Giovanni Scoto: Riassunto. L’inizio della scolastica

[su_spacer] Vita e opere

Le informazioni sulla vita di Giovanni Scoto Eriugena sono molto scarse. L’aggettivo Scotus ne indica l’origine irlandese, legata cioè all’antica Scotia. Egli stesso ama definirsi Eriugena (Irlanda). Unica data certa è l’851, anno del suo intervento nella storica disputa sulla predestinazione divina. Dopo la stesura, per l’occasione, del De praedestinatione liber, Giovanni Scoto si dedica alla traduzione dal greco in latino del corpus areopagiticum e di altre opere. Tutte le traduzioni vengono dedicate al sovrano Carlo il Calvo di cui è maestro di palazzo.

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Ben più impegnativa è la stesura dei cinque libri del Periphýseon, che costituisce la summa del pensiero eriugeniano. Negli ultimi anni prima della morte, Giovanni Scoto si dedica alla stesura di opere esegetiche. Commenta parte del corpus dionisiano. Dedica al Vangelo di Giovanni una Omelia sul Prologo e un Commentarius, pervenutoci incompleto. Questo probabilmente interrotto dalla morte dell’autore, tra l’870 e l’880.

La formazione di Giovanni Scoto

Ciò che colpisce il lettore di Giovanni Scoto è la grande pluralità della sua formazione. È forte l’influenza della tradizione patristica, in particolar di Sant’Agostino. Una particolare attenzione è riservata al Testo Sacro. Come tutti i teologi carolingi, oltre alla Bibbia, Giovanni Scoto studia le opere dei più importanti Padri della Chiesa. Si presenta come un retore elegante, abile architetto di argomentazioni dialettiche L’originalità speculativa di Giovanni Scoto risiede anche nella capacità di unire questo bagaglio culturale con il lessico della speculazione teologica-bizantina.

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Giovanni Scoto trae un linguaggio e una prospettiva filosofica che rafforzano l’idea che esista un ordine generale del creato. Ordine posto da Dio e parzialmente intelligibile dagli uomini impegnati nella ricerca della sapienza. L’universo viene così descritto come una macchina perfettamente coerente e ordinata al fine di congiungere il creato al Creatore.

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“Una nuova Atene”: Alcuino di York e la scuola palatina

La rinascita degli studi caratterizza l’età carolingia (VIII-IX secolo). Un ruolo di primo piano spetta ad Alcuino di York (740 ca.-804). Chiamato a corte da Carlo Magno, nel 781 fonda su richiesta del sovrano la schola palatina. Essa è destinata ai membri aristocratici della corte. Comprende non solo i maestri ma anche copisti, scribi, cantori. La struttura dell’insegnamento è fondata sull’apprendimento dei rudimenti della grammatica e del computo. Passa poi allo studio delle arti liberali e alla lettura delle Sacre Scritture.

Alla scuola si affiancherà in seguito l’accademia palatina. Essa è un vero e proprio circolo di uomini di cultura vicini al sovrano. Con l’accademia sarà inaugurata la tradizione delle raffinate discussioni di carattere prevalentemente teologico. Famose saranno le dispute sulla presenza di Cristo nell’eucaristia, sulla predestinazione o in merito alla natura corporea o incorporea dell’anima. Quando oggi si suole dire “discutere sul sesso degli angeli” per intendere una discussione astrusa e infondo inutile, ci si riferisce proprio a questo periodo.

Il sapere come ossatura del regno

Al di là della scuola di corte, Alcuino è soprattutto l’organizzatore del programma di riforme in ambito scolastico e culturale volute da Carlo Magno. L’obiettivo era dotare di funzionari istruiti le strutture amministrative dell’intero regno. Egli fonda infatti nuove scuole e scriptoria. Raccoglie libri dai monasteri e fonda biblioteche. Redige trattati, compilazioni e manuali per l’insegnamento e per l’educazione del re e dei suoi figli. Alcuino fu un erudito dalla vasta cultura, impegnato nel progetto del trasferimento nelle Gallie di quel sapere che fu prima di Atene e poi di Roma. [/su_spoiler]

La disputa sulla predestinazione

Nell’851 alcuni teologi chiedono a Giovanni Scoto di intervenire in una disputa divenuta famosa. Era stata la patristica a consegnare ai posteri un’ambiguità sulla predestinazione. Secondo Sant’Agostino il male è  frutto del libero arbitrio e dunque di una scelta deliberata dell’uomo. Dio tuttavia in quanto Onnisciente sa già cosa sceglierà ognuno di noi. Questo non ci rende realmente liberi ma predeterminati alla condanna o alla grazia. Se Dio inoltre è Bontà infinita perché sapendo delle nostre scelte non fa nulla per evitarle? Egli allora o non può (non è onnipetente) o non vuol (non è buono).

Il monaco Godescalco d’Orbais aveva difeso in alcuni scritti la teoria della gemina praedestinatio divina (“doppia predestinazione divina”). Godescalco pensava che, pur mantenendosi unica, la predestinazione divina fosse, negli effetti, duplice, ossia predestinazione dei buoni alla salvezza e dei malvagi alla perdizione.

Nel suo De praedestinatione liber Giovanni Scoto chiarisce innanzitutto che non c’è differenza tra vera religione e vera filosofia. Unica è la fonte di ogni verità. Tutto ciò che di vero si ritrova nella propria ricerca dunque non può che essere originato da Dio. Questo è vero se si rispettano le regole di ogni disciplina e di ogni esegesi ovviamente.

Le norme del ragionamento possano allora essere adoperate anche nel discorso teologico. Le verità di ragione inoltre non possono essere in contraddizione con le verità enunciate nel testo Sacro. La razionalità umana rifiuta la doppia predestinazione perché essa implica la violazione del principio di non contraddizione. Se Dio è uno e semplice, non può infatti ammettere nella sua sostanza la duplicità della predestinazione. In secondo luogo se Dio avesse già predestinato tutti, buoni e malvagi, l’uomo non potrebbe più scegliere secondo l’arbitrio, che invece è proprio il coronamento della ragione umana.

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Alla corte di Carlo il Calvo

Proprio il fatto che Scoto fosse ricorso a ragionamenti piuttosto che ad autorità note, rese poco vigorose le sue argomentazione agli occhi degli intellettuali del tempo. Anche coloro che l’avevano commissionata ritennero che l’opera non solo fosse poco efficace nel contrastare le idee di Godescalco.

Lo scarso successo dell’opera non pregiudica però il prestigio di Giovanni Scoto a corte. Pochi anni dopo, Carlo il Calvo gli affida infatti la nuova traduzione del corpus areopagiticum. Lo pseudo Dionigi era identificato come il greco che negli Atti degli Apostoli viene convertito dal discorso tenuto da san Paolo all’Areopago di Atene. Esisteva già una traduzione che però non era soddisfacente.

L’universo disegnato dal corpus areopagiticum ha connotazioni fortemente neoplatoniche. Strutturato secondo gerarchie nelle quali a ogni grado corrisponde una diversa dignità gnoseologica e ontologica, il creato appare nel linguaggio dionisiano come una complessiva manifestazione ordinata di Dio (teofania). L’universo descritto da Dionigi mostra chiaramente l’ordine impostogli da Dio, alla cui trascendenza non è possibile giungere con nomi affermativi e descrittivi, ma attraverso un linguaggio apofatico.

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 Giovanni Scoto rinsalda grazie alle opere di traduzione la convinzione che tanto la natura quanto la parola sacra siano i due luoghi di manifestazione di Dio nel mondo. Entrambe debbono essere ripercorse dagli uomini in senso inverso rispetto a quello divino. Solo così si può ricostituire una unità semplice con Dio, una deificazione finale nella quale non sia più possibile alcuna distinzione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.

Il Periphýseon

Questo complesso di suggestioni e stimoli culturali si traduce in ultimo nella stesura di opere pervase da un densissimo misticismo. Il Periphýseon “sulle nature”, costituisce in tal senso l’ambizioso progetto della ricerca di una nozione che possa tenere insieme l’umano e il divino.

Sulla natura di Dio e delle creature

L’opera si sviluppa in cinque libri. Questi contengono un serrato dialogo tra un maestro (nutritor) e un allievo (alumnus). L’alunno è volto ad individuare i termini con i quali è possibile parlare, al contempo, di Dio e delle creature. Il nutritor suggerisce che il termine natura appare l’unico in grado di assolvere a questa funzione. Il concetto di natura, infatti, ha le caratteristiche di una intuizione assunta nella sua evidenza indimostrata. Senza ulteriori riflessioni, sembra infatti immediatamente riferito all’insieme di tutto ciò che esiste. Viene così introdotta l’idea di Dio come natura poi resa celebre da Spinoza.

Il concetto di natura se viene analizzato perde però la sua semplicità. Da un punto di vista aristotelico, il termine “natura” è infatti un genere. Come tale, può essere suddiviso in specie. Al credente viene in soccorso la Bibbia che, nel suo primo versetto (“In principio Dio creò il cielo e la terra”), chiarisce immediatamente i termini della relazione tra il genere e la specie. Creatore e creature sono uniti (o, per un altro verso, sono divisi) proprio dal concetto di creazione. La natura verrà allora distinta a seconda del suo essere parte attiva o passiva nel processo creativo.

Le quattro nature e la teologia “superlativa”

Diviso secondo questo aspetto, il genere natura verrà diviso in quattro parti.

La natura che crea e non è creata è evidentemente Dio, a cui è dedicato il primo libro del Periphýseon.

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Mettendo a frutto la competenza linguistica e teologica acquisita nella traduzione degli scritti dello Pseudo-Dionigi, Giovanni Scoto illustra le difficoltà che la parola umana incontra nel parlare di Dio. Risulta infatti impossibile descriverlo in termini affermativi. A ben vedere, appare improprio anche parlarne apofaticamente, perché negare un attributo di Dio sembra quasi volerne affermare un limite. È dunque necessario, conclude Giovanni Scoto, giungere a una terza teologia, né semplicemente affermativa, né soltanto negativa, ma superlativa. Dio è superiore a ogni attribuzione di senso e dunque oltrepassa le possibilità descrittive del linguaggio.

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Le opere esegetiche

Le competenze del teologo irlandese si muovono sempre in un ambito delimitato dal Testo Sacro, che spesso viene indicato come la vera teologia.

Il corpus dionisiano costituisce per Giovanni Scoto una fonte di ispirazione e un ricchissimo repertorio di immagini originali e profane. Nello Pseudo-Dionigi è fortissima la presenza dell’idea dell’infinità di Dio, dalla quale trae origine un linguaggio teologicoi. Ogni affermazione, infatti, è una negazione del suo contrario (omina determinatio est negatio). Se Dico che Dio è qualcosa sto escludendo che sia il suo contrario. Affermare, infatti, che Dio è grande, significa implicitamente sostenere che non è non-grande. La sua infinità resterebbe compromessa dai limiti del linguaggio che sono poi i limiti dell’intelletto umano.

Il creato è l’immagine della divinità

Acquisisce così un valore particolare la tensione continua dell’uomo alla conoscenza di Dio. Si tratta di un’aspirazione inesaudibile ma necessaria. E’ infatti implicita nella stessa struttura del creato, manifestazione e immagine della divinità. Ogni creatura ha in sé qualcosa della luce del suo creatore, e dunque a esso rimanda. Per questo motivo, le gerarchie che costituiscono, nei cieli e sulla terra, l’ordinamento complessivo del creato vengono descritte come l’immagine di quella manifestazione. Essa viene rappresentata impropriamente dal linguaggio umano, che, con i suoi limiti, riesce ad affermare qualcosa solo meditando sulla parola rivelata. Le Scritture rappresentano un viatico verso la conoscenza della Verità.

Commento al Prologo di Giovanni

Nel Commento al Prologo di Giovanni, il pensiero eriugeniano produce alcune tra le più ardite e affascinanti immagini della mistica altomedievale. Giovanni Scoto segue infatti nella sua evoluzione il percorso di san Giovanni l’evangelista. Questi viene descritto, sin dalle prime pagine dell’Omelia, come il simbolo di una conoscenza superiore, intellettiva. Egli è l’uomo al quale è stato concesso l’onore di giungere intuitivamente alla verità, senza passare per le argomentazioni tipiche della struttura razionale del pensiero.

San Giovanni l’evangelista si innalza infatti oltre ogni cielo creato e oltre ogni intelletto umano. Giunge a quel grado di conoscenza ultimo nel quale non c’è più distinzione alcuna tra ciò che conosce e ciò che è conosciuto. Il diventare Dio, la deificatio dell’evangelista ripercorre a ritroso e in senso opposto il mistero dell’incarnazione di Cristo. Lo porta a un livello di conoscenza negato a qualsiasi altro essere umano. Così, Giovanni Scoto indica nella fede il primo livello attraverso il quale accostarsi  al Testo Sacro.  La conoscenza teologica può dirsi compiuta solo nell’identificazione intellettuale con Dio.

Il sistema di Giovanni Scoto, complesso e affascinante, e spesso sospettato, nei secoli del medioevo, di prossimità con l’eresia, è dunque una raffinata e ricchissima narrazione della storia del creato e dell’umanità. Muove dal momento della prima, vera creazione di tutto nel Verbo, giunge sino alla caduta di Adamo e alla nascita della corporalità, e prospetta, seguendo i gradi della gerarchia teofanica che Dio stesso ha posto nell’universo, il ritorno a quella originaria e semplice [/su_spoiler]

La Scrittura e la natura: segni di Dio nel mondo

L’uomo ha dunque dinanzi a sé due strade per parlare di Dio. Quella che superi ogni qualificazione positiva e negativa, oppure affidarsi ai segni che Dio ha lasciato nel mondo. Le Scritture e la natura, infatti, sono manifestazioni del creatore. Egli è presente nelle prime come fonte di ispirazione e nella seconda come teofania. L’universo creato è infatti manifestazione di Dio, pur essendo, nella sua materialità, frutto di una condizione di decadimento.

La prima, vera creazione è infatti avvenuta, prima dei tempi, nell’Intelletto divino, nel Verbo. E’ avvenuta in quella seconda natura creata da Dio ma a sua volta creante, perché contenente le nozioni di tutte le cose. Anche l’uomo, prima del peccato originale, era una nozione nella mente divina. E’ Decaduto da questa condizione per non aver voluto rimanere fedele al suo creatore. Ha implicitamente posto le condizioni per la nascita del mondo fisico, che appare a Giovanni Scoto un teatro predisposto a tal scopo da Dio.

 Il fine dell’essere umano, terza natura che è creata e non crea, è dunque il ritorno a quella condizione originaria di unità con Dio. Solo allora, nella perfezione di un’unità ricomposta, avrà senso la quadripartizione eriugeniana, che si completa con la quarta natura che coincide con Dio che, avendo completato il processo descritto nella Genesi, è ovviamente non creato ma anche non più creante.

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