Niccolò Cusano: Riassunto. Dal finito all’infinito.

LA RINASCITA DEL NEOPLATONISMO

Malgrado il consistente perdurare di una tradizione filosofico-scientifica ispirata fondamentalmente all’aristotelismo, non c’è dubbio che la corrente filosofica di maggior rilievo nel Quattrocento fu il neoplatonismo, del quale si produsse una vera e propria rinascita ad opera soprattutto del tedesco Nicola Cusano, sicuramente il più grande filosofo del secolo, del catalano Raimondo di Sabunde e dei due italiani Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola.

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Vita e opere

 Nicola Krebs nacque nel 1401 a Kues (in latino Cusa), presso Treviri, in Germania, da cui prese il nome di Cusano. Studiò a Heidelberg, a Padova e soprattutto a Colonia, alla scuola dell’albertista neoplatonizzante Eimerico da Campo. Fattosi sacerdote ebbe come suo primo interesse la pacificazione della Chiesa, allora divisa dalla questione hussita. 

 Perciò partecipò al Concilio di Basilea (1432) e in quell’occasione scrisse la sua prima opera, De concordantia catholica. Sostenne la superiorità del Concilio sul papa e l’indipendenza dell’Impero dal Papato. Riavvicinatosi tuttavia alla linea del papa Eugenio IV, fu da questi inviato a Costantinopoli per preparare l’unione della Chiesa ortodossa con quella cattolica. Ivi apprese il greco, che gli consentì la conoscenza diretta delle opere dei filosofi antichi (Platone, Aristotele, i neoplatonici).

Tornato in Italia, fu inviato dal papa Niccolò V in Germania per guadagnare i vescovi tedeschi alla causa papale. Il successo nella sua missione gli giovò la nomina a cardinale e vescovo-principe di Bressanone. Qui fu spesso in lotta con i duchi d’Austria (gli Asburgo). Fu perciò costretto a tornare a Roma, dove fu vicario di papa Pio II per gli Stati pontifici. Morì a Todi nel 1464. Le più importanti opere filosofiche del Cusano sono De docta ignorantia, De coniecturis, Idiota, De beryllo, De mathematica perfectione, De pace fidei.

La dotta ignoranza

Il concetto di dotta ignoranza è al centro non solo del testo omonimo (De docta ignorantia, 1440), ma di tutta l’opera filosofica di Niccolò Cusano. Introduce il primo degli ossimori che caratterizzano la sua dottrina filosofica. Mutuato dalla tradizione neoplatonica e agostiniana, tale concetto si riconnette esplicitamente a Socrate. L’unica forma di sapienza è quella di non sapere. Solo questa consapevolezza è infatti in grado di innescare la ricerca della verità.

Sul concetto di “dotta ignoranza” Cusano fa il perno di una vera e propria dottrina della conoscenza. Essa pone al proprio centro il carattere finito e limitato della conoscenza umana. Sottolinea allo stesso tempo l’inadeguatezza a farsi un concetto appropriat del divino (che è infinito) e della verità delle cose finite. Sapere, per l’uomo, significa prendere coscienza della propria congenita impossibilità di conoscere le verità assolute.

Dotta ignoranza è quindi il punto di partenza della conoscenza. È il giusto atteggiamento del saggio di fronte alle forme del sapere. L’unico metodo che gli permette la conoscenza autentica e la consapevolezza del valore necessariamente parziale di ogni sapere. Il sapere resta in ogni caso una congettura. L’unica possibile relazione intellettuale col divino rimane la teologia negativa. Di Dio con certezza può dirsi solo ciò che non è.

Finito e infinito in Nicola Cusano

L’assunto socratico del “so di non sapere” è piuttosto interpretato in chiave mistico teologica. Il finito non può appropriarsi sino infondo di ciò che non ha fine, non gli appartiene: “Ogni ricerca è comparativa, in quanto impiega come mezzo la proporzione [e] perciò l’infinito come infinito, sfuggendo a ogni proporzione, è ignoto”. Per spiegare il rapporto sempre imperfetto tra la conoscenza umana e la natura infinita di Dio, Cusano si avvale dell’aiuto della matematica e della geometria. 

Come il poligono può approssimarsi sempre più, all’infinito, alla circonferenza nella quale è inscritto, senza tuttavia poter mai coincidervi, così la conoscenza umana può solo avvicinarsi alla verità. Un esagono avrà perciò maggiore pienezza di un triangolo. Sarà più aderente alla perfezione del cerchio. Così un ottagono rispetto all’esagono e così via. Per quanto tuttavia i numeri dei lati si possano aumentare all’infinito questi non avranno mai la stessa perfezione del cerchio. L’infinito (Dio, sommo bene ecc. ecc.) hanno dunque valore regolativo. Orientano vale a dire la ricerca del vero, senza che però questa stessa venga mai raggiunta a pieno.

Cusano, tenendo sempre come punto di vista la geometria, mostra ancora come nel passare dall’ambito del finito a quello dell’infinito i tradizionali modi di descrivere la realtà mutino di significato. La logica del finito non è infatti applicabile all’infinito. In esso le differenze scompaiono, come nell’essere parmenideo si dileguavano le parti e il movimento. Dio è dunque circonferenza, diametro e centro: Dio è come sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo.

La via per negazione

Questo esercizio di pensiero dell’infinito geometrico predispone la mente ai paradossi che essa si trova ad affrontare quando cerca di pensare il divino. Prepara in questo senso l’intelletto ad accogliere la via negationis, “metodo per negazione”, detto anche “teologia negativa”, o apofatica. Questa è l’unica in grado di mettere l’uomo in comunicazione con l’assoluta alterità divina. “La santa ignoranza ci ha insegnato che Dio è ineffabile perché è infinitamente superiore a tutte le cose che possono essere nominate […] pertanto possiamo parlare di lui in modo più vero con la rimozione e la negazione, come ha detto anche il grande Dionigi” (De docta ignorantia I, 26). Il sapere umano va impiegato pertanto nello sforzo di avvicinarsi sempre più alla verità, come nel procedimento di approssimazione di un poligono al cerchio.

Il sapere come congettura

Lo scarto incolmabile tra la conoscenza umana e l’ambito divino della verità è al centro del concetto di congettura elaborato nel De coniecturis (1440-45). Anche in quest’opera è ribadita l’incommensurabilità di verità assoluta e sapere umano. Viene tuttavia riaffermato un ambito di originale ed esclusiva pertinenza dell’intelligenza umana: quello delle congetture. L’assoluta incommensurabilità delle due menti, divina e umana, lascia infatti spazio a un’analogia di fondo. L’essere entrambe creatrici, rispettivamente di realtà e di congetture e ciò che li accomuna. Tali congetture sull’essenza del mondo si richiamano in Cusano alla matrice più espressamente pitagorica della tradizione neoplatonica.

Per esporre le relazioni esistenti tra Dio, il creato e suoi elementi, nel De coniecturis si fa un uso preponderante della matematica. “I numero è l’esemplare simbolico delle cose […] un principio naturale, germinante, dell’edificio razionale” (De coniecturis, I, 3) e “l’essenza del numero è il primo esemplare della mente” (ibidem). Le congetture cusaniane sono allora frutto di una speculazione sull’unità nelle sue diverse forme: i numeri 1, 10, 100 e 1000, simboli rispettivamente di Dio, intelligenza, anima e corpo.

Come con l’esempio della linea e del cerchio, ora il numero uno ci aiuta a raffigurarci un aspetto del divino. Si tratta infatti dell’Uno della tradizione neoplatonica, anteriore a ogni matematizzazione perché del tutto alieno dal molteplice. Il rapporto tra la prima unità e le altre tre cifre è quindi spiegato secondo il principio di complicazione ed esplicazione (o contrazione) in base al quale nella potenza superiore è già presente tutto quanto si ritrova nelle potenze inferiori. Queste a loro volta altro non sono che una sua esplicazione o contrazione.

La mediazione di Cristo

Il terzo e ultimo libro del De docta ignorantia è dedicato alla cristologia. L’universo procede da un primo principio per successivi gradi di emanazione. Esso è ad un tempo effetto ed “esplicazione” del principio che in sé lo coimplica (lo “co-implica”, cioè lo tiene insieme in potenza). Questi due assunti servono a Cusano per concepire Cristo come il massimo contratto assoluto. Egli è così garante metafisico della connessione tra Dio e mondo. E’ anche garante morale della possibilità che la scala che discende dal principio all’uomo, possa anche essere ripercorsa in senso ascendente e riportare l’uomo presso Dio.

L’accusa di panteismo

L’insistenza sull’unità, insieme a dichiarazioni come quella che “tutte le cose sono ciò che sono per la partecipazione dell’uno” (De coniecturis, II, 1), espongono Cusano all’accusa di panteismo. Questa è formulata dal teologo aristotelico Johann Wenck nel suo De ignota literatura. Cusano difende la sua opera nell’Apologia Doctae ignorantiae. Dio va concepito “al di là della coincidenza del singolare e dell’universale, come forma assolutissima di tutte le forme generali, speciali e singolari”, per cui “vedere Dio in questo modo è vedere che tutto è Dio e Dio è tutto, al modo in cui sappiamo, grazie alla dotta ignoranza, che non può essere visto da noi” .

Pensiero politico: il De pace fidei

Durante tutta la sua vita Cusano si è attivamente occupato dei risvolti politici della sua speculazione teologica. Con il De concordantia catholica egli si prefiggeva di comporre i dissidi interni al cristianesimo. Dopo la presa di Costantinopoli del 1453, il problema più drammatico diventa quello del rapporto con l’Islam. Sull’onda dell’emozione per la caduta della grande città cristiana, Cusano scrive il De pace fidei.

Il testo (1453) è pensato in un orizzonte molto ampio. Nella finzione letteraria diciassette saggi, rappresentanti di tutti i popoli della terra – un greco, un italiano, un arabo, un indiano, un caldeo, un ebreo, un persiano, un turco, un tedesco ecc. – vengono con vocati in cielo, ovvero nell’unico luogo dove le loro dispute possono essere risolte.

Il fine dell’opera di Cusano è quello di fondare una pacifica convivenza tra le diverse fedi. Bisogna perciò partire da una tolleranza fondata sulla comprensione delle reciproche posizioni teologiche. L’idea di fondo è che in ognuna di esse il Dio oggetto di adorazione è il medesimo. Le differenze tra religioni, laddove non si fondino su errori teologici veri e propri si riducono a controversie relative alle forme del culto. Questi sono imputabili ai diversi usi e costumi dei popoli.

 Nulla di tutto ciò impedisce il passaggio ad altre forme di religione né, a maggior ragione, la convivenza tra credenti di diversa fede. Di questo messaggio universale, ricevuto in cielo ma elaborato nel libero scambio delle reciproche opinioni, i diciassette saggi si dovranno fare latori presso i loro popoli, per aprire una nuova era segnata dalla pace perpetua tra gli uomini.

Le critiche al Corano

Meno diplomatico è il più tardo De cribratione Alkoran (Esame critico del Corano), dove la polemica contro gli “errori”della religione islamica si fa a tratti accesa. Cusano, oltre al Corano, cita molteplici fonti per dimostrare che tutta la verità contenuta nel libro di Maometto è già presente nel Vangelo. Gli errori in esso presenti sono invece frutto della particolare formazione religiosa di Maometto. Maometto sarebbe infatti stato convertito al cristianesimo da un monaco nestoriano. Quest’ultimo era un convinto sostenitore della distinzione in Cristo delle due sostanze umana e divina e del fatto che Maria non potesse essere madre di Dio. L’islam si trova quindi a essere una religione frutto di una doppia eresia.

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