Hegel: “Patruni e sutta”, la dialettica Signoria servitù

 

Hegel: dialettica di Signoria e servitù

La dialettica di signoria e servitù di Hegel costituisce la più famosa delle figure dialettiche della Fenomenologia dello Spirito. Ciò è dovuto alla sua potenza intrinseca e al seguito che ne ebbe da Karl Marx in poi. L’espressione Signoria rimanda alla nota espressione feudale. Nel porci questa immagine  il filosofo idealista sta pensando al medioevo. L’antico tempo nel quale i “servi” si rifugiavano presso il signore regalando in cambio i propri servigi. Il servo dunque è tale per scelta e non è perciò da confondere con lo schiavo. Non è costretto alle catene, ma le preferisce piuttosto che mettere a repentaglio la propria vita. Ciò che ci protegge ci ingabbia ad un tempo: questa la prima lezione di Hegel. Il signore per canto suo è il guerriero che non teme la morte, che afferma sé stesso senza timore.


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Le figure concepite da Hegel non sono perciò personificazioni, ma metafore, icone che indicano un passaggio interiore lungo il cammino della verità.

La coscienza si era già definita, fallendo, come coscienza sensibile, percezione e intelletto. Compatibilmente con la natura del movimento dialettico, toglie e conserva le precedenti figure.  Nel rapporto con la cosa comprende perciò di essere lei l’essenziale. La certezza di sé è dunque la premessa di ogni conoscenza. Questa è la nuova verità che pone adesso  la coscienza. Lei, vedremo, desidera, si angoscia, ha paura, soffre, serve e comanda.E’ perciò una coscienza “viva”.  E’ una figura che va riempiendosi di contenuti.

La coscienza si comporta un po’ come l’uomo di latta del celebre romanzo il Mago di OZ si “riempie” di umanità nello stesso percorso di ricerca di quella stessa umanità. Essa, che all’inizio di percepisce nella sua immediatezza e astrazione, si va via via riempendo di contenuti. Va acquisendo tridimenzionalità e spessore.

“Adesso […] la certezza ha sé stessa per oggetto e la coscienza sa di essere essa stessa il vero [PG 261]”.

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In quanto autocoscienza essa ha dunque un duplice oggetto:

  1. l’oggetto immediato della percezione, che stavolta è inteso come un che di negativo;
  2. sé stessa, posta come la vera essenza ed inizialmente contrapposta all’oggetto che ha di fronte come ad un che di totalmente altro.

Secondo Hegel la coscienza non ha quindi tolto l’opposizione con l’oggetto. La sua attività, per questa ragione, si connoterà come il tentativo di rimuovere la differenza tra il sé e la cosa. La verità, lo ricordiamo, è l’identità di pensiero ed essere:

“L’autocoscienza è innanzitutto desiderio [PG 265]».

Come opera questa rimozione? Dominando la cosa, impossessandosene e consumandola!

Ecco che la prima figura dell’autocoscienza che ci presenta Hegel è la Begirde. E’ la concupiscenza o “coscienza che desidera”. Essa nasce grosso modo come uno “stomaco” che soltanto desidera “digerire” il suo oggetto, farlo proprio, dileguralo. 

Volli e sempre volli, fortissimamente volli diceva Vittorio Alfieri.

L’affermazione indica proprio lo stato della coscienza che desidera, ma che in questo suo desiderare non trova mai un appagamento definitivo. La concupiscenza è irrequieta, resa instabile dal su stesso desiderio. Nel costatare, tuttavia, che ogni desiderio prepara solo ad un ‘altro desiderio ella sperimenta, in luogo della felicità che si aspettava, una profonda inquietudine:

«Mediante la propria relazione negativa, dunque, l’autocoscienza non può rimuovere l’oggetto, e piuttosto lo produce di nuovo, come pure si riproduce il desiderio [PG271]».

 Il desiderio doveva dunque provare l’autonomia dell’autocoscienza, ma si dimostra essere l’assoluta dipendenza dalla cosa: «l’essenza del desiderio è un altro dalla coscienza [PG 271]».

 L’appagamento del desiderio, così pensava la coscienza, avrebbe dovuto condurla alla felicità. Cosa c’è di meglio che poter soddisfare ogni desiderio. Cosa c’è di meglio che volere una cosa e immediatamente impossessarsene? L’appagamento immediato dei propri istinti, trova piuttosto l’insoddisfazione perenne. Un’angoscia senza nome, la frustrazione del continuo dilegure.

La coscienza non comprende  infatti che il problema è il suo tentativo di appagare immediatamente il desiderio.

Sperimentata la contraddizione ella non rinuncia quindi immediatamente al suo fare. Non rinuncia alla concupiscenza e al tentativo di dominio sulla cosa. Ella non ritiene infatti che sia la sua intima natura fugace il problema, quanto piuttosto la natura delle cose che sin’ora ha incontrato. Ritiene allora di dover individuare un oggetto che possa essere concupito senza con ciò dileguare. In questo modo, pensa, che non avendo mai fine il suo consumare non avrà mai fine il suo appagamento. Deve allora trovare un essente che possa da sé sottomettersi al suo volere. Un ente che possa opera da sé la negazione di sé, ovvero auto-negarsi:

“In virtù dell’autonomia dell’oggetto, allora, l’autocoscienza può ottenere l’appagamento solo quando l’oggetto stesso compie in sé questa negazione di sé stesso perché esso é, in sé, il negativo e ciò che deve essere per altro [PG 271]”.

L’unico oggetto che può negarsi da sé, sottomettersi per sua stessa scelta all’autocoscienza è un’altra autocoscienza.

Il percorso della coscienza è stato sino a questo momento una traghettata in solitario. Questa è la prima volta nella Fenomenologia che compare un’altra autocoscienza. Entrambe sono inconsapevoli di esserlo. “Sentono” solo il desiderio. Ciascuna desidera stabilire, dunque, il proprio dominio sull’altra. Ciascuna necessita di stabilire la propria indipendenza e superiorità.

Per noi che guardiamo dall’esterno si tratta una lotta per il riconoscimento.

 Ciascuna autocoscienza per essere tale ha bisogno di essere riconosciuta. Il riconoscimento può però avvenire soltanto nella reciprocità dell’atto. Si può essere riconosciuti soltanto se si riconosce a propria volta. L’altra autocoscienza funge infatti da “specchio”: “il fare dell’una è il fare dell’altra” dirà lo stesso Hegel. Ciò vuole dire che ciò che lei vede nell’altra è il suo stesso essere. Dovrebbe quindi riconoscergli lo status di essere autonomo, per poter riconoscere a se stessa la stessa qualità.

E per l’autoscienza?

Ella invece inizialmente fa l’esatto opposto. Crede che la sua propria autonomia passi da un assoggettamento dell’altra.

Quante volte gli uomini si sono fatti la guerra credendo che accaparrarsi un vantaggio sull’altro fosse un bene in sé? Quanto volte nella vita ci si arrampica sull’altro per non affondare? Si sfrutta, umilia e uccide per un proprio interesse? Per Hegel questo è solo l’atteggiamento primordiale dell’autocoscienza. E’ lo stadio più infimoirreale della soggettività. La mia felicità dipende piuttosto dalla felicità dell’altro, ma questo l’autocoscienza ancora non lo sa.

Dal suo punto di vista piuttosto si tratta di dominare l’altra autocoscienza. E siccome anche l’altra cercherà di fare lo stesso, il primo incontro è una lotta: la lotta per la vita e per la morte. Ciascuna delle due coscienze, in forza della sua convinzione, tratta l’altro come un mezzo e non come un fine. Ciascuna tratta l’altra come una cosa.  

L’autocoscienza dovrà dunque dare prova della sua propria autonomia. Dovrà mostrare l’indifferenza assoluta rispetto al più importante degli oggetti: la vita. Dovrà in altri termini mostrare di non temere la morte.

 “Il rapporto tra le due autocoscienza, dunque, si determina come un dar prova di sé, a sé stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte [PG 281]”.

LOTTA PER LA VITA E PER LA MORTE 

Se non lo hai ancora fatto, non credi sia arrivato il momento?  😛

 

Quanto sai di te stesso se non ti sei mai battuto?
(Dal film Fight club)

 L’una deve essere solo riconosciuta (coscienza dominante) l’altra solo riconoscere (coscienza dominata). Il riconoscimento che avviene nella lotta non è quindi reciproco ma unilaterale.

Appare evidente però che né la propria né l’altrui morte potrebbero condurre la coscienza al dominio di alcunché. Nello scontro entrambe mostrano dunque di non fare troppo sul serio, proprio perché lo scontro non può concludersi né con la propria né con l’altrui morte.

L’una ciononostante sfida la morte, l’altra invece comprende «che la vita è tanto essenziale quanto l’autocoscienza pura [PG 283]».

La prima risulterà coscienza “pura” perché avrà dato prova della sua autonomia. L’altra non avendo saputo rinunciare al godimento, mostrerà la sua dipendenza dalla cosa. La prima esprime la Signoria (il positivo), la seconda la servitù (il negativo). Il rapporto tra servo e signore non è però diretto, ma mediato dalla cosa (“l’essere autonomo”). E’ proprio in questa mediazione che risiede l’unilateralità della relazione:

Il signore non temendo la morte stabilisce la propria indipendenza rispetto alla cosa. Anche la cosa risulta però indipendente rispetto al servo.  

E’ il servo infatti che non si è liberato della dipende dalla cosa. Non gli riesce perciò di assoggettarla e lascia che a farlo sia il signore per lui. Egli in altre parole si lascia assoggettare dal signore, perché sa che così sarà il signore, per mezzo suo, ad ottenere il dominio sulla cosa. Al signore, per converso, adesso riesce di fare ciò che prima non gli riusciva.  Gode dell’oggetto lasciando al servo il momento della negatività del rapportarsi ad esso.

Il servo produce, il signore consuma.

Il lato dell’autonomia della cosa non è stato dissolto, ma al contrario lasciato al lavoro del servo. Questo dal canto suo non riconoscendosi alcuna autonomia guarda al signore per ricercare in lui la sua stessa essenza:

“Ciò che fa il servo, infatti, è proprio il fare del signore. Il signore è soltanto l’essere-per-sé, l’essenza, la pura potenza negativa agli occhi della quale la cosa non è nulla, e il suo è dunque un fare puro ed essenziale all’interno di questo, rapporto; il fare del servo, invece non è puro, ma è inessenziale [PG 285]”.

Il servizio del servo è dunque un momento che si interpone tra il desiderio e il consumo. Momento che impedisce al signore di rapportarsi direttamente tanto alla cosa quando al servo. Lui media la cosa con il fare del servo e il servo con la cosa.

ATTENZIONE STIAMO PER CONCLUDERE 

Ok, ora devi proprio farlo, un bel “like” e ti sentirai una persona migliore  😛

 

CHI E’ VERAMENTE IL SERVO PER HEGEL?

Sorte le due figure matura con esse via via anche la contraddizione. Ciò di cui non si avvedono entrambi, infatti, è che l’autonomia del primo dipende dal lavoro del secondo:

“Proprio quando il Signore si realizza compiutamente come signore, egli vede dinanzi a sé tutt’altro che una coscienza autonoma, ma piuttosto una coscienza non-autonoma [PG 287]”.

La coscienza servile, ci mostra Hegel, si rivela allora il vero motore della relazione. La figura che permette alla coscienza di fare il suo “salto evolutivo”. Sospinta dalla paura della morte, questa, infatti, impara a trattenere il desiderio. Il problema della Begirde non era infatti la cosa, ma la sua “fame” insaziabile. Era appunto la sua incapacità di disciplinare il desiderio. Sospinto dallo sguardo severo del signore, il servo trema in tutte le sue membra. Impara a trasformare l’oggetto mediante il lavoro, mentre lascia che a consumarlo sia il signore. Egli impara allora che si può godere del frutto delle proprie fatiche.

“in sé stessa la verità della pura negatività e dell’essere per sé, in quanto ha fatto in sé esperienza di questa essenza [PG 287]».

Umkehrung: Il colpo di scenza

Nella lotta per la vita e per la morte il signore ha dimostrato di non temere la vita. Il servo sì. Ha visto l’assoluto e di fronte ad esso ha tremato

In questa angoscia, la coscienza è stata intimamente dissolta, ha tremato fin nel suo più remoto recesso, e tutto quanto c’era in essa di fisso è stato scosso. Questo puro movimento universale, questo assoluto divenire-fluida di ogni sussistenza, però, è appunto l’essenza semplice dell’autocoscienza, la negatività assoluta, il puro essere-per-sé: ecco perché la coscienza servile ha tutto ciò in sé stessa [PG 287].

L’angoscia è infatti il sentimento che la coscienza prova posta di fronte all’assoluto inteso come l’assolutamente altro, ovvero inteso come il nulla, che la morte rappresenta:

“La paura del signore costituisce l’inizio della saggezza […] la coscienza giunge a se stessa mediante il lavoro [PG 289]».

Mediante il lavoro la coscienza  si riconosce in una forma che non dilegua. Scrive Hegel:

“In tal modo, dunque, la coscienza che lavora giunge a intuire l’essere autonomo come se stessa [PG 289]”.

 Il servo attraverso il lavoro si libera dalla dipendenza dalla cosa. Afferma la sua piena libertà, tanto rispetto alla cosa,  quanto rispetto all’altra autocoscienza. Assistiamo dunque all’Umkehrung, ribaltamento dialettico, che potremmo tradurre con “colpo di scena“. Ciò che pensavamo essere il Signore è in realtà servo, ciò che credevamo essere la coscienza servile è piuttosto l’essere superiore che continua la marcia della Fenomenologia.

La sua è però una libertà di pensiero:

“Nel pensiero Io sono libero perché non sono in un altro, ma rimango puramente e semplicemente presso me stesso [PG 295]”.

Diviene così coscienza stoica. Non ha dunque inteso quale fosse il suo vero errore, il mancato riconoscimento di sé e dell’altro. Rifugge piuttosto dalla relazione dialettica nell’unità intaccabile del pensiero e nell’assenza di “turbamento” che esso produce.

Visto la fatica che mi c’è voluta un bel mi piace adesso me lo merito anche no?  🙂 Commentate e condividete sulla vostra pagina facebook se l’articolo v’è piaciuto!

DOMANDE:

Perché la dialettica Signoria servitù di Hegel non si conclude con un semplice inversione di ruoli tra Servo e Signore?

Perché altrimenti sarebbe finita la storia della Fenomenologia. Se l’autocoscienza avesse chiaro che la verità consiste nel riconoscere l’altra come autocoscienza e ottenere ad un tempo da lei il riconoscimento, avrebbe infatti ottenuto l’identità di soggetto e oggetto. Ella purtroppo non da di avere di fronte a sé un’autocoscienza e non si riconosce neppure come tale. Le desidera e riconosce la verità soltanto nell’appagamento del suo desiderio. Nella dialettica appena vista il servo è servo della cosa e si libera rifugiandosi nella libertà del pensiero. La mediazione della cosa impedisce la reciprocità del riconoscimento.

Il servo si emancipa solo attraverso il lavoro?

No signori miei! Quello è Marx  che è pure un grandissimo interprete della Fenomenologia, ma ha le sue idee. Il lavoro è solo una delle componenti del fare del servo, l’altra è l’angoscia, la paura della morte. Il lavoro esprime il rapporto con l’oggetto, l’angoscia esprime il primo rapporto con l’Assoluto.

La lotta è metaforicamente il primo passo verso l’emancipazione?

Assolutamente sì! A patto che vi ricordiate che chi non teme la morte o è un folle o è uno sciocco. Chi non ha paura del cambiamento,  chi non trema di fronte agli abissi del sé, non scoprirà mai se stesso.

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Abbreviazioni:

PG:  Fenomelogia dello Spirito, George Friedrich Willhelm Hegel, tr. it. a cura di V. Cicero, Bompiani, 2000.

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