LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La ragion pratica consiste nella capacità di determinare la volontà e l’azione morale senza l’ausilio della sensibilità. Lo scopo della Critica della Ragion Pratica è quello di criticare la ragion pratica che pretende di restare sempre legata all’esperienza.
Nella critica alla ragion pura, Kant centrava l’attenzione sul fatto che la ragione in ambito teoretico errava perché si manteneva “pura”, ovvero pretendeva di trarre da sé i contenuti della propria conoscenza. In ambito morale la critica della ragion pratica rivolge la sua attenzione all’illusione che ha la volontà di poter agire moralmente lasciandosi guidare dal desiderio. In ambito pratico l’errore della ragione è allora cercare di trarre dall’esterno le ragioni della propria condotta morale. La ragione in ambito pratico può trovare motivazioni morali solo dentro di sé, come libero prodotto della sua volontà.
Il punto di vista morale
La morale deve essere universale. Se la volontà si lasciasse condizionare da un ché di esterno ad essa infatti verrebbe influenzata da qualcosa di contingente, temporale etc. etc. La critica della ragion pura di Kant inaugura perciò un tipo di morale autonoma. Ciò vuol dire che non viene vincolata da nulla se non dai dettati della ragione stessa. Kant critica perciò tutte le morali eteronome (es: quella dei dieci comandamenti), che portano cioè contenuti determinati.
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Fondamento dell’etica la legge morale
C’è una legge morale con valore universale (tale affermazione è immediatamente evidente: è un “fatto della ragione”). La legge morale non è però una regola che porta un contenuto determinato. Questo contenuto infatti dovrebbe essere di origine empirica e dunque particolare. Ciò che può essere indicato in modo universale è piuttosto la regola attraverso la quale volta per volta è possibile ottenere precetti morali a partire da massime d’azione.
La massima d’azione è un comando generale, un principio che serve ad orientare la condotta: es. “la massima di un uomo libero è quella di rispetta la libertà altrui”. La legge morale non può coincidere con nessuna massima d’azione. E’ come detto universale e non può essere ricavata dall’esperienza. E’ perciò un “a priori”. La legge morale è anche razionale nel senso che deve valere per l’uomo in quanto essere ragionevole.
La legge morale non è un’esigenza che l’uomo segue per necessità di natura. Quindi deve essere un “imperativo” un comando cui la ragione si sottopone liberamente. Una condotta può essere guidata da una massima d’azione (che abbia un contenuto determinato), la quale una volta universalizzata può esprimere un imperativo ipotetico o un imperativo categorico.
Imperativo ipotetico e imperativo categorico
L’Imperativo ipotetico: subordina il comando dell’azione da compiere al conseguimento di uno scopo (es.: “Se vuoi essere promosso devi studiare”). Tali imperativi sono oggettivi solo per tutti coloro che si propongono quel fine; da tali imperativi derivano l’edonismo e l’utilitarismo.
L’imperativo categorico: comanda l’azione in se stessa (es.: “Devi perché devi”). La norma morale deve essere un imperativo categorico, cioè la tendenza ad un fine deve essere comandata da una legge morale: “Es.: se vuoi avere successo devi essere determinato”.
La legge morale è un “imperativo categorico” (anzi, leggi morali sono “solo” gli imperativi categorici). Il suo valore non dipende dal suo contenuto, ma dalla sua “forma” di legge. La sua “forma” di legge è l’universalità (devi perché devi). L’imperativo categorico può essere formulato così:
“Agisci in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale (oggettiva)”
L’imperativo categorico è un fatto della ragione. Esso non è né un intuizione né tanto meno frutto di una deduzione, ma immediatamente presente alla volontà come la condizione stessa della sua libertà (la volontà è tale solo perché libera). Esso è la pura forma della legge il TU DEVI senza il contenuto ed è perciò una pura determinazione della ragione.
” Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale “.
Quando ci si trova a compiere una determinata azione, occorre chiedersi sempre se quello che ordina la massima potrebbe diventare una regola condivisa da tutti. Se l’imperativo ipotetico di allora per esempio “per arrivare ad avere successo è necessario anche ingannare il prossimo”, occorre eliminare dalla massima l’elemento particolare e dargli la forma universale. Procedendo all’universalizzazione allora la massima si trasformerebbe in: “Uccide sempre il tuo prossimo”. Posta nella sua forma universale risulta immediatamente chiaro che questo comando è irrazionale, illogico o comunque irrealizzabile. Si dice allora che la massima espressa nella sua forma universale contraddice se stessa.
La seconda formulazione dell’imperativo categorico è la seguente:
Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo.
L’uomo non deve mai essere solo strumento di un’azione morale. Il vero fine di ogni atto buono è l’uomo. È importante nel citare questa frase ricordarsi l’ anche e il solo. Kant non era un illuso e sapeva bene che molte delle relazioni interpersonali usano effettivamente l’uomo come mezzo.
La frase va quindi interpretata alla luce della limitazione che Kant pone. Usiamo pure l’uomo come mezzo, ma ricordandoci che è il fine di ogni atto buono. Diamo dunque all’uomo sempre la dignità che gli spetta. In virtù di questo principio si può per esempio pagare un muratore per farsi costruire la casa. Stiamo trattando l’altro uomo anche come mezzo e non solo come fine. Non si può tuttavia farlo lavorare 12 ore al giorno e pagarlo un tozzo di pane.
Il terzo imperativo categorico ricorda all’uomo che non basta limitarsi alla propria sfera individuale nel compiere azioni morali, ma che ciò che si fa deve essere la prima pietra di un ” regno della moralità “. Ciò che si fa deve essere esempio per l’umanità.
Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale
La legge morale deve avere valore per se stessa. La volontà è autonoma, ossia dà a sé la sua legge. Vi è quindi assoluta autonomia della volontà nel suo auto-determinarsi. Tutte le morali che si fondano sui contenuti compromettono l’autonomia della volontà: l’unico principio della moralità consiste nella indipendenza da ogni materia della legge. Non si deve agire per la felicità, ma unicamente per il puro dovere (è il rovesciamento dell’etica eudemonistica). Il “darsi” un dovere implica la “libertà”; la condizione perché sia possibile un imperativo categorico è che la volontà sia libera.
I POSTULATI:
IL BENE È CIÒ CHE È COMANDATO DALLA LEGGE MORALE.
Il fine dell’azione umana determinata dalla legge morale. Ciò non implica che l’uomo debba agire in vista del sommo bene come fine dell’azione. Egli deve agire motivato solo dal puro dovere). Il sommo bene costituisce comunque il risultato dell’azione umana che agisce secondo i dettami della critica della ragion pratica. Kant afferma tuttavia che il sommo bene è l’unione di virtù e felicità. Critica perciò quei filosofi che hanno considerato solo l’uno o l’altro aspetto: stoici/virtù, epicureisti/felicità. Conseguenza dell’azione morale dovrebbe dunque essere la felicità, anche se non è questa la motivazione che deve spingere la volontà ad agire in maniera retta.
Tuttavia in questo mondo tuttavia spesso virtù e felicità si trovano spesso in opposizione. Fare la cosa giusta significa spesso rendersi infelici. Il sommo bene deve dunque per Kant essere platonicamente postulato nell’aldià. Deve esistere un regno dei fini dove l’atto morale realizzerà la felicità (riferimento chiaro a paradiso).
Per questa via si arriva ai postulati della ragion pratica.
Si dice Postulato quel presupposto pratico che non amplia la conoscenza speculativa ma che dà alle idee della ragione speculativa una realtà oggettiva, autorizzando, perciò, la possibilità di alcuni concetti.
I Postulati vanno ammessi per spiegare la legge morale, se non li spiegassimo non potremmo ammettere la legge morale; quindi, dato che la morale è un fatto innegabile. I Postulati vanno oggettivati.
I Postulati sono tre:
1. La Libertà
Condizione base della legge morale. Non si può scegliere la legge morale se non si è liberi. Questo è ciò che la differenzia da una legge di natura.
2. Esistenza di Dio
La legge morale mi comanda di essere virtuoso (di perseguire il Bene), quindi sono degno di essere felice; si postula l’esistenza di Dio perché si ha la necessita di far corrispondere, in un altro mondo, quella felicità che compete all’agire secondo sostanza.
Il Sommo Bene (=Dio) è la coincidenza, nella critica della ragion pratica, di virtù e felicità. E’ una coincidenza di cui non si può far affatto esperienza nel sensibile. Affinché il comando della ragione abbia senso bisogna supporre/ammettere una remunerazione in un’altra vita (si procrastina la vita sensibile in virtù di una vita futura) da parte di chi è considerato il Sommo Bene sussistente (=Dio).
Ciò non significa che la Ragion Pratica può dimostrare l’esistenza di Dio, piuttosto indica che la Ragion Pratica suppone poi postula dunque ammette l’esistenza di Dio.
3. Immortalità dell’anima
Si tratta di un processo continuo di ricerca umana- non accessibile in questo mondo- ed è richiesta per avvicinarsi sempre di più alla perfetta adeguatezza della volontà alla legge morale. La santità è la figura suprema del raggiungimento di tale perfetta adeguazione.
Kant ha, dunque, riconosciuto due facoltà:
L’Intelletto che è la facoltà conoscitiva teoretica e che domina la ragion pura, la quale non può rappresentarsi (e rappresentarci) gli oggetti come sono in sé ma solo come fenomeni.
La Ragione, facoltà pratica, la quale ha la possibilità (e tutte le condizioni necessarie) per rappresentare gli oggetti come cose in sé (soprasensibili), non potendo conoscerli teoreticamente, e darli come esistenti solo nella realtà pratica.
Fra il mondo della Ragion Pura (=la realtà come appare allo spirito umano) e il mondo della Ragion Pratica (=il mondo che ci viene dato in quanto soggetti morali) esiste un abisso immenso.
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Giuls says
La parte dell rapporto da critica della ragion pure e critica della ragion pratica è sbagliata non prendete spunto da questa parte in caso ci dovessero interrogare
Alessio Farina says
Intanto devo ringraziare per il commento. Sono poco abituato all’interazione su questi argomenti in questo Blog. Una migliore indicizzazione degli articoli e probabilmente la tendenza allo studio a distanza sta aumentando il traffico verso i “riassunti”. Sono profondamente dispiaciuto che una interrogazione sia andata male, però probabilmente l’errore sta a monte, ovvero nell’idea che la filosofia possa essere studiata da un blog, piuttosto che da appunti presi in classe. In genere un’insegnate indica anche un testo di riferimento, dando per scontato (anche se a volte non è così) che sia soddisfatta del punto di vista espresso in quel testo. Sempre purtroppo per gli studenti la filosofia non è oggettiva in senso stretto richiede uno sforzo di riflessione e di presa di distanza critica e un certo grado di coinvolgimento con l’oggetto studiato. Ciò premesso sarebbe interessante capire anche dove sia l’errore in questione, in modo da poter esplicitare meglio i concetti. Questo articolo nasce da una revisione di sbobbinature universitarie al contrario di tanti altri che invece allora feci come riassunti per facilitare il recupero di una studentessa durante lezioni private.
P.S.: Nell’incertezza e non avendo tempo al momento di rivedere il testo, ho tolto direttamente il paragrafo in questione, che devo riconoscere purtroppo era lacunoso e lapidario nella sua semplificazione.
ANONIMO says
ORRIBILE COME SITO
LA MIA COMPAGNADI CLASSE HA STUDIATO DA QUI E LA PROF NON E’ STATA DEL TUTTO SODDISFATTA SOLO PERCHE’ AVETE SCRITTO COSE SENZA SENSO E CON NESSUN COLLEGAMENTO.
MI CHIEDO SE LA PERSONA DA CUI HA SCRITTO QUESTO SE NE E’ RESA CONTO
PORCAMISERIA
Alessio Farina says
Ho un po’ riflettuto se pubblicare anche questo commento chiaramente seguito dell’altro per la semplice ragione che sussiste una asimmetria di fondo tra lei che si presenta come soggetto anonimo e me che invece sono un soggetto con una identità ben precisa per altro sufficientemente esposta. Come ho scritto in risposta al commento precedente sono profondamente dispiaciuto che sia andata male una interrogazione. Noto però un riposizionamento didattico successivo al COVID che probabilmente sta cambiando il target dei lettori. Non ho mai ritenuto che fosse possibile studiare dai miei articoli e li ho sempre immaginati piuttosto come bignami, spero semplici, per accedere al pensiero dell’autore. La filosofia purtroppo non è oggettiva e spesso ci si ritrova banalmente ad avere conflitti di interpretazione tra studiosi di filosofia. Quando allora davo ripetizioni partivamo sempre dagli appunti dell’insegnante o dal testo di riferimento da lei adottato in modo che non fossero possibili conflitti di interpretazioni. Questo non toglie che nel rileggerlo non ho trovato grossi strafalcioni e mi pare piuttosto un resoconto abbastanza “neutro” dell’autore.
Purtroppo per voi questo articolo è tratto da un ciclo di lezioni universitarie di cui allora trascrissi l’essenziale. Ora è assolutamente possibile che io abbia ipersemplificato il testo al punto da produrre l’errore di cui evidentemente non mi sono reso conto ed tuttavia altrettanto possibile che per la stessa ragione di ipersemplificazione voi abbiate inteso male. Mi aspetterei quindi che chi ha compreso l’organizzazione scriteriata del testo abbia anche compreso qual’è la corretta lettura della “Critica della ragion pratica” (che temo di aver letto per intero sia in italiano che in tedesco).
Viceversa il commento si traduce in uno sfogo emotivo, che comprendo tutto, ma che non permette né la mia di crescita, né (cosa ancora ben più importante) la vostra. Imparare dall’errore è sempre possibile, per cui comunque stiano le cose sfrutterei il momento di inciampo come occasione di maturazione personale. Sono profondamente convinto che la rabbia sia un sentimento sano, per cui mi sono reso disponibile ad accogliere lo sfogo e tuttavia caricare su un articolo preso a caso da internet tutta la colpa di una interrogazione andata male, dice più sull’indisponibilità della nuova generazione ad assumersi le proprie responsabilità che sulla qualità di quanto io abbia scritto e di questo non posso che dispiacermi.
Voglio però conservare il senso buono dei vostri interventi. Se colgo bene c’è una volontà di avvisare il lettore che questo articolo è inaffidabile e non può essere utilizzato a scopo didattico. C’è infondo la genuina volontà di evitare che altri incauti facciano il vostro stesso errore e in questo senso non posso che essere grato del commento. Attraverso le interrogazioni purtroppo passa l’errato presupposto che il giudizio sulla formazione, sia un giudizio sulla vostra persona per cui un’interrogazione finita male può aprire a tipi di sconforto e trasporto emotivo che andrebbero notevolmente ridimensionati. Ciò nonostante se questo articolo può essere stato causa di disorientamento non posso che dispiacermi.