Sant’Anselmo da Aosta: riassunto. La ragione al servizio della fede

[su_spacer] Anselmo d’Aosta: Vita e ideale monastico

Nato ad Aosta nel 1033, Anselmo entra intorno ai 26 anni nel monastero di Bec, in Normandia. Diventa monaco e discepolo di Lanfranco di Pavia, maestro, priore e poi abate del monastero. Anselmo assume a sua volta la carica di priore e, dopo quindici anni, di Abate. Diviene poi il nuovo arcivescovo di Canterbury. 

Negli ultimi anni della sua vita, infine, si scontra ripetutamente con la corona inglese (Guglielmo II, prima, ed Enrico I, poi). La questione che allora premeva in tutta Europa riguardava il rapporto fra potere temporale e potere spirituale. Anselmo muore il 21 aprile 1109.

Dal VI-VII secolo i monasteri sono anche gli unici centri di conservazione e diffusione della cultura. In questi luoghi ci si occupano della conservazione del Testo Sacro. Non viene però disdegnata l’indagine sul mondo, riflesso della grande onnipotenza divina. La Natura è intesa come grande discorso rivolto da Dio all’uomo. Lettura, riflessione intellettuale e preghiera, erano infine i momenti entro i quali si distingueva la ricerca per i monastici (lectio, meditatio e oratio (lettura, meditazione e preghiera).

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Ragione e misteri della fede all’epoca di Sant’ Anselmo

La ragione è per Anselmo e il suo periodo uno strumento può aiutare a chiarire taluni contenuti della fede. Nella rinata disputa sulla  presenza di Cristo nell’eucaristia, ad esempio, nel confronto tra le diverse posizioni emerge la necessità proprio di chiarire quale debba essere la funzione della ragione.

Riprende anche, più o meno negli stessi anni, il dibattito trinitario. Questo si allontana sempre più dal terreno analogico sul quale lo aveva affrontato la patristica, per venirsi a collocare sul terreno della logica aristotelica. In questo ambito è davvero difficile sostenere l’esistenza di predicati contraddittori, come unità e pluralità, in uno stesso soggetto. Roscellino di Compiègne (1050 ca.-1125 ca.), che non ammette alcuna realtà per sostanze non individuali, viene accusato proprio da Sant’Anselmo di triteismo. A tre nomi diversi egli si trova costretto a far corrispondere tre sostanze diverse.

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Anche Anselmo testimonia dunque la grande difficoltà, se non l’impossibilità, di parlare della trinità con linguaggio e procedimenti aristotelici. Egli tuttavia in linea con il suo tempo rinuncia al modello di ragione analogico-agostiniano, che pure aveva pienamente condiviso nelle prime sue opere. Quando scrive infatti Monológion e Proslógion,  i suoi capolavori, si riferisce espressamente all’auctoritas di Agostino. Un’attenta lettura del percorso complessivo descritto nelle due opere mostra che non si tratta di una vera e propria adesione ed esaltazione di quel modello di ragione.

Possiamo dunque a diritto sostenere che questi anni sono preparatori alla modernità, all’idea che l’unico tribunale capace di giudicare la verità debba essere la ragione. Dietro la necessità di mostrare le prove della esistenza di Dio, si nasconde un barlume di dubbio, un momento di incertezza, nonché la futura necessità di affermare il primato della dimostrazione sull’atto di fede.

Il Monológion

Nella prima parte del Monológion vengono presentati tre argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, tutti fondati sull’osservazione della realtà creata. Argomenti a posteriori, si dirà successivamente perché basati su due presupposti di carattere metafisico, di chiara ispirazione neoplatonica. 1) Le cose non sono uguali in perfezione. 2) Tutte le cose che possiedono una medesima perfezione la possiedono in virtù di qualcosa di identico.

Il primo argomento

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Prende avvio dall’osservazione che tutti gli uomini tendono al bene o almeno a ciò che ritengono per loro meglio. Il presupposto dunque è che fra due beni ve ne sia uno migliore. Per operare delle scelto occorre infatti confrontare fra loro beni di natura diversa. Per evitare di ipotizzare un regresso all’infinito occorre ammettere che si deve giungere a un sommo bene. Quest’ultimo costituirà il criterio in base al quale tutti gli altri sono migliori o peggiori tra loro.

Secondo argomento

Lo stesso schema di ragionamento vale per la perfezione in generale e per la perfezione comune a tutte le creature – l’essere. Porta dunque ad ammettere l’esistenza di un sommo essere. E’ questo essere sommo a dare esistenza a tutte le cose. Lo si pensa quindi come il soggetto della creazione dal nulla, caratterizzato da esistenza, da conoscenza e dalla volontà di creare. Ricompare il motivo trinitario agostiniano che consente, anche in questo caso, di fondare sull’articolazione delle facoltà della conoscenza umana – memoria, intelligenza e volontà – l’idea che l’uomo sia fatto a immagine e somiglianza del sommo essere.

Prendendo avvio dall’esperienza umana, Anselmo giunge quindi a proporre un’articolazione trinitaria del sommo essere. Il Monológion vada considerato, secondo quanto egli stesso afferma, una meditazione che consente di rendersi conto di cose di cui ancora non si è consapevoli. Sono però verità che si possiedono già, che vengono semplicemente illuminate dalla ragione.  Si tratta di un percorso che conduce fino all’ipotesi che il sommo essere possa venire identificato con il Dio cristiano. Occorre allora ragionare direttamente sulle caratteristiche che si ritengono proprie del Dio della fede.

L’opera è quindi dedicata a chi ancora non crede nel Dio cristiano. La ragione in questo caso sospinge l’uomo a credere.

Il Proslógion

Nel Proslógion è esplicito il mutamento del soggetto che conduce la ricerca rispetto all’opera precedente.  Si tratta in questo caso della riflessione di chi cerca di capire ciò in cui crede. La prospettiva si capovolge: nel Monológion si ragionava partendo dal mondo creato, su una scala di perfezioni che si immagina chiusa verso l’alto. Ora invece è proprio la fede a consentire di fissare l’attenzione su quel limite sommo. Questa consente di sviluppare il discorso collocandosi su quel livello che, per così dire, dal basso si poteva solo intravedere.

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Anselmo si propone di trovare un unum argumentum (“unico argomento”) – noto in seguito come prova ontologica – che, superi la molteplicità delle prove legate all’esperienza. Questo argomento deve poter dimostrare che la ragione deve necessariamente concludere che il Dio della fede esiste. È la fede infatti a insegnare che Dio è “ciò di cui non si può pensare il maggiore” in quanto dotato, e in grado massimo, di tutte le perfezioni. Anche chi nega l’esistenza di Dio, di fronte alla definizione appena ricordata, non può negare che ciò di cui non si può pensare il maggiore ha almeno l’esistenza mentale.

L’unum argumentum (terzo argomento)

Il terzo argomento parte dunque dalla definizione di Dio è dunque un argomento apriori perché prescinde dall’esperienza. Dio è l’ente perfettissimo è  il concetto di ciò di cui non si può pensare il maggiore. Se questo concetto non comprendesse anche la perfezione dell’esistenza, sarebbe “pensabile” il medesimo oggetto con, in più, la perfezione dell’esistenza. Dunque si dovrebbe ammettere la pensabilità di qualcosa più grande di ciò di cui, per definizione, non si può pensare il maggiore.

Il seme del dubbio è stato però insinuato. La ragione ha condotto a Dio, ma ha fatto a meno della fede e della ragione rivelata. Anselmo pare deluso e, rivolgendosi alla propria anima.

Se lo hai trovato, come mai non senti ciò che hai trovato? Perché l’anima mia non ti sente, Signore Iddio, se ti ha trovato? (Proslógion 14).

È quasi l’ammissione di una sconfitta, come se il cammino percorso dall’intelligenza non fosse sufficiente. Egli perciò conclude la sua opera riversando la fede nel misticismo . Dio viene quindi definito, come qualcosa di più grande di tutto ciò che può essere pensato. Sembra venire meno la possibilità addirittura di concepirlo. Si apre la prospettiva della teologia negativa, secondo la quale a Dio non si adatta alcun predicato determinabile dalla mente umana.

Le obiezioni alla prova ontologica

La prova ontologica verrà più volte criticata soprattutto nell’arco della modernità. Stabilito il principio che la difesa della fede deve essere operata dalla ragione si apre infatti un varco verso lo scetticismo. Di questo paiono accorgersi però anche i pensatori del tempo. In particolare Gaunilone obietta a Sant’Anselmo di aver difeso gli stolti.

Solo gli stolti infatti possono pensare che Dio non esista e il suo argomento di contro non prova nulla. Se io pensassi ad un’isola perfetta, potrei infatti sempre pensare che ve ne sia una ancora più perfetta perché dotata di esistenza. Ma questo mi condurrebbe a poter pensare che esista tutto ciò che penso. Questo ragionamento può infatti essere applicato a qualsiasi cosa. Per Gaunilone l’esistenza richiede la mediazione dell’esperienza.

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Anselmo, come Agostino, considera i concetti come segni mentali delle cose significate. Se una cosa ha un significato in altri termini è perché esiste qualcosa che significa. Si tratta di capire tuttavia se è in gioco la sola esistenza mentale piuttosto che anche quella reale. L’isola perfetta per Sant’Anselmo non è equiparabile a ciò che è perfetto in sé. La perfezione in altre parole non entra nella definizione del concetto, come invece succede per Dio. Possiamo togliere l’idea di perfezione e il concetto di isola continuare ad avere un significato. Questo non succede per Dio, la cui essenza è “ciò di cui non è possibile pensare il maggiore”. La fede garantisce che questa definizione abbia un significato. L’avere un significato gli garantisce poi l’esistenza.

L’onnipotenza divina

Uno dei temi che avrà grande sviluppo nella storia del pensiero medievale è quello dell’onnipotenza divina. Le Sacre Scritture si aprono con l’immagine di Dio come sovrano assoluto, il quale ordina a proprio piacimento le cose del mondo. Questa tradizione si fa dottrina nel Credo (o simbolo) di Nicea. Dio può scegliere quale mondo creare tra la serie degli infiniti possibili e può, volendo, sconvolgerne l’ordine senza sentirsi minimamente vincolato.

Secondo Anselmo d’Aosta  Dio sceglie di agire in seguito a un atto di volontaria limitazione del proprio assoluto potere. Il non-potere – non poter mentire, ad esempio – riguarda la stessa natura di Dio che vuole porre dei limiti alla propria astratta onnipotenza e non, invece, a una mancanza della potenza divina. Dio può dunque fare qualunque cosa, cioè “può non volere”; e “non potere”, in questo contesto, non viene più a coincidere con “non volere”.

Logica e verità

È centrale, per quanto sin qui detto, il rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà.  Nel De veritate Anselmo distingue infatti  la capacità comunicativa di una proposizione, che essa possiede per il semplice fatto di avere un significato, dalla sua verità. Questa si ha solo quando la proposizione compie ciò che deve, cioè quando è recta, e significa le cose come effettivamente sono in realtà. Quando la proposizione si comporta in questo modo consente alla conoscenza di percorrere lo stesso processo creativo divino. Esso si sviluppa dal progetto nel Verbo, alle parole con cui Dio pone le cose, fino all’essere delle cose il cui significato sta appunto pienamente nel progetto originale. La sua rectitudo altro non è che la direzione che permette di adeguare la conoscenza ai significati delle cose contenuti nel Verbo divino.

La verità piena di una proposizione è dunque la sua rettitudine, in senso sia morale sia conoscitivo, concepita in se stessa, con la sola mente. Si potrebbe quasi dire: a prescindere dall’esistenza stessa della proposizione. In questo senso si può allora parlare di verità anche nel caso dei pensieri, della volontà, delle azioni e delle cose. Le cose in particolare sono sempre vere perché sempre fanno ciò per cui sono state create. Esse hanno ricevuto l’essere proprio per“fare la verità”. Identico scopo deve regolare tutti gli altri casi ricordati, per cui all’uomo è richiesto di coniugare logica ed etica per produrre verità.

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Teologia e analisi del linguaggio

Questioni linguistiche di carattere più tecnico vengono discusse da Anselmo nel De grammatico. In questo testo affronta la questione se il termine “grammatico” sia sostanza o qualità. Vengono dunque approfonditi i termini definiti denominativi. Sono termini cioè che derivano da una radice comune ad altri termini da cui differiscono tuttavia per la forma. “Grammatico” significa direttamente la “grammatica” e indirettamente l’“uomo” . Sarebbe meglio dire che significa la “grammatica” e denomina l’“uomo”.

Anselmo insiste sulle differenze che esistono tra linguaggio comune e linguaggio tecnico, tra l’uso normale che viene fatto di certe parole e le loro proprietà particolari. Ritorna, anche in questo contesto, il riferimento alla rectitudo intesa come il corretto uso dei termini tesi. Riconoscere autonomia al piano del discorso rischia di condurre al massimo della irrazionalità. Rischia di condurre all’idea di poter trarre conclusioni sulla realtà fondandosi solo sulle regole del linguaggio.

Il debito dell’uomo verso Dio

Nel Cur Deus homo Anselmo si domanda per quale motivo la soddisfazione del peccato originale non possa essere affidata se non a un Dio-uomo. L’uomo deve pagare il proprio debito, ma nessuna creatura inferiore sarebbe in grado di offrire a Dio una soddisfazione adeguata.  Le idee di necessario e necessità, applicate a Dio, non possono in alcun modo pretendere di limitarne la potenza. Nel caso di Dio si può parlare esclusivamente di “necessità conseguente”. La necessità, vale a dire, che deriva dal semplice fatto che, se una cosa esiste, non è concepibile che sia e non sia nel medesimo tempo.

Il peccato come mancanza

Ulteriore problema affrontato da Anselmo è quello della libertà e del libero arbitrio.  È un’improprietà del linguaggio quella di definire la possibilità di peccare come una forma di potere. E’ un errore concepire il libero arbitrio come la possibilità di peccare o non peccare. Il peccato è un’impotenza, una mancanza e non certo un’opportunità positiva. Un’attenta considerazione delle proprietà dei termini consente di arrivare a definire il libero arbitrio come potere di conservare la rettitudine della volontà, per amore della rettitudine stessa.

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