le ragioni di un’eresia
La mortalità dell’anima non pregiudica il raggiungimento di questo fine, pienamente attuabile nella vita terrena. Non rende vale a dire impossibile il conseguimento della felicità. Tuttavia, gli uomini sono diversi e non tutti sono così “ben disposti” da ricercare la virtù di per sé. Per questa ragione il timore di punizioni e la speranza di premi eterni svolge un’indispensabile funzione sociale. Punizione e premio inducono gli uomini a comportarsi rettamente e a rispettare le regole. È per questo motivo che i legislatori, hanno diffuso la credenza nell’immortalità dell’anima.
Si tratta però di una semplice trovata, paragonabile alle favole che le balie usano per convincere i bambini a fare quel che esse sanno essere utile per loro. In questo modo Pomponazzi delinea l’immagine, fortemente pessimistica, di un’umanità puerile. Un’umanità che ha bisogno di essere irreggimentata tramite la minaccia di future punizioni o rassicurata con la speranza di una beatitudine di là da venire. Egli finisce, però, per mettere in questione il valore stesso delle religioni rivelate.
L’affermazione è forte. La chiesa è infatti capace di raccontare favole, palesi bugie, contro la ragione e contro i fatti pur di addomesticare il popolo, sia pure nel tentativo di procurargli un utile.
Pomponazzi chiude il Trattato in disaccordo con tutto ciò che ha scritto in esso. Afferma di credere fermamente che l’anima è immortale. Ribadisce che ciò non è dimostrabile tramite la filosofia, ma solo in base agli strumenti peculiari della fede.
Conclusioni
Sappiamo in primo luogo che le polemiche intorno a questo testo non influiscono sulla carriera accademica di Pomponazzi, che continua a insegnare a Bologna. In secondo luogo è indubbio che il clima venutosi a creare intorno a lui ha però condizionato le ultime fasi del suo percorso intellettuale. Nel 1521 dichiara ai suoi studenti che, poiché ha rischiato di essere scorticato come un animale da pelliccia, non sa più che dire sul destino dell’anima umana. L’anno seguente, ultimata la stesura del De incantationibus e del De fato, decide di non pubblicarle.
L’immagine delle religioni come favole dotate di un’utilità politica indipendente dalla loro verità o falsità eserciterà una profonda influenza sulla cultura europea sino a tutta l’età moderna. Quali che fossero le sue personali intenzioni, Pomponazzi diverrà per secoli uno degli autori preferiti di libertini eruditi, atei e teorici dell’“impostura” delle religioni.
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