Fenomenologia come capire: chi ha paura di Hegel?

La Fenomenologia dello spirito di Hegel

L’Io è questo sapere assoluto pervenuto al dominio e alla certezza di sé

 

A proposito di Fenomenologia chi ha fatto il liceo ricorderà anche solo vagamente quel gioco di parole insignificante che gli faceva il professore per cui ascoltando Hegel stava lì a sentire tutto un “in-sé”, “per-sé”, “altro-da-sé”, “fuori-da-sé”, “in-sé-e-per-sé”. Fermo restando che “chi fa da sé fa per tre” e che lo Spirito in quanto sapere Assoluto i detti popolari li conosce tutti, è chiaro che il movimento dialettico non può ridursi a queste filastrocche.


ATTENZIONE! 

Qui trovate uno schema sul primo Hegel  

Qui uno schema su tutto il resto

Chi non ha letto la Fenomenologia dello Spirito e non l’ ha neanche capita può a diritto risparmiarsi la fatica di leggere il mio post, visto che non ho cose più interessanti da dire di quelle che ha detto Hegel. Chi non lo ha letto, ma dice di averlo capito si guardi bene almeno dallo spiegarlo e se ha avuto la disgrazia di essere anche un professore di filosofia lo salti direttamente.  I pochi rimasti che come me ai tempi lo lessero e non lo capirono possono se vogliono perdere un po’ del loro tempo a leggere quanto ho scritto e magari anche a dirmi la loro. Non avendoci capito nulla a suo tempo nemmeno io, ho provato a chiarire i passaggi che allora mi erano più oscuri e che mi impedivano di comprendere a fondo il suo pensiero.

Leggere la Fenomenologia dello Spirito, come ebbe a dire il mio non-maestro, è una scalata; non fate mai l’errore di pensare: “se questo è l’inizio, figuriamoci il resto”. Dopo la salita iniziale infatti si arriva in alto, l’aria è più rarefatta e il passo ancora un po’ faticoso, ma riprendendo fiato si gode di un meraviglioso panorama.

“In-sé”, “Fuori-da-sé”, “In-sé-e-per-sé”: lo Spirito che fa da sé fa per tre

Hegel, con la sua Fenomenologia, è uno dei primi pensatori a concepire tanto la ragione, quanto la natura, come risultato di un’evoluzione e a fornire per essa una legge di sviluppo forse più credibile di quella che poi diede Darwin e più che lui il cosiddetto darwinismo sociale. Si tratta del movimento dialettico di tesi, antitesi e sintesi, conosciuto anche come movimento dell’in-sé, per-sé e in sé-e-per-sé. Capire questo movimento in astratto è molto complicato, mentre diventa di gran lunga più semplice coglierlo con esempi concreti, visto che descrive lo sviluppo di qualsiasi cosa; sviluppo che proprio perché segue una legge ben precisa non è casuale, ma razionale. Le cose non evolvono a caso, ma seguendo un criterio ben preciso, che chiamiamo: movimento dialettico.

 La verità è l’identità di soggetto e oggetto.

Il Razionale è reale, il reale è razionale questo è l’assunto di base e questo è quello che deve poter ottenere la coscienza nel suo percorso. Che vuol dire?

Come fate a stabilire se una cosa è vera, se non stabilendo una corrispondenza tra ciò che avete affermato (razionale) e la realtà dei fatti? Ma quali sono i criteri di questa corrispondenza? Qual’è il metro che usate per capire se una cosa è vera o meno? Questa è la domanda da cui parte la Fenomenologia e che ci accompagna per tutto il testo.

Cos’è dunque la verità nella Fenomenologia?

Questa è la semplice (si fa per dire) domanda che la coscienza narrante (il per-noi) pone alla coscienza individuale. Questa è l’unica vera domanda filosofica che è alla base di tutte le domande possibili e su cui l’uomo dalla notte dei tempi si interroga.

Ella volta per volta risponderà con delle definizioni di verità, mentre il per-noi volta per volta la inviterà a confrontare il dato con l’ottenuto. Ciò che aveva posto come vero con ciò che è materialmente accaduto. E’ questo continuo raffrontare la situazione di partenza con quanto successo dopo che spinge in avanti la coscienza nel suo percorso all’interno della Fenomenologia.

Solo in questo senso:

“Il razionale è reale e il reale è razionale” (Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig),

non certo nel senso ingenuo che Io sono l’oggetto che ho di fronte a me. Per arrivare a sostenere una cosa del genere basta fumarsi roba buona, non certo spararsi la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.

La Parola “realtà” in tedesco è tradotta con Realität o Wirklichkeit.

Wirklich è un avverbio che banalmente si traduce con “davvero”, ma sarebbe più corretto rendere con “realmente” o “effettivamente”: “Questa cosa è davvero bella/Das wirklich schön ist”.  Wirklichkeit è dunque la sostantivazione di wirklich che in tedesco si può sempre fare, in italiano quasi mai. Di “sedia” la forma sostantivata sarebbe “sedietà” (e vi giuro che chi studia Heidegger questa parola la usa!), di “davvero” potrebbe diventare “il davvero”, ovvero la “davvereità”, che come capite tutti fa schifo come parola. Prima di farci internare alla neuro, conviene dunque cambiare termine e rivolgerci al più gestibile avverbio “realmente”.

La forma sostantivata diventa allora “Il reale” o “la realtà”;

la si confonde con Realität in italiano, perché di fatto la traduciamo allo stesso modo, ma almeno l’accademia della Crusca non ci ride dietro, visto che non siamo bambini e che di prenderci per il culo non ne ha voglia (“petaloso” per inciso è una parola che fa schifo). C’è chi preferisce l’espressione “effettuale” intendendo quindi un razionale che ha avuto un “effetto” o anche che si è reso “effettivo”, ma l’espressione di primo acchito non risulta maneggevole, per cui meglio conservare “reale” come traducente.

Fatto sta che per Hegel il razionale è ciò che viene anche “realizzato effettivamente”, ovvero, reso reale dal movimento di sviluppo, che è in sé proprio la legge (razionale) che si fa reale. Una cosa che non è razionale non viene neanche realizzata, il che equivale a dire che tutto ciò che ha una realtà effettiva ha una sua razionalità. Pensando allo sviluppo evolutivo delle varie forme di vita, alla magia del DNA (4 lettere per 4 basi azotate) e alla complessità dell’esistente è facile pensare che la realtà sia razionale, che si esprima vale a dire secondo un linguaggio che noi possiamo comprendere, proprio perché fatto della stessa natura nei nostri pensieri.

Realität è allora la realtà data, colta come su una foto potremmo dire, la Wirklichkeit è quella stessa realtà vista come un risultato, un prodotto, un divenuto.

Siamo dei Sapiens sapiens e questo è un fatto, potremmo dire, questa è realtà (Realität), siamo però anche l’evoluzione dell’uomo di Neanderthal che a sua volta discende dal l’Homo herectus e così via. Noi abbiamo realizzato l’uomo di Neanderthal, lo abbiamo reso effettuale, facendolo scomparire (che culo!). Lui però a sua volta aveva reso lo stesso servizio a quello di prima per cui siamo pari.

Siamo però anche l’unica cosa che potevamo diventare, perché siamo in quanto scaturiti da una legge di sviluppo universale, di un esito che per quanto non saputo in anticipo, né predeterminabile, si dà con la stessa necessità con la quale si da la legge dell’identità A=A e della differenza A≠non-A. Posto l’uno, vale a dire, è posta immediatamente e secondo necessità, sia l’identità dell’uno con se stesso (tesi), che l’opposizione al suo contrario (antitesi), come condizione della sua stessa identità. Sulla sintesi o riconciliazione ci ritorniamo dopo.

Parmenide: l’Essere è ciò che dice di essere, dice la verità ma non la riconosce (tesi)

Chiunque di voi avrà almeno una volta aperto un libro di filosofia si sarà certamente imbattuto nel pensiero di Parmenide e forse si sarà stupito di come egli andasse fiero nell’affermare che

“l’essere è non può non essere”

e “il non essere non-è e non può essere”,

un’affermazione di una banalità quasi disarmante: “E sti cazzi, no?” verrebbe da rispondergli. Poi però pensi che “cazzo” è una brutta parola per cui continui ad ascoltare o leggere fingendo una faccia stupita per quella meravigliosa affermazione.


 Orbene, quello fu piuttosto il momento storico nel quale l’essere raggiunse piena consapevole di sé e pronuncio per la prima volta il suo nome: proprio come io dico di essere Alessio, quando mi presento l’Essere allora per bocca di Parmenide disse di sé e disse l’unica cosa che poteva dire: che è e che non può non essere (cosa quest’ultima già bell’impegnativa, visto che io al contrario di lui sono, ma avrei anche potuto benissimo non essere).

Affinché ci sia unità, infatti, è necessario non solo che questa venga posta, ma anche che essa si sappia come tale, che essa vale a dire sia “in-sé”, ovvero presa per sé stessa, ma anche “per-sé”, ovvero abbia consapevolezza di ciò che è (sì lo so, sto recitando anche io la solita filastrocca, ma se siete giunti a leggere sin qui, ve lo posso anche dire). Si da allora il caso che l’essere umano sia l’unico punto in cui l’essere, nella sua evoluzione, possa non soltanto porsi come identico, ma che nel farlo si sappia come tale. L’uomo è l’unico ente, dirà più tardi Heidegger (si lo stesso della “sedietà”) che può porsi la domanda su cosa sia l’essere:

 Orbene io ti dirò -incalzava Parmenide – e tu ascolta accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l’una che “è” e che non è possibile che non sia, e questo è il sentiero della Persuasione (infatti segue la Verità).

Questo è il momento dell’identità immediata posta come tale, il momento dello Spirito appena nato, nel quale esso vive senza frammentazioni o differenze interne, senza lesioni o fratture. È l’infanzia dello Spirito, l’istante zero del tempo dell’uomo, quel momento di grazia nel quale tutto è come appare, tutto è irriflesso, vero, buono e bello in un medesimo tempo. Finché tuttavia l’essere o l’uno o l’identità che è lo stesso se ne stava inerte come energia, come materia, come vita non cosciente, la sua identità non poteva essere posta e a ben guardare di essa non si poteva nemmeno dire nulla. Un cane può al massimo interrogarsi su cosa mangerà per cena, ma non sulla sua esistenza (beato lui).

Prima di Parmenide l’essere quindi se ne stava nella sua forma pura, nell’identità con sé stesso e la sua esistenza non era nota, né tanto meno pensata. Insomma capite bene che la frase di Parmenide stupida, stupida proprio non era.

Proprio per la sua necessità di tenere separati gli opposti, egli si limitò a porre da un lato l’essere e dall’altro il non-essere. Se l’essere è e non può non essere, non può nemmeno divenire, non possono essere poste differenze al suo interno. L’essere parmenideo è dunque immobile, eterno, immutevole, imperituro, statico. E il divenire? È la via dell’inganno. L’essere non diviene, non muta, non si trasforma, non nasce e non muore: “Nulla si crea e nulla si distrugge” dirà secoli più avanti Lavoisier:

 L’altra [via di ricerca] è che “non è” e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del tutto inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo.

 Parmenide fu comunque costretto a dire insieme all’essere anche il non-essere e di esso disse l’unica cosa che si poteva dire, ovvero, che non può essere né conosciuto, né espresso, né pensato. Egli dunque pone un limite invalicabile che segna il confine tra essere e non-essere. Questo è il problema! (lui non ve lo cito per mia decenza) Come quando tracciamo una linea su un foglio bianco e abbiamo immediatamente, tracciato un confine tra un’al di là e un al di qua della linea, tuttavia, posto il confine si pone anche la condizione affinché esso possa essere superato.

Avete mai provato a pensare la fine dell’universo? Immaginando una linea che ne tracci il confine ultimo, non potete pensare sempre ad un oltre la linea? Questo è il nostro concetto di infinito, di limite che è anche illimitato. E’ la siepe di cui parlava quel allegrone di Leopardi, l’ostacolo che nel porsi ci permette almeno di immaginare oltre esso,  via che Parmenide ci sconsiglia di percorrere.

Noi però ce ne freghiamo e armandoci di cappello e macete, stile Indiana Jones, ci avventuriamo lo stesso oltre… l’universo direte voi? No la siepe! (sai che ci vuole).

Eraclito: Il non-essere è ciò che dice di non-essere, mente sempre! (antitesi)

Della relazione tra gli opposti si accorse invece Eraclito, il filosofo del divenire. Qui gli abbiamo dedicato uno spillo.

Panta rei (Tutto scorre)! 

Gli opposti non se ne stanno separati dal limite, ma si tendono la mano passano l’uno nell’altro….


L’essere diviene ciò che non era, il non-essere è ciò che sarà. Posta l’identità verrà dunque anche pensata la differenza: questa la proprietà fondamentale del concetto. Se costruisco l’insieme delle cose buone, se cioè mentalmente costruisco uno spazio per metterci dentro tutto ciò che è buono, ho immediatamente creato fuori da esso un “mondo” di cose che sono non-buone e il movimento può avvenire soltanto in questo spazio appena delimitato.

Per la Fenomenologia la contraddizione è nel tempo!

 È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo (Aristotele, Metafisica).

Nessuna affermazione può essere vera e falsa contemporaneamente o riferita alla stessa cosa. Un’affermazione può valere per un bambino, ma non per un ragazzo (non ha il medesimo riguardo) o essere vera quando ero bambino e falsa adesso che sono adulto (in tempi diversi). La contraddizione è infatti una legge di sviluppo, il divenire stesso è una identità di essere e non-essere (si diviene ciò che non si era) che è però possibile solo perché sussiste in tempi diversi. Si è  (presente) ciò che non si-era (passato) e si diverrà (futuro) ciò che non si è ancora (presente). L’identità è una foto, la contraddizione un racconto e precisamente la storia del divenire della coscienza (anche del genere umano e dello Spirito, ma queste sono cose che noi non vi posso spiegare adesso).

L’essere dunque si pone, nel porsi nega sé stesso, esce fuori di sé e nel negarsi una seconda volta torna in sé. Si dice che in questo passaggio ha guadagnato consapevolezza di sé e quindi che torna in-sé-e-per-sé, ma su questo punto ritorneremo dopo. Il primo momento è quello dell’identità (in-sé), il secondo dell’estraneazione (fuori-si-sé), il terzo della riconciliazione (in-sé-e-per-sé).  Posto A si pone anche non-A, posto un non-A si pone non-(non-A) e così via. Questo è il movimento della contraddizione, della negazione determinata, quello che Hegel definì con il noto aufheben, tradotto dall’insuperato Giovanni Gentile con togliere e conservare.

La negazione non è mai vuota, ma determinata, ovvero sempre negazione di qualcosa, che toglie in quanto nega, ma conserva proprio perché nega questo qualcosa determinato e non altro.

 Che vuol dire? Intanto guardiamo al verbo. Se volessimo dire che abbiamo preso un libro dalle cianfrusaglie buttate sul tavolo e lo abbiamo riposto in libreria in tedesco useremmo il participio passato del verbo: aufgehobt. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo tolto il libro dal tavolo e lo abbiamo conservato in libreria. L’elaborazione del lutto, per esempio, è un togliere e conservare: abbiamo bisogno di togliere il defunto dalla nostra presenza e tuttavia di conservarlo nella memoria, che è il senso della degna sepoltura: non a caso l’uomo è l’unico animale che seppellisce i propri morti. Negazione dopo negazione, nella Fenomenologia dell Spirito,  il movimento crea.

La luce crea la materia, la materia si differenzia nelle sostanze chimiche, le sostanze chimiche si ricompongono in materia organizzata, la materia organizza in vita e gli esseri viventi di differenziano fino al punto in cui nasce l’uomo che inizia a pensare sé stesso e ad un tempo il movimento dell’essere e di sé stesso come parte di questo stesso movimento.

Il concetto di per-sé (ve l’ho detto che ci sarei arrivato) posto in astratto è molto complicato da maneggiare,

mentre anche in questo caso concretamente è molto più semplice da capire di quello che sembra (questa è la ragione per la quale i primi passaggi della Fenomenologia sono anche i più complicati). Io posso essere intelligente e dotato, ma non essere consapevole di queste mie capacità. In-sé, allora, sarò intelligente, per-me sarò uno stupido, per-altri (chi crede nelle mie capacità) sarò di nuovo intelligente. Mentre però una pietra è in sé dura, ma non saprà mai di esserlo (sarà dura solo per me che la maneggio), se io sono duro di comprendonio come una pietra prima o poi si spera che me ne accorga (non è detto però!).

L’uomo, vale a dire, è l’unico ente che può essere per-sé ciò che è in-sé, ovvero, come detto poco prima che può guadagnare consapevolezza di sé. Perché questo passaggio richiede l’estraneazione?  Bisogna guardarsi dal di fuori per capire cosa si è, o no? Nel guardare a tanta gente stupida, tornando all’esempio, verrà prima o poi un momento in cui mi accorgerò di non essere come loro: guardandomi dal di fuori (estraneazione), mi accorgerò di ciò che ero sempre stato. Sarò allora intelligente in-me e per-me, diverrò consapevole di ciò che sono.

Il per-noi, l’unico che conosce la verità, ma non la dice (fuochino!)

La Fenomenologia dello Spirito è dunque la storia del divenire della coscienza individuale (io e tu estenuato lettore) che muove da ciò che essa crede di essere, fino al punto in cui scopre di essere ciò che è: Spirito Assoluto.

Un po’ come succede nella Storia Infinita il lettore è anche il protagonista del racconto e il racconto è in sé un percorso pedagogico ed emancipativo.


Ma cosa dovrebbe spingerci a camminare? Perché mai dovremmo muoverci dalla nostra posizione in direzione della verità? Chi ce lo fa fare di raggiungere il punto di vista dell’Assoluto? Beh intanto l’Assoluto stesso, visto che lo Spirito dopo essersi negato nella Natura, ci terrebbe a ritornare in-sé e può farlo solo se noi gli accordiamo il permesso. Noi parte della Natura permettiamo allo Spirito (leggi Dio), di ritornare dalla materia alla soggettività. In secondo luogo  ci costringe a farlo l’obsoleto programma del Liceo e per i più masochisti e particolarmente sfortunati qualche materia universitaria. Quanto a voi che siete arrivati si qui, sul serio non capisco cosa vi abbia spinto, ma visto che ci siete arrivati, vi faccio la cortesia di risolvervi l’enigma. La coscienza individuale è interrogata da un’altra coscienza.

Come succedeva alle origini della filosofia con Socrate, la verità resta un dialogo, un discorso a due. Una coscienza domanda e l’altra risponde.

La domanda della coscienza interrogante è quella del filosofo, allora Socrate, adesso Hegel, che semplicemente si limita a chiedere “cos’è la verità”. Lui lo sa già, ma siccome è bastardo dentro, vi rifila nella sua Fenomenologia prima di dirvelo un pippotto di 800 pagine scritte in tedesco, che restano in tedesco anche dopo averle tradotte (io sono più buono e ve l’ho spiegato in 4 pagine). La coscienza interrogante indica la strada verso la verità, che conosce per il semplice fatto di averla già percorsa e di essersi portata già al punto di vista che l’universale ha raggiunto in quel momento.

Essa è definita nelle Fenomenologia da Hegel come per-noi, ad indicare il senso collettivo della verità, il suo emergere come coscienza di un popolo, spirito dominante del tempo. Tutta la Fenomenologia è un dialogo tra il per-sé della coscienza e il per-noi del narratore, punti di vista la cui distanza verrà via via colmata nel corso della narrazione, sinché alla fine per-sé e per-noi vengono a coincidere. Raccontarvi come finisce la storia sarebbe come rovinarvi il finale di un bel film e quindi non ve lo dico (su serio pensavate che in 4 pagine potessi riassumerne 800?!?), ma è un finale di quelli a sorpresa, di questo statene certi.

La sintesi? Siamo spiacenti lavori in corso!

STIAMO PER CONCLUDERE FORZA METTI UN BEL LIKE!


L’uomo vive in comunità, egli è l’uno e la comunità sono i molti, egli ha un’idea di sé e la comunità un’idea di lui: esiste un per-sé ed un per-noi, quello che abbiamo definito lo spirito di un’epoca, la sensibilità storica di un periodo o fate voi. Nel suo insieme lo Spirito si muove, come magma ribolle, dal basso verso l’alto e poi di nuovo giù per ritornar su. Si muove in parti, non tutto assieme e mentre da un lato lo spirito avanza, dall’altro indietreggia, mentre una parte tira, un’altra gli si oppone, esattamente come succede a noi nella nostra crescita interiore. La realizzazione dello Spirito Assoluto nella Fenomenologia dovrebbe coincidere con la fase in cui quest’ultimo si ricompone, non in parti o momenti singoli, ma tutto intero.

È per Hegel un ritorno all’epoca classica dei Greci, a quel momento dell’identità immediata, del tempo in cui guardando un quadro potevamo sospirare e non interrogarci perplessi su cosa sia. Per dirla con Karl Marx è il momento nel quale “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”, il paradiso in terra per intenderci.

La riconciliazione è dunque un momento storico nel quale lo Spirito prende consapevolezza della sua identità,

l’Io si riconcilia con la comunità, il maschile con il femminile, il buono, con il giusto e il vero e non servono più gli avvocati, insomma, è proprio il paradiso che si realizza sulla terra (tranne che per gli avvocati si capisce). E’ il momento nel quale tutte le differenze vengono tolte. Tutte, tutte? Si proprio tutte! La realizzazione dell’universale è allora anche il momento in cui scompare l’individuo, il negativo, il dissonante, che è poi la ragione per cui taluni se la prenderanno tanto con Hegel e il suo concetto di Spirito Assoluto.

La riconciliazione dello Spirito nella Fenomenologia non è però un movimento di pensiero, come vogliono i critici dell’idealismo, perché Hegel non è così stupido da pensare che facendosi le pippe mentali si cambi la storia (anche se di pippe mentali se ne fece proprio tante); è piuttosto la possibilità di un futuro che Hegel immaginava come prossimo, forse anche una promessa per le nuove generazioni. Oggi sappiamo che la sintesi non c’è stata, il comunismo non s’è realizzato e l’uomo vive una profonda lacerazione con la sua comunità. Viviamo nell’epoca dell’estrema individualità, nella quale il privato ha la meglio sul pubblico, l’individuo sulla comunità, l’economia sulla politica. Un’epoca nella quale è possibile pensare che in nome del debito e della stabilità dei mercati si possa affamare un popolo, schiavizzarlo e privarlo della sua dignità:

“La sintesi? Siamo spiacenti, lavori in corso”

scriverebbe oggi Hegel alla fine della sua Fenomenologia.

/ 5
Grazie per aver votato!