Jürgen Habermas: Azione e interazione

Jürgen Habermas è l’erede della scuola di Francoforte.

Jürgen Habermas è un pensatore che ha dietro di sé una produzione bibliografica immensa. Questa presenta non poche difficoltà nell’interpretazione del suo pensiero. I temi da lui trattati sono infatti vasti quanto l’intera storia della filosofia, della semiotica e sociologia. solo per citare i campi principali da lui trattati. Potremmo definirlo l’ultimo pensatore sistematico non sistematico. La sua conoscenza enciclopedica, viene sicuramente raccolta in degli schemi ricostruttivi, in linee genealogiche. Queste tuttavia non compongono un quadro organico e sistematico.

Dentro il suo percorso filosofico si distingue solitamente un Habermas francofortese, più vicino ai temi classici della scuola e un Habermas più linguista. Per questa ragione si parla di svolta linguistica  nel pensiero di Habermas. Uno sguardo più attento in realtà si accorgerà di come i concetti principali della sulla teoria dell’agire comunicativo sono in gioco fin dai primi anni della sua attività filosofica.

La cosiddetta svolta linguistica in ambito filosofico  consiste in uno slittamento dei temi tradizionali della pensiero dal piano logico-gnoseologico a quello pragmatico-linguistico. Il tentativo è quello di far piazza pulita dei finti problemi posti in essere dalla filosofia della coscienza.Già Wittgenstein aveva osservato come fosse l’impostazione filosofica occidentale in sé il problema. Questa non fa altro che costruire paradossi. Pone problemi piuttosto che risolverli.

L’unico modo per liberarsi delle aporie della storia del pensiero occidentale è allora liberarsi della logica che le ha costruite.

Habermas abbraccerà questa impostazione sin dai suoi primi scritti. Già in Conoscenza ed Interesse riterrà che il problema della filosofia critica consiste nella strategia del dubbio incondizionato. Senza scendere al momento nei dettagli, Habermas sostiene che l’unico modo per sciogliere il problemi della modernità è superarla dialetticamente. Bisogna cioè conservare la tensione critica, ma abbandonare la pretesa di una fondazione ultima.

Cos’è la svolta linguistica nel pensiero occidentale

La filosofia del linguaggio rompe alcuni degli schemi tipici dell’impostazione filosofica occidentale. Il linguaggio in quanto strumento di comunicazione è infatti anche un comportamento. Il parlare è anche un agire e l’azione è sempre orientata verso un fine. Il pensiero è dunque un pensiero che si esprime attraverso un linguaggio che è espressione di una visione del mondo. Esprime un comportamento che è mosso da un interesse pratico.

Nell’impostazione della vecchia filosofia moderna, quella che inaugura Cartesio per capirci, il problema principale è individuare un criterio che ci permetta di far luce sulle nostre conoscenze. Tale criterio sarà il fondamento del metodo scientifico e definirà la scienza. Questa infine verrà distinta dalla mera opinione. L’ambito nel quale si svolge questa  critica alla conoscenza è proprio quello filosofico. La filosofia moderna è perciò una teoria critica della conoscenza. Essa è il pensiero che indaga su se stesso e sulle proprie condizioni di possibilità. Questo livello di indagine è definito “metaconoscitivo”. E’ vale a dire oltre il piano della conoscenza.

Qual’è il problema di questa impostazione? Il metodo resta quello cartesiano. Occorre innanzitutto depurare il pensiero dal suo oggetto. Se è vero che il pensiero pensa sempre l’essere, allora occorre “filtrare” il primo, sganciandolo dal secondo. Il movimento è quello dell’epoché, del sospendere la validità o mettere tra parentesi. L’epoché dunque solleva dal piano dell’esperienza la questione delle condizioni di possibilità dell’esperienza. Guadagna il piano metaconoscitivo che andavamo cercando.

Conoscenza e meta-conoscenza

Tolta la conoscenza empirica, tolte le scienze matematiche e logiche, messa in dubbio la mia stessa esistenza emerge dalle ceneri del dubbio il Cogito. Questo sarà il principio evidente fondante, ma non fondato. L’erede nel Dio cristiano creante, ma non creato. Questo è grosso modo il problema della modernità. Liberarsi dell’impostazione assiomatica del cristianesimo senza però rinunciare alla pretesa di una causa prima, di un ente sommo posto a guardia del pensiero stesso.

Un’operazione più strutturata è compiuta da Kant. Nella sua critica alla ragion pura stabilisce il criterio trascendentale come garante della conoscenza sicura. Il trascendentale è in sé in quanto condizione di possibilità, oltre l’esperienza, pur essendo sempre legata ad essa. Come per il criterio dell’evidenza di Cartesio anche per Kant le condizioni trascendentali della conoscenza non vanno dimostrate. La giustificazione per loro non è sillogistica, ma descrittiva.

Ciò che è evidente non necessità di alcuna dimostrazione proprio perché è evidente.

 Kant come Cartesio parte dal presupposto che ci sono delle conoscenze più certe di altre e che occorra piuttosto capire cosa le rende certe, per individuare il criterio con il quale produrre certezza per così dire.

L’analogia con il cristianesimo dunque torna ancora. Neanche San Tommaso intese mai dimostrare l’esistenza di Dio. Per lui sarebbe stata una bestemmia. L’essenza della fede non è la dimostrazione ma la fede. Quelle che indicò dunque non erano prove dell’esistenza come spesso si dice, ma “vie”. Occorreva individuare il cammino che conduce alla verità, pur sapendo che quella verità esiste già a prescindere dal fatto che io la scopra.

Cartesio, ma anche Kant vivono la modernità. La scienza con cui hanno a che fare loro è la fisica e poi la biologia. Questa ha già celebrato storicamente la sua vittoria sulla fede. Sono state già fatte scoperte sorprendenti che hanno cambiato la storia. Come prima per Dio, nessuno in altre parole mette in discussione che ci sia un fare scientifico che abbia portato a tali risultati. Occorre solo individuare come si sono ottenuti. L’indagine di questo tipo è dunque un indagine ricostruttiva ed è questo il terreno proprio della teoria critica o criticismo.

Linguaggio è meta-linguaggio di se stesso e di tutti i metalinguaggi possibili

Qual’è dunque il problema? L’indagine sulle condizioni di possibilità della conoscenza non sono forse già conoscenza? L’operazione del sospendere il giudizio non è forse un esercizio retorico? Possiamo sul serio smettere di pensare e respirare e parlare? Insomma possiamo davvero sospendere la validità delle nostre conoscenza per indagare sulle sole strutture della conoscenza? Possiamo davvero sospendere la validità del principio di non contraddizione per dimostrarne la validità? La risposta è No. Tant’è che Aristotele fa parlare per primo il sofista lasciando che sia lui ad essere catturato da questa contraddizione: “Non si può negare il principio di non contraddizione, senza affermarlo”.

Insomma la teoria critica della conoscenza usa già i criteri che deve ancora dimostrare e cade nel vizio della petitio principi che Aristotele semplicemente scansò mediante l’artificio retorico di “includere” l’obiezione di un presunto oppositore. 

La verità è che se avesse cominciato lui affermandolo sarebbe caduto nello stesso errore: Esso è già da sempre in uso ancora prima di affermarlo. Ma che vuol dire che lo usiamo? Vuol dire innanzitutto che la conoscenza è un comportamento e che non possiamo smettere di averne uno. Siamo l’insieme delle nostre conoscenze e credenze e convinzioni sulla realtà. L’interno è l’esterno. L’io è il risultato delle relazioni che costituisce con il mondo esterno e con l’altro Io.

Tutti questi ragionamenti che la filosofia del conoscenza guadagna con fatica e a prezzo di forti contraddizioni costituiscono le premesse della filosofia del linguggio. L’idea principale che subentra con la svolta linguistica è infatti che il linguaggio è metalinguaggio di sé stesso. Le condizioni di possibilità del discorso sono infatti da individuare essere stesse in un discorso. Comunicare è un comportamento che non si può non assumere. Il discorso non necessità di una fondazione ultima perché il linguaggio non ha una struttura piramidale. Tutto è centro e tutto è periferia. Dalla base del linguaggio ogni tanto si stacca un pezzetto di verità messo in questione e analizzato in un discorso.

La teoria del linguaggio in questo senso dissolve un paradosso che ha permeato tutta la filosofia moderna, il paradosso della fondazione ultima. Un inizio senza presupposti, senza che cioè i principi primi vengano mostrati e non dimostrati non è possibile dentro lo spazio della vecchia filosofia.

Habermas: La teoria degli interessi guida della conoscenza

Alla riflessione critica di matrice kantiana va sottoposto un altro livello di riflessione fenomenologico che indaga sul processo di sviluppo di quelle stesse strutture trascendentali. Habermas parla perciò di Tiefenstruktur, struttura profonda. Occorre indicare questo livello di inabissamento del trascendentale, dentro la storia dello sviluppo del genere umano. I quadri trascendentali non sono strutture perenni, ma evolvono.

Si passa da una ragione solitaria separata dal soggetto empirico ad individui in carne ed ossa. Questi in quanto concreti sono interessati  orientati verso un oggetto desiderato. Nessun uomo è un’isola. Ogni individuo costruisce la sua identità rapportandosi agli altri. Si parla perciò di costruzione sociale del sé e di interazione. Lavoro e Interazione, sono dunque i due movimenti che compie l’individuo. Sono le due forme di razionalità cui sottostanno due diversi interessi della conoscenza. «l’interesse conoscitivo alla disposizione tecnica su processi oggettivanti (EuI 10)» e «l’interesse al mantenimento e all’estensione dell’intersoggettività di una possibile intesa che orienti l’azione (EuI 11)».

Agire strumentale, agire comunicativo ed emancipazione

Gli interessi più un dato di fatto della ragione sono un risultato e in quanto risultato non possono più anticipare ciò da cui provengono, ma vi susseguono. Gli interessi della conoscenza emergono dallo sviluppo materiale della storia del genere umano e risalgono dallo stato di inconsapevolezza via via che lo sviluppo del pensiero guadagna i livelli corrispettivi di riflessione.

L’agire strumentale e l’agire comunicativo sono in sé una ricomposizione dei due livelli della razionalità pratica e teorica insieme. La ragion pura è infatti interessata e nella misura in cui lo è e calata nel particolare. Quello che non è chiaro tuttavia è se l’agire comunicativo si ponga come superamento dell’agire strumentale o semplicemente gli si accosti accanto.

Agire emancipativo

La mediazione tra le due forme di razionalità è perciò tentata attraverso un modello di razionalità emancipativa. L’emancipazione è legata dai tempi di Socrate ad una conoscenza di sé attraverso l’altro. Un dialogo nel quale uno dei due individui conosce l’illusorietà delle verità dell’altro e per questa ragione è in grado di individuarne i punti deboli. L’espressione moderna di questa attività è la psicoanalisi.  Habermas immagina che l’emancipazione sia il movimento di emersione della razionalità dalle tracce lasciate dal dissonante.

Freud a detta di Habermas sarebbe il primo grande pensatore ad aver posto le basi per un recupero definitivo dello spazio della critica. La razionalità emancipativa è ad un tempo riflessiva. “Lo spirito può ripiegarsi sulla connessione di interesse, che ha in partenza annodato soggetto e oggetto; e ciò è riservato unicamente alla riflessione (EuI 15)». La razionalità emancipativa scopre e dissolve la contraddizione interiorizzatasi nell’individuo e resasi manifesta nel sintomo.

Il linguaggio formale

L’analisi del linguaggio assume un ruolo centrale a partire dallo scorso secolo, quando autori raggruppatisi nel famoso circolo di Vienna tentarono l’elaborazione di un linguaggio formale. Autori come Carnap, Russell e lo stesso Wittgenstein furono coinvolti nel tentativo di individuare la struttura universale del linguaggio. Questa infatti era la stessa a dare forma ai pensieri, ma anche alla realtà. Pensiamo attraverso le parole e queste sono in grado di condizione i nostri ragionamenti. Si dice che il linguaggio esprime una visione del mondo. allo stesso modo la realtà non è l’insieme di oggetti, ma di fatti che possono accadere come non accadere. L’albero è un oggetto, che l’albero sia piantato per terra è un fatto, ovvero una relazione.

A dare significato alle parole, come i fatti allora non è nient’altro che l’insieme delle relazioni che queste parole o concetti o fatti intrattengono tra loro. Per spiegare la parola “albero” userò altre parole e molto probabilmente alla fine farò anche degli esempi nei quali uso la parola, per mostrarne il significato. I primi filosofi del linguaggio erano persuasi che i problemi storici della filosofia dipendessero dalla filosofia stessa. L’approccio tradizionale non poteva non concludere che in paradossi irrisolvibili. Nel linguaggio invece la filosofia lascia tutto com’è, esso semplicemente funziona. Per certi versi esso è pensato un po’ come il LOGOS per gli stoici. E d’altra parte linguaggio deriva anch’esso da logos.

Le aporie del linguaggio formale

Il problema nel quale si arena il tentativo di individuare un linguaggio formale è chiaramente espresso da Wittgenstein alla fine del suo Tractatus. La riduzione della realtà a insieme di fatti (relazioni) e non cose (sostanze) induceva a pensare il linguaggio nella sua unica funzione rappresentativa. I problemi di natura etico-religiosa venivano dunque scartati perché non compatibile con la struttura dei “fatti”.  L’etica e l’estetica non sono fatti del mondo. Tuttavia come ebbe a concludere lo stesso autore per questa via:

6.52. Noi sentiamo che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure stati sfiorati. <span class="su-quote-cite"><a href="https://professoredmarfilosofia.files.wordpress.com/2012/02/ebook-ita-wittgenstein-tractatus-e-quaderni1.pdf" target="_blank">Wittgenstein</a></span>

Il tentativo di individuare un linguaggio formale conduce silenzio. Se le uniche verità che si possono affermare sono quelle scientifiche basate su fatti, alla filosofia non resta alcuno spazio. Il metafisico, il mitico, l’etico, il bello non sono fatti del mondo. Essa può solo mostrare l’insensatezza delle sue proposizioni:”Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere“. Questa è la conclusione parossistica del cosiddetto positivismo logico.

La funzione rappresentativa del linguaggio è preceduto da un primato direi quasi antropologico della “vista” su tutti gli altri sensi. “vedere per credere” si suol dire. Questo per indicare il fatto che la certezza assoluta, la prova ultima può essere data soltanto da ciò che ci sta di fronte. La verità è un adeguamento delle cose e dell’Intelletto diceva San Tommaso. La conoscenza rappresenta il mondo. E’ piuttosto indifferente da questo punto di vista se sia il mondo ad adattarsi alla nostre strutture di pensiero (gnoseologia)  o il pensiero a “copiare” i fatti del mondo “ontologia”. Resta il fatto che viene ingigantita la funzione rappresentativa della conoscenza. La prima analisi del linguaggio risente di questo problema.

La teoria “rappresentazionista” del linguaggio ha come primo problema, dunque, quello di lasciar fuori da sé tutto ciò che non può essere ridotto alluso descrittivo.

“La funzione rappresentativa del linguaggio fornisce l’immagine fuorviante di un pensiero che rappresenta oggetti o fa presenti fatti soltanto se la si distacca da questo contesto di esperienze riferite all’azione e di giustificazioni discorsive” (WR, 31). Come afferma lo stesso Habermas, «lo “Specchio della natura” – la rappresentazione della realtà è il modello errato del conoscere, perché la relazione a due membri di immagine e riproduzione – e la relazione statica tra asserzione e stato di cose – chiude in dissolvenza la dinamica dell’accrescimento del sapere mediante soluzione di problemi e giustificazioni» (WR, 31).

Con il linguaggio tuttavia non rappresentiamo soltanto oggetti. Facciamo promesse, preghiamo, esortiamo e così via. Detta alla buona il linguaggio non rappresenta qualcosa, ma serve a qualcosa. Parlare è un azione, un atto linguistico più precisamente, esprime dunque delle intenzioni. Parlare è innanzitutto parlare con qualcuno di qualcosa. Il linguaggio ridotto a rappresentazione di fatti, innalzava l’asserzione a forma pura ed escludeva ad un tempo le altre funzioni del linguaggi e i suoi molteplici criteri di validità. Rappresentava inoltre il soggetto linguistico come un soggetto solitario. Lo astraeva dal suo contesto

Il linguaggio ordinario e la filosofia analitica

Pensandoci bene cosa rende valida un asserzione? Ed è possibile sostenere che le sue condizioni di validità siano identiche alla promessa, al domandare, al dubitare, al giurare e così  via? Non si tratta forse di atti linguistici diversi che pertanto hanno condizioni di validità diverse?

L’uso comune del linguaggio esso rivela piuttosto le sue infinite potenzialità. La vita quotidiana ci mostra come anche quando di afferma qualcosa la si afferma di fronte a qualcuno. Questo qualcuno può accettare o rifiutare la nostra versione dei fatti. Può rispondere o non rispondere alla nostra domanda. Può credere meno al nostro dubito ecosì via. l’analisi del linguaggio ordinario permette dunque la funzione assertiva delle proposizioni entro il quadro più ampio del riferimento intersoggettivo della comunicazione. “Il riferimento al mondo e alle cose della componente proposizionale si intreccia con il riferimento intersoggettivo della componente illocutoria” (WR, 31).

La pragmatica universale

E’ in questo spazio di analisi che si inserisce l’elaborazione di una pragmatica universale. Secondo Habermas infatti la funzione principale del linguaggio è il consenso. Possiamo usare la ragione come uno strumento per emanciparsi alla Natura. Per guadagnare livelli sempre superiori di indipendenza (sviluppo tecnologico). Questo equivale all’uso strumentale della ragione che per quanto importante tuttavia, non è affatto l’unico.

Esiste anche un esigenza comunicativa e relazionale rispetto agli alti. L’agire comunicativo è l’espressione originaria dell’Io: «Se concepiamo “l’intesa” come il telos intrinseco alla lingua, la pari originarietá di rappresentazione, comunicazione e agire risulta evidente. Ci si intende con un altro circa qualcosa nel mondo» (WR, 5).

«Come rappresentazione e come atto comunicativo – sottolinea lo stesso Habermas – l’espressione linguistica guarda contemporaneamente in entrambe le direzioni: verso il mondo e verso il destinatario» (WR, 5).

Se l’uso principale del linguaggio è la comunicazione, ovvero la regolamentazione dei rapporti intersoggettivi, l’intesa è il telos originario di ogni atto linguistico. C’è di più. Per Habermas l’intesa universale è la condizione originaria dell’uomo, che nasce immerso nel suo mondo linguistica. Ogni individuo nasce in sintonia con il suo ambiente familiare e sociale. Da esso trae i suoi quadri trascendentali, ovvero, le sue convinzioni di fondo. Solo dopo uno sviluppo individuale e sociale completo è in grado di entrare in conflitto con questo sistema di valori costruito socialmente. Questi gradi di sviluppo dell’Io sono analizzati da Habermas  attraverso gli studi di Piaget e Kohlberg.

A noi basti sapere che c’è una fase in cui l’individuo è chiamato ad appropriarsi del grado di sviluppo sociale e culturale prodotto dalla sua comunità e dalla sua epoca e uno stadio più evoluto, definito postconvenzionale nel quale l’individuo può entrare in conflitto con queste convinzioni di sfondo per rielaborarle in  modo autonomo

La filantropia di Habermas

Habermas è dunque un ottimista. Un filantropo convinto che lo scopo ultimo della contesa sia la collaborazione. Egli è persuaso del senso comunitario e collettivo dell’Io e del fatto che per ogni discussione sia sempre possibile raggiungere un’intesa se non fattuale almeno ideale. Ma quando si discute di qualcosa per Habermas? Come dicevamo per lui siamo sempre in accordo. I partecipanti di una comunità, proprio perché membri di quella comunità esprimono un tacito assenso alle convinzioni di quella stessa comunità.

Di questo noi non ci rendiamo effettivamente conto. Quando parliamo tuttavia stiamo dando per scontato che l’altro ci capisca. Anche quando tentiamo di convincerlo su qualcosa, facciamo appello ad un insieme di convinzioni che riteniamo siano condivise e indiscutibile. Sarebbe impossibile infatti discutere di qualcosa senza che tutto il resto delle nostre convinzioni non venisse dato per accettato e condiviso. Non si può discutere su tutto contemporaneamente, ma su qualcosa volta per volta. Tutto il resto però è dato per vero, per giusto e per corretto.

Direi di più. Se tentiamo di convincere qualcuno di qualcosa è proprio perché siamo convinti che lui ragioni come noi. Siamo persuasi che io e lui siamo fatti della stessa pasta. Questa è l’essenza dell’universalismo habermasiano, che alla lunga è erede dell’universalismo cristiano. E’ erede della convinzione che siamo tutti figli di Dio e che pensiamo tutti allo stesso modo, perché imitiamo i suoi pensieri.

L’obiettivo del successo dell’azione è subordinato a quello del coordinamento privo di coercizione. «Nell’agire comunicativo i partecipanti non sono orientati primariamente al proprio successo, essi perseguono i loro fini individuali a condizioni di potere sintonizzare reciprocamente i propri progetti d’azione sulla base di comuni definizioni della situazione» (WR, 394).

Le pretese di validità della comunicazione

La funzione rappresentativa ha come obiettivo la verità ed è su questa che gli interlocutori debbono cerca un consenso. La verità  di cui tanto discute la filosofia è dunque soltanto una delle condizioni di validità del linguaggio. Quali sono dunque le altre funzioni del linguaggio?

Locuzione, illocuzione e perlocuzione

All’interno della struttura proposizionale è possibile inoltre distinguere una componente locutiva, una illocutiva e una perlocutiva.  La prima è riferita al contenuto delle proposizioni. Con essa il parlante esprime situazioni di fatto. La componente illocutiva si riferisce al tipo di azione che il parlante compie quando dice qualcosa. Con gli atti perlocutivi, infine, il parlante raggiunge un effetto presso l’uditore. l’atto perlocutivo potrebbe essere inteso come il fine della comunicazione.  “I tre atti distinti da Austin sono quindi caratterizzabili secondo le voci seguenti: dire qualcosa; agire mentre si dice qualcosa; produrre qualcosa mediante il fatto di agire mentre si dice qualcosa” (TKH, 399). Posso affermare che l’albero è piantato per terra (asserzione).

Ho la ossibilità di chiedere se l’albero sia piantato per terra (domanda). Posso ancora pregare qualcuno di piantare l’albero per terra. Giurare di aver visto un albero piantato per terra. Comandare qualcuno di piantare un albero per terra è così via. Il fatto che ci sia un albero piantato per terra è un fatto o locuzione. Il modo con cui questa locuzione si presenta nella relazione intersoggettiva tra parlanti è l’illocuzione. Il risultato che voglio ottenere comunicando è la perlocuzione.

La perlocuzione e l’agire strategico

“Con quest’atto io vi dichiaro marito e moglie!”. Questo è forse l’esempio di perlocuzione più chiaro. Mentre dico qualcosa, faccio qualcosa. Il dire è un fare, nel senso di creare, manipolare la realtà. L’atto illocutivo dunque è interno alla comunicazione e si accompagna in modo inscindibile al contenuto. La perlocuzione al contrario orienta la comunicazione verso un fine, che non è deducibile dalla comunicazione stessa:  “il fine illocutivo, che un parlante persegue con un’espressione, scaturisce dal significato stesso di quanto viene detto ed è costituito da azioni linguistiche” (TKH, 399). Il destinatario deduce i fini perlocutivi del parlante dal contesto.

Posso domandare perché accrescere le mie conoscenze, per fare una bella figura a lezione, perché voglio conoscere una ragazza, per mettere in difficoltà qualcuno, per spingerlo a confessare e così via. Il fine perlocutivo del parlante non sempre è manifesto e determina per altro la differenza tra un fare autentico ed uno strategico. Scrive Habermas:

Rispetto alle interazioni strategiche l’agire comunicativo si contraddistingue per il fatto che tutti i partecipanti perseguono senza riserve i propri fini illocutivi per raggiungere un’intesa che costituisce la base per un coordinamento unanime dei progetti di azione perseguiti di volta in volte in modo individuale (TKH, 406).

Lo scopo performativo di ogni comunicazione dovrebbe essere il raggiungimento di un accordo o la dissoluzione di un dissenso.

Questo distingue l’agire autenticamente comunicativo, da un fare strategico. Scrive Habermas:

I tipi di iterazione si differenziano in primo luogo in base al meccanismo di coordinamento delle azioni, in particolar modo a seconda che il linguaggio naturale debba valere soltanto come mezzo per la trasmissione di informazioni, oppure anche come fonte dell’integrazione sociale (ND, 66).

Rendere manifeste le proprie intenzioni è sempre possibile. L’atto con il quale si sotterrano i propri reali obiettivi, qualunque sia il motivo è un atto strategico. Se ci pensiamo bene esso è reso possibile proprio perché è presupposta la nostra buona fede. Si può aggirare qualcuno che è in buona fede, solo in quanto quest’ultimo pensa che noi siamo come lui. In questo senso per Habermas «l’uso linguistico latentemente strategico è parassitario, poiché esso funziona soltanto se perlomeno una delle due parti dà per scontato che il linguaggio viene usato nel senso di un orientamento rivolto all’intesa» (TKH, 130). Nell’agire strategico il fine dell’intesa intrinseco ad ogni atto comunicativo è subordinato al raggiungimento di uno scopo.

I tre modelli di razionalità nella comunicazione

Se l’agire non subisce influssi strategici, se esso epurato da interessi personali occulti è allora possibile distinguere tre piani di reazione ad un’azione linguistica in base ai quali l’uditore deve:

  1. Comprendere l’espressione,
  2.   Prendere posizione con un «sì» o con un «no» su una pretesa avanzata con un atto linguistico,
  3. In conseguenza dell’intesa raggiunta, orientare il proprio agire.

I tre atti non rappresentano, però, tre momenti separati, come fossero fasi distinte e successive l’una all’altra, ma si compenetrano vicendevolmente quali aspetti diversi di uno stesso processo.

  1. Comprendere un proposizione è un chiedere ragioni per la sua validità. Si comprende una proposizione solo se si capisce a quali condizioni è vera, giusta e sincera: «Comprendiamo il senso di una proposizione se sappiamo che cosa la rende accettabile» (TKH 419). Habermas concepisce i criteri di validità della proposizione a condizioni di accettabilità. Qualcosa è vera rispetto alla realtà (io solitario). Una pretesa è invece sempre avanzata da qualcuno in carne e ossa è considerata accettabile o meno sempre da qualcun’altro e non solo rispetto ad una realtà oggettiva.  Le pretese di validità non possono avanzate in modo solipsistico.

L’accettabilità è legata all’intesa e dunque a condizioni intersoggettive necessarie. Si prende sempre posizione su qualcosa di fronte a qualcun’altro.

Si tratta dunque di condizioni per il riconoscimento intersoggettivo di una pretesa linguistica su cui si fonda l’intesa. Da questa a sua volta dipendono i “vincoli d’azione”, ovvero l’obbligo a comportarmi in modo conseguente ad un’affermazione, richiesta, confessione, condanna ecc. ecc. che io reputo accettabile razionalmente. (Cfr. TKH 409).

A partire dall’analisi del linguaggio comune, di ciò che concretamente fa un parlante quando afferma qualcosa, su qualcos’altro a qualcuno, si potranno ricavare i tre piani d’azione in cui è inserita la prassi umana.

Fa parte dell’intenzione comunicativa del parlante

Correttezza o giustezza normativa, veridicità e verità sono dunque le tre pretese di validità avanzate da una proposizione.

La razionalità comunicativa, dunque, si sostituisce quale completamento delle forme di razionalità epistemica (teoria) e teleologica (prassi) al modello della razionalità emancipatica elaborato in Conoscenza ed Interesse. L’emancipazione dell’individuo in questo caso è testimoniata dalla sua capacità di porre obiezioni al discorso proposto (imposto) alla maggioranza dalle elité dominanti. Il suo “no” è sufficiente a sospendere la validità di quelle affermazioni e ricercare per esse un consenso:

Chi respinge un’offerta d’atto linguistico comprensibile, contesta almeno una di tali pretese di validità. Respingendo un atto linguistico in quanto giusto, non vero, non veridico, il destinatario comunica con il suo «no» che l’espressione non soddisfa le sue funzioni di assicurare una relazione interpersonale, di rappresentare degli stati di cose o di manifestare esperienze vissute, poiché non è in sintonia con il nostro mondo di relazioni interpersonali regolate in modo legittimo o con il mondo degli stati di fatto esistenti o con il rispettivo mondo di esperienze soggettive (TKH 420).

I tre principi sono l’uno implicato nell’altro.

C’è di più, la proposizione oltre ad avanzare pretese di   validità, fa per così dire una richiesta di coerenza. Se accetto la validità di certe proposizioni, né dovrò dare testiominianza pratica. Non posso credere cosa migliore andarmene a Megara piuttosto che gettarmi giù per un pozzo se non acconsento alla validità del principio di non contraddizione diceva già Aristotele. Non posso cioè ritenere vero, veridico e giusto un qualcosa e non accettare le conseguenza pragmatiche della mia presa di posizione.

Il Discorso è perciò un vincolo d’azione.

Habermas parla di forza di coercizione dell’argomento migliore, indicando con ciò la capacità del discorso razionale di regolare le interazioni umane. Sono costretto a fare un qualcosa non perché mi è stato imposto, ma perché abbiamo convenuto che questa sia la cosa più ragionevole da fare

In questo senso l’agire comunicativo è da intendersi come meccanismo non coercitivo di coordinamento dell’azione:

Le relative pretese di validità, della verità, della giustezza e della veridicità possono allora servire da filo conduttore per la scelta dei punti di vista teorici sotto i quali si possono fondare le modalità basilari dell’uso linguistico o funzioni linguistiche e si possono classificare le azioni linguistiche che variano a seconda del singolo linguaggio (TKH 386).

Verità, veridicità e giustezza sono le pretese che avanziamo anche solo implicitamente in ogni nostra affermazione. Così come non possiamo dire qualcosa senza con ciò dire anche non non è vera la tesi contraria (principio di non contraddizione), non possiamo nemmeno parlare senza presuppore  che ciò che diciamo sia vero, giusto e che io creda fermamente sulla sua verità e giustizia.

Cos’è il Diskurs?

Esiste dunque un piano d’azione ordinario, nel quale noi comunemente inter-agiamo, nel quale il consenso reciproco è sempre presupposto. Pensateci bene, quando spiegate il significato di una parole non ne state forse usando delle altre? Non potreste spiegare tutte assieme il significato di tutte le parole. Dovete semmai spiegarle una per volta e fingere che su tutte le altre ci sia una comprensione comune.

Lo stesso vale per il consenso. Non potreste contestare contemporaneamente tutte le vostre convinzioni di fondo. Overo l’insieme delle cose credute vere, perché acquisite dalla vostra eduazione sociale. Dovreste contestarne una per volta. Mentre la cotestate poi utilizzate altre vostre credenze che presupponete siano condivise.

Voi oggi in una disputa direste per esempio che le cose che sostenete sono state dimostrate scientificamente. I più precisi magari riporterebbero anche fonti ufficiali. Ma non state forse presupponendo che il metodo scientifico sia l’unico in grado di garantire verità? Provate a dire ad un uomo del medioevo che l’esistenza di Dio non è stata provata scientificamente. Lui neanche vi capirebbe proprio perché per lui scienza prima era la metafisica e quindi la teologia (quarta definizione della metafisica: scienza dell’essere in quanto DIO).

Nel discutere state diamo per scontato un sacco di cose. Questa base comune resta solida finché non ha ragioni per essere contestata. Torna ancora una volta l’argomento di Aristotele sul principio di non contraddizione. Non è vale  a dire necessario dimostrare la verità di qualcoa che nessuno ci sta contestando.

Verità e storia

La teoria del discorso, seppur in forma diversa, ripropone l’antico dilemma del rapporto tra la verità e la storia. O la ragione è avulsa dal tempo, in una dimensiona “altra” oppure è calata nella storia.  O esiste un soggetto trascendentale, metafisico oppure individui in carne ed ossa. Se l’insieme delle nostre credenze varia storicamente, anche ciò su cui abbiamo o non abbiamo consenso varierà. La verità è dunque appena al flebile soffio della storia.

Due approcci limitano il relativismo. Il primo è il proceduralismo. Può volta per volta cambiare l’oggetto del consenso e persino ciò cui acconsentiamo in una discussione, ma non possono cambiare le regole per ottenere il conseso. La seconda idea viene approfondita da Peirce con il suo concetto di long run. La verità è ciòche si ottiene in un discorso che è durato sufficientemente a lungo da includere e risolvere tutte le obiezioni possibili.

I due approcci paio coabitare in Habermas.

Il discorso sulle pretese di validità?

Le pretese di validità (verità, veridicità, giustezza normativa) per quanto premmesse necessarie al discorso stesso, non sono esenti dal poter essere catturate dal dissenso per così dire. Il discorso è meta discorso di se stesso. Nel discorso vale a dir si possono contestare e condizioni essenziali del discorso stesso, senca che questo crei circolarità.

La Teoria del discorso recupera il problema della critica radicale in un senso rinnovato. L’atto terapeutico aveva il compito di indagare l’inconscio esplorarne i momenti di incoerenza.  Attraverso questi ricostruiva i tratti salienti della razionalità. Il discorso adesso ha il compito di riannodare i momenti critici della comunicazione. Esso risolve la negatività venutasi a creare nel fraintendimento. Al contempo ricostruisce le condizioni di possibilità del discorso stesso, in modo immanente ovvero sulla base dei suoi stessi presupposti.

Il linguaggio è metalinguaggio di se stesso. Il punto di vista critico non è esterno al linguaggio quotidiano ma entro lo stesso, così come il soggetto trascendentale non è un dato ma un risultato. Dall’analisi delle storture del linguaggio comune è possibile individuare i modi corretti di comunicare. Le ricostruzioni razionali sono quindi costruzioni ex-post (Nachkonstrutionen). Vengono dopo l’azione, quando l’azione viene sospesa in attesa di un chiarimento argomentativo.

Le ricostruzioni razionali rese possibili nel discorso, nella misura in cui esplicano le condizioni di validità di enunciati, possono spiegare anche casi anomali. Con questa autorità indirettamente legislatrice assumono funzione critica (TKH 46).

Detto altrimenti l’intesa intersoggettiva è ad un tempo:

  1. lo spazio dentro il quale siamo continuamente immersi.
  2. Presupposto implicito di ogni comunicazione.
  3. Il fine della comunicazione stessa e la condizione di risoluzione di ogni contesa.

L’intesa è l’alfa e l’omega di ogni azione e interazione. E’ il fondamento e il fine di ogni azione, presupposto e risultato della stessa.

Universalizzazione e fondamento etico dell’agire comunicativo

In questo senso è anche possibile parlare di un’etica del discorso. Il problema intrinseco ad ogni teoria della morale è quello di trovare un adeguato strumento di misura. Strumento che le permetta di avanzare pretese di universalità. «Soltanto la pretesa di validità universale – argomenta Habermas – conferisce ad un interesse, ad una volontà o a una norma la dignità di un’autorità morale» (TKH, 55). Habermas per affrontare simile problema riprende il noto concetto d’universalizzazione kantiana:

Tutte le ricerche sulla logica dell’argomentazione morale conducono ben presto alla necessità di introdurre un principio morale che svolga, quale regola argomentativa un ruolo equivalente a quello che nel discorso scientifico–sperimentale è svolto dal principio di induzione (TKH, 71).

Secondo l’autore:

Il principio ponte che rende possibile il consenso deve dunque assicurare che vengano accettate come valide soltanto quelle norme che esprimono il consenso di tutti gli interessati» . L’universalizzazione costituisce dunque per Habermas la soluzione del problema morale: «una norma può pretendere di avere valore soltanto se tutti coloro che possono essere coinvolti raggiungono, come partecipanti ad un discorso pratico, un accordo sulla validità della norma (TKH, 71).

Data questa organizzazione dell’argomento morale il principio universalizzante dell’intesa è ad un tempo condizione dell’agire comunicativo e principio di legislazione universale. Considerando che l’agire comunicativo guarda all’insieme delle pratiche quotidiane allo stesso livello si trova la morale. Habermas intende ricavare proprio dall’azione le norme dell’azione stessa.

Nella misura in cui l’agire comunicativo è razionale solo in quanto ricava entro sé i termini della propria razionalità, la morale habermasiana può ancora dirsi autonoma.

Coloro che partecipano all’argomentazione – infatti – non possono fare a meno di presupporre cha la struttura della comunicazione escluda, per via di caratteristiche da descrivere formalmente, qualsiasi coazione che, oltre quella dell’argomento migliore, influisca dall’esterno sui processi d’intesa (MKH, 91).

Il discorso morale, infatti, aggancia le altre due pretese di verità che in un discorso semplicemente assertivo venivano occultate. L’argomentazione non può sfuggire all’idea di un confronto concreto di tutti i possibili interessati, in linea di principio. Non può altre sì non sottostare al principio etico dell’equità.

I principi idealizzanti

L’intesa universale è l’obiettivo estremo di ogni discorso, ma anche il presupposto implicito di ogni relazione. Nel nostro agire e parlare presupponiamo sempre di essere d’accordo con tutti su tutto, in modo implicito e rassicurante per le nostre azione. Quando il fraintendimento scatta nella discussione veniamo posti di fronte a delle obiezioni, che sospendono lo stato accordo implicito. Le obiezioni richiedono un chiarimento. Questo deve poter ricondurre all’intesa universale.  Affinché l’intesa sia universale essa deve avvenire secondo delle condizioni che possiamo, come visto, definire etiche,

Habermas distingue tra un livello logico dei prodotti, quello dialettico delle procedure e quello retorico dei processi. Scrive il nostroo:

Tra l’altro [il parlante che agisce in modo comunicativo] deve presumere che gli interessati: a) perseguano senza riserve mentali i loro fini illocutivi; b) subordino la loro intesa al riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili, c) si mostrino disponibili ad accollarsi obbligazioni che, scaturite dal consenso, influenzino l’ulteriore sviluppo dell’interazione (FG, 12).

Al livello retorico dei processi inoltre è necessario che:

(3.1) Ogni soggetto capace di parlare e di agire può prender parte a discorsi
(3.2) a Chiunque può problematizzare qualsiasi affermazione. b. Chiunque può introdurre nel discorso qualsiasi affermazione c. Chiunque può esternare le sue disposizioni, i suoi desideri e i suoi bisogni
(3.3) Non è lecito impedire a un parlante, tramite una coazione esercitata all’interno o all’esterno del discorso, di valersi dei suoi diritti fissati nei punti (3.1) e (3.2) (FG 21).

Intesa e riconciliazione

I parlanti debbano inoltre «accordarsi tutti insieme circa quali norme debbano secondo loro regolare legittimamente la loro convivenza» (WR 179). Ciò che riteniamo vero deve quindi «potere essere difeso non solo in un altro contesto, ma in tutti i possibili contesti, dunque in ogni momento contro chiunque» (WR 252).

 Ogni discorso avanza pretese di validità che sono presupposte almeno implicitamente dai parlanti e dimostrate solo ex-post al momento della loro messa in discussione. L’impossibilità di dimostrare l’esistenza di alternative ai principi della comunicazione è prova sufficiente della loro inevitabilità pratica. Il loro fondamento è perciò nell’azione e non nel ragionamento. Il Discorso è il luogo dove le pretese di validità possono essere esse stesse contestate. La Verstaendigung, l’intesa universale, resta l’unico criterio su cui è possibile basarsi.

La domanda che ci si pone è la seguente:

è possibile considerarla alla stregua di un ideale regolativo di kantiana memoria?

Si tratta di uno sforzo, tensione costante che è prova ad un tempo della finitudine umana e allo stesso tempo della sua aspirazione alla trascendenza? Oppure la Verstaendigug è di per sé un ideale negativo?

L’impossibilità di raggiungere l’intesa universale nei fattiè  piuttosto come una clausola di salvaguardia?

Nella tensione perenne tra individuale e universale, singolarità e collettività, non è forse che l’Intesa celi gli stessi lati oscuri di una riconciliazione dell’universale (Versohnung)? Già Adorno Adorno prima di Habermas aveva posto quale limite della dialettica il suo essere negativa.

Egli aveva infatti preferito sbarrare la strada alla realizzazione dell’universale. Il percorso della sua realizzazione coincide con l’annullamento dell’individuale, del cognitivamente dissonante e del distorto. L’intesa universale più che il punto di arrivo del discorso rappresenterebbe la sua fine. Un mondo senza obiezioni e un mondo senza differenze o peggio un mondo nel quale le differenze vengono represse.

Perché è importante il Mißverstanden

La violenza del punto di vista universale è allora quella che si abbatterebbe sul singolo che si ostina a mantenere aperta la discussione. L’argomento migliore è quello non-definitivo dunque. L’intesa universale, deve continuare a sussistere come ideale negativo e non regolativo. Essa è presupposto i ogni comunicazione, fondamento infondato nella dialettica aperta al divenire.

Il fraintendimento resta per contro il luogo inaspettato di incontro autentico con l’altro. Rappresenta il punto prezioso, che va salvaguardato. La possibilità di  incontrare l’altro nella sua assoluta alterità. Piuttosto che aprire all’intesa, compito di un agire etico dovrebbe allora essere quello di aprire al fraintendimento. Abitarlo come spazio neutro delle differenze, crocevia di scambi, come luogo autentico dell’inter-essere, ovvero “essere in mezzo”, “stare tra”.

Indice delle abbreviazioni

J. HABERMAS:

EI – Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1968, trad. it. a cura di E. Rusconi, Conoscenza e interesse, Laterza, Bari, 1970. TP – Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1971, trad. it. a cura di C. Donolo, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari, 1969.

TKH – Theorie des kommunikativen Handelns, Bd. I, Handlungsrationalität und gesellschaftliche Rationalisierung, Suhrkamp, Frankfurt a. M., trad. it. a cura di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Il Mulino Bologna, 1981. – Theorie des kommunikativen Handelns. Bd. II. Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1981. trad. it. a cura di P. Rinaudo, teoria dell’agire comunicativo vol. II, Critica alla ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986.

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MKH – Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1983, trad. it. a cura di E. Agazzi, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari, 1989. DM – Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesung, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1985, trad. it. a cura di Emilio e Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari, 1997.

ED – Erläuterungen zur Diskursethik, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1991, trad. it. a cura di V. E. Tota, Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari, 1994. ND – Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1987, tr. it. a cura di M. Caloni, Pensiero Post-metafisico Laterza, Roma-Bari 1991.

FG – Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskustheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1992, trad. it. A cura di L. Ceppa, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Verona, 1996.

WR – Wahrheit und Rechtfertigung, Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1999, trad. it. a cura di M. Carpitella, Verità e giustificazione, Laterza, Roma–Bari, 2001.

EA – Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1996. trad. it. a cura di L. Ceppa, L´inclusione dell´altro, Feltrinelli, Milano, 1998..

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