Con il termine scetticismo si indica una specifica corrente post socratica, nata in contrapposizione al pensiero platonico e cresciuta sulla scia della profonda crisi che il mondo ellenico viveva in quegli anni. Così come lo stoicismo e l’epicureismo queste dottrine enfatizzavano molto più la componente pragmatica del pensiero a tal punto che vanno a delineare dei veri e propri stili di vita. Nello specifico lo scetticismo, rispetto ai tempi classici della filosofia ellenica magistralmente rappresentata da Socrate, Platone e Aristotele, nel ripiegare dal lato della soggettività singola, non la intende più come forma assoluta della verità, alla maniera sofista, ma piuttosto come rifugio da un mondo che cade in rovina. La verità è ancora una volta oggetto di critica, ma non più nel senso che è la soggettività pura a detenere in sé le chiavi di accesso a tutte le verità che intende affermare, ma nel senso che di ogni verità è possibile dubitare e l’unica certezza che posso guadagnare è del mio solo dubitare.
Lo scetticismo come via d’accesso alla verità
Lo scetticismo diventa così in senso più lato un momento del pensiero, un’espressione comunque che si riferisce alla necessità di sospendere il giudizio e con esso la verità di ciò che afferma. Più avanti il momento scettico, come in un certo senso già in Aristotele la critica ai sofisti, servirà per fondare la certezza della verità. Già da per Sant’Agostino il dubbio, diventa un dubbio radicale, ovvero assoluto ed in quanto tale capace di guadagnare certezza almeno su questa sola verità, che di tutto è possibile dubitare e che esisto almeno come ente che dubita: “Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto”. Seguirà, con ragionamenti del tutto simili, Cartesio il quale avvierà l’epocale svolta moderna, che è in sé stessa un recupero del tema profondo dello scetticismo, ovvero, il passaggio dall’ontologia classica alla gnoseologia, l’idea per l’appunto che i criteri di verità sono soggettivi, ineriscono vale a dire a strutture profonde dell’Io e non della realtà in sé. Vista così la svolta moderna è un recupero dell’antica visione protagoreo dell’Homo mensura. Come è tuttavia possibile risalire dai gradi di incertezza posti dal dubitare all’oggettività della conoscenza? Questo è il tema aperto dalla scetticismo e tutt’ora insoluto.
Critica alla verità unica
La critica scettica tematizza intorno all’impossibilità gnoseologica di pervenire all’in sé delle cose. La conoscenza si fonda, infatti, su sensazioni e opinioni e né l’una, né l’altra colgono l’intima essenza della realtà. Se la conoscenza è una adequatio rei atcque intellectus come volle definirla l’aristotelico San Tommaso e se la nostra conoscenza non arriva mai alle cose, ma resta sempre circoscritta alle nostre opinioni, allora, qualunque affermazione non può più essere vagliata, ovvero, rapportata alle cose in sé. Ne consegue che “nulla è, né bello, né brutto, né giusto, né ingiusto […] di tutte le cose nulla è secondo verità” (Diogene Laertio IX 61). Il soggetto coglie l’apparire delle cose, il fenomeno, attraverso schemi e strutture proprie. Resta rinchiusa dentro sé potendo solo acquistare consapevolezza della sua stessa incapacità di dire alcunché con certezza. Di pronte al limite onnipotente della soggettività pura la risposta non è dunque il trionfo sofistico che riteneva l’uomo e non le cose fuori di lui la reale misura del vero e del falso, ma il silenzio. Lo scettico tace di fronte al mondo, sospende il giudizio, non riconoscendo più nella soggettività, capacità normativa: “Sarà possibile sfuggire a questa molestia se molestia se mostreremo a chi è turbato o per evitare il male o per ricevere il bene, che nella natura non vi è né bene, né male, ma da parte degli uomini queste cose sono state discriminate con la mente” (CAIZZI Fr. 64).
L’epoché nello scetticismo
L’epochè è dunque intesa dallo scetticismo non come punto di partenza della ragione, ma come fuga da essa stessa, come forma di consolazione sul piano pratico prima ancora che sul piano teorico. Non vale la pena affannarsi nella ricerca del bene, dell’utile e del giusto ammonisce Pirrone, fondatore dello scetticismo, visto che queste non sono determinazioni della natura, ma definizioni arbitrarie dell’uomo. Ecco che allora l’epochè sul piano pratico si traduce in nichilismo, assenza di motivazioni, vuoto motivazionale: “Vanità delle vanità” ammoniva Qoèlet, nel celebra libro della Bibbia “vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa”. Colui che vuole essere felice, allora, dovrà conservare “sempre la stessa disposizione, vivendo senza inclinazioni e senza scosse” (CAIZZI fr. 53). L’atarassia è lo stato conclusivo al quale perviene il saggio e non per particolare predisposizione o quale forma di sapienza, ma come costante esercizio della volontà, che nel suo volere vano, può solo con forza desiderare di non volere niente. L’imperturbabilità di fronte alle cose che accadono è dunque la forma dell’azione che incapace di motivarsi verso il mondo, concepisce come motivo supremo la fuga da esso.
Radicalizzare il dubbio: via di uscita dallo scetticismo
La ragione scettica è tale perché si ostina nel dubbio lo eleva a forma di vita, prassi e comportamento (atarassia), è la forma “autistica” della ragione, smarrita per ciò che vede fuori e tutta rinchiusa al suo interno. Essa è la metafora del dileguare che nella sua forma assoluta dilegua sé stesso, come ebbe a dire più tardi Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito. La soluzione al dubbio è la sua radicalizzazione, si esce dal vuoto mutismo della ragione non già provando a dimostrare la solidità di alcune verità su altre, minando le ragioni del dubitare, ma elevando il dubbio a forma assoluta della ragione. Pensare vuol dire dubitare, dubitare vuol dire esistere se non altro come atto del dubbio. Se l’uomo è il discrimine del bene e del male, la via di fuga è allora riconoscere, seguendo la nota espressione agostiniana che in interiore homine habitat veritas: “Riconosci dunque quale è la suprema armonia, non uscire fuori di te, rientra in te stesso la verità abita nel profondo dell’uomo; e se troverai che la natura è mutevole trascendi anche te stesso” (Agostino, De vera religione, XXXIX, 72). Per Sant’Agostino si tratta ancora di una verità rivelata, che abita l’uomo, ma non gli appartiene, eppure, nel suo tentativo di ostacolare lo scetticismo trova la via verso la modernità. Si fallor sum chi dubita, coglie sé stesso nell’atto di dubitare e guadagna questa certezza, come principio dell’autocoscienza. Essere e sapere di essere sono le due certezza desumibili dal dubbio, cui si aggiunge l’amore per questa stessa esistenza: “E a questi due elementi, cioè che sono e che mi apprezzo e mi stimo, aggiungo un terzo, cioè l’amore per tale essenza” (Ibid.). Il dubbio ha dunque rilevato una trinità interiore di essere, sapere e amore impronta della somma trinità, di Onnipotenza, Onniscienza e Bontà infinita.
Lo scetticismo in età moderna
Si ripropone così in forma diversa l’antico atteggiamento razionalista, che coglie le giuste ragioni nella critica relativista al vero, ma che si oppone ad essa sfruttandola e non semplicemente negandola. Si tratta della strategia del dubbio radicale, che eleva il dubbio a forma metodologica, criterio di verità.
Lungo il corso della storia i nouveaux pyrrhoniens contribuiranno a porre le fondamenta di una nuova forma di soggettività, non più riflesso della divinità ma autofondata, radicata su sé stessa, come fonte autonoma e indipendente di conoscenza. Nei corsi e ricorsi del pensiero succede allora Michel de Montaigne con il suo saggio riattiva l’esigenza antica del dileguare, demolire le fondamenta di ogni pretesa individuale: “La peste dell’uomo è la sua presunzione di sapere, ecco perché l’ignoranza ci è stata raccomandata dalla nostra religione come qualità proprie alla fede e all’obbedienza” (Montaigne, Apologia, 636). La presa di coscienza dei limiti della conoscenza è ancora accettazione di un’autorità a noi superiore, dalla quale deriva certezza e verità rivelata. Lo scetticismo di Montaigne sottolinea ancora una volta l’incapacità di rapportare la conoscenza alle cose perché ostacolata dagli stessi strumenti con il quale coglie la realtà che inevitabilmente ne viene deformata:
Ora dato che la nostra condizione adatta le cose a sé e le trasforma secondo sé stessa noi non sappiamo più quali esse siano in verità, poiché niente ci perviene se non falsato e alterato dai nostri sensi. Se il compasso e la squadra sono storti tutte le proporzioni che se ne traggono, tutti gli edifici che si costruiscono sulla loro misura sono necessariamente imperfetti e difettosi. L’incertezza dei nostri sensi rende incerto tutto ciò che essi producono (Mointagne, Saggi, 799).
Il punto di vista relativistico tuttavia nel pensatore moderno si traduce nel principio di tolleranza, sospendere il giudizio in questo caso non equivale al silenzio, ma all’accettazione dei diversi punti di vista. Sul piano morale allora è possibile sostenere che tutto è concesso, perché tutto va interpretato alla luce di coloro che compiono l’azione e delle loro ragioni:
Non c’è niente di tanto orribile a immaginare, quanto mangiare il proprio padre. I popoli che anticamente avevano questa usanza la intendevano tuttavia come testimonianza di pietà e di grande affetto cercando di dare ai loro progenitori la sepoltura più degna e onorevole, albergando in sé stessi e per così dire nel loro midollo. (Ibidem, 772).
Guardando bene il punto di vista di Mointagne è facile notare come in effetti la diversità dei punti di vista può comunque interagire, per quanto distante possa sembrarmi un comportamento esso è in qualche misura “traducibile” nel mio schema di valori, ancorché non interamente giustificabile in esso. Comprendere le ragioni che sottostanno un comportamento, significa affermare che quest’ultimo non è in toto arbitrario e che per quanto gli strumenti con i quali interpretiamo la realtà siano diversi tra loro essi sono comunque raffrontabili, possono cioè essere posti in comunicazione.
Cartesio il trionfo del metodo sullo scetticismo
Il passaggio dallo scetticismo moderno alla sua riduzione a momento del metodo avviene notoriamente con Cartesio. Che torna ad utilizzare il dubbio come strategia fondativa e contro sé stesso. Egli procede di nuovo alla radicalizzazione del dubbio:
Poiché allora desideravo unicamente di attendere la ricerca delle verità pensai che dovevo fare tutto il contrario e giudicare come assolutamente falso tutto ciò in cui potessi immaginare il minimo motivo di dubbio. (Cartesio, Discorso sul metodo, 43).
La ragione deve allora rifiutare “come assolutamente falso tutto ciò in cui si piò immaginare il minimo motivo di dubbio”. L’intuizione ne segue è l’unico atto della ragione realmente efficace, essa consiste nel rapporto diretto e immediato con l’oggetto senza alcuna mediazione. Avendo guadagnato il criterio dell’evidenza, egli può procedere a demolire l’intero edificio della conoscenza, proprio come prima di lui avevano fatto Mointagne e lo scetticismo in generale. Il teorico del cogito, ha tuttavia bisogno di guadagnare il dubbio come atto totalizzante del pensare, deve perciò procedere non soltanto a demolire la percezione, fondamento della conoscenza, ma l’esistenza stessa della realtà. Cosa mi rassicura sul fatto che l’intera mia esistenza sia in realtà un sogno?
Se la realtà è un sogno tuttavia continua ad esistere un piano di evidenze e sono quelle che appartengono alla Matematica, 2+2 continuerà a fare 4, sia che io sogni sia che sia desto. Ecco allora introdotto da Cartesio l’artificio retorico più astruso. Ovvero l’ipotesi di un Dio maligno che possa ingannarmi anche su ciò che io reputo certo ed evidente. La radicalizzazione del dubbio, rende allora possibile individuare il principio autoevidente che può costituire il perno del pensare, solido e in grado di reggere “sotto l’urto delle più stravaganti supposizioni scettiche” (ibidem).
Ma subito dopo mi resi conto che nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E che cos’è una cosa che pensa? (Ivi. p. 45)
La via dello scetticismo porta per essa oltre essa. Il cogito non rappresenta una verità assoluta, quanto piuttosto la prova del criterio dell’evidenza, del fatto cioè che sussista una verità che si offre nella sua immediatezza come inconfutabile. L’evidenza è nel suo significato originario non una conoscenza ma una prova che sono possibili certezze: “La scoperta di una verità assolutamente certa – scrive Popking – può demolire la tesi scettica che tutto è incerto, ma nello stesso tempo una verità non costituisce un sistema di conoscenze della realtà” (Popking, 213). L’Io dunque esiste, ma solo come sostanza pensante, res cogitans, senza che questa sua attività rimandi dall’interno ad una trascendenza come succedeva nel pensiero di S. Agostino. L’evidenza per Cartesio costituisce la misura del vero, il criterio che andavamo cercando in grado di orientarci verso la comprensione del mondo. L’operazione logica cartesiana non è assolutamente priva di critiche, la strategia del dubbio radicale è un tentativo di fondare la conoscenza su sé stessa e la sua attività, che tuttavia non dimostra gli assunti da cui parte. Perché mai dovremmo rifiutare come false cose dubbie, se il dubbio consiste proprio nel non sapere che siano vere o false? Rifiutiamo queste verità per guadagnare la certezza del dubbio che ritorna successivamente come criterio di verità a verificare nuovamente ciò che avevamo scartato in precedenza come assolutamente falso. L’uso del relativista contro se stesso, conosciuto già dallo stesso Aristotele con la sua dimostrazione del principio di non contraddizione non può non soffrire di un vizio di circolarità di fondo ed è tutt’ora dubbio se la conclusione corretta alla premessa sia piuttosto l’epoché, la sospensione del giudizio, il silenzio.
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