Fenomenologia dello Spirito: riassunto. Hegel e l’idealismo tedesco

 Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito==>

I concetti essenziali per comprendere la fenomenologia hegeliana possono essere trovati qui.

Il principio nella FENOMENOLOGIA è lo Spirito

Premessa dell’idealismo: Soggetto e oggetto. Se la verità non è considerata l’oggetto della conoscenza, ma identificata con il soggetto stesso (principio dell’idealismo), allora essa è innanzitutto consapevolezza di sé. La verità può giungere a pienezza soltanto dal lato del l’Io, quel lembo di natura che solo può raggiungere consapevolezza di sé. La realtà, il vero, non è sono sostanza, ma soggetto, vale a dire pensiero e spirito.

Attività infinita non semplicemente infinito. La verità è un processo di acquisizione di consapevolezza. Processo che muove dall’inconscio della Natura per arrivare all‘Io. La verità è anche il movimento del farsi reale dello Spirito. Quest’ultimo dal suo essere in sé, attraverso gradi di riflessione si estrania da sé è ritornare in sé e per sé). La riflessione genera una scissione interna allo Spirito (estraneazione), scissione che deve poi essere ricomposta dal lato del soggetto. questa ricomposizione avviene attraverso un’acquisizione della consapevolezza di sé, consapevolezza di essere in sé ogni realtà. Tale movimento dall’ in sé, al per-sé, all’in-sé e per-sé è l’attività infinità tramite cui lo spirito produce da Sé i suoi contenuti. Ricorda Plotino e il movimento della generazione della molteplicità dall’Uno e del ritorno all’Uno dalla molteplicità a partire dall’attività contemplatrice dell’anima.

 

CRITICA A FICHTE:

Per Fichte l’Io è pura attività autoponentesi, che nel porsi oppone a sé un Non-Io (il principio è quello spinoziano “Omnia determinatio est negatio”). Ogni volta che si determina qualcosa IO=IO la si oppone/nega al suo contrario IO≠NON-IO. L’identità in altri termini porta con sè la negazione, l’Io determina non se stesso ma il suo rapporto con il NON-IO. Questo inizialmente sa la sua sola identità e del mondo che gli si oppone, né limita la libertà. Ma mano che si appropria del mondo, elimina la differenza tra sè e il non-io, e riempie di contenuti la sua identità originariamente astratta.

Il limite è sunque interno al concetto stesso di Io, alla sua interna attività di autodeterminazione. L’IO è infatti tale solo in quanto consapevole di sé (Cogito ergo sum). Il limite deve però essere superato, L’io per rivendicare l’identità iniziale IO=IO, deve allora sussumere il NON-IO, riappropriarsene (conoscerlo), eliminando con ciò la scissione interna.

Tale movimento che per Fichte coincide con l’imperativo categorico dell’Io pratico non è però risolutivo. E’ piuttosto un tendere verso (streben). Resta dunque un afflato morale, un dover-essere.

LEGGI QUI UN APPROFONDIMENTO SULLO STREBEN =>

L’attività dell’Io per Fichte è infinita perché continuamente l’Io si pone e si oppone, senza sanare mai definitivamente la scissione. Resta sempre qualcosa di esterno all’Io che l’Io non riesce a comprendere, giustificare. Ogni volta che l’IO pensa il limite e sempre in grado pensare un oltre di esso, un’alterità altra da lui. Ogni volta che sana la differenza e ripristina l’unità, l’io s’è già di nuovo opposto. L’infinito di Fichte, è dunque per Hegel un falso infinito, in quanto procedendo in linea retta, toglie allo Spirito la possibilità di sapersi pienamente.

L’essere (la scissione) e il dover essere (la riconciliazione) sono separati in una sorta di rincorsa senza posa. Non riuscendo a sanare la frattura tra Io e Non-io, soggetto e oggetto, finito e infinito, l’antitesi e l’opposizione, in Fichte, non viene mai superata.

CRITICA A SCHELLING

Per Schelling, che vuole salvare l’autonomia della Natura rispetto all’Io, l’assoluto è l’identità originaria di Io e NON-IO, di soggetto e oggetto, infinito e finito. Gli opposti si trovano perciò originariamente insieme in un unica realtà rispetto alla quale tanto l’Io quanto il Non-Io, sono indifferenti, ovvero, indistinguibili, indifferenziabili. Il principio della determinazione è infatti negazione. Per determinare ciascuno dei due elementi allora è necessaria l’opposizione.

L’assoluto di Schelling non ha però sanato l’opposizione. L’ha soltanto eliminata in una unità originaria, che è però astratta e vuota (priva di determinazioni). L’assoluto di Schelling è per Hegel il dissolvimento di tutto ciò che è differenziato e determinato,:“la notte in cui tutte le vacche sono nere”.

L’ASSOLUTO PER HEGEL

Lo Spirito si autogenera, generando ad un tempo le proprie determinazioni e superandole pienamente. Egli non è infinito nel senso fichtiano di sforzo (streben: tensione), ma in maniera realizzata, attuata, come posizionamento del finito e insieme superamento del finito medesimo. L’IO ha nella sua stessa attività, il negativo. L’infinito in quanto soggetto nel determinarsi si nega, ed in ciò consiste la sua irrequietezza.

Hegel mette allora in evidenza la positività del negativo che scardinando sempre l’unità originaria, mette in moto lo SPIRITO. Il positivo che scaturisce dalla sintesi si è realizzato mediante la negazione, lo Aufhebung è un “togliere” il finito non un suo annullamento. La sintesi è un riemergere dall’opposizione, guadagnando una prospettiva più alta rispetto alla situazione iniziale. Il movimento dialettico è perciò una spirale, in cui il particolare è sempre posto ed è sempre dinamicamente risolto nell’universale. L’assoluto è però non il risultato del processo, ma l’intero del processo stesso.

Libertà e necessità

L’essere e il dover essere coincidono. Ciò che è in quanto frutto del movimento necessario dello Spirito è al contempo ciò che doveva essere (al passato). Lo Spirito nella sua attività è libero perché non è condizionato da altro che da sé. Allo stesso tempo tuttavia non potrebbe essere diverso da com’é in quanto agisce secondo le leggi della propria natura. L’unità dello Spirito è dinamica, in quanto essa consiste nella ricomposizione della differenza. La ricomposizione (sintesi) e è poi la premessa per un ulteriore scissione. Lo spirito non è dunque l’identità semplicemente posta (Schelling), ma il movimento del divenire uguale a partire da una differenza posta. La quiete è solo nell’interno del movimento e l’unità è l’unità dell’interno processo (tesi antitesi sintesi) non quella del risultato (sintesi). Tutto procede dialetticamente l’assoluto, come il reale, come il soggetto, il tutto come ogni sua parte (pensa ai frattali). Il movimento dello Spirito è quello del riflettersi in sé stesso.

L’assoluto non può essere colto immediatamente, come volevano i romantici, ma solo mediatamente, attraverso il negativo, l’estraneazione.

Il primo momento nel quale lo Spirito è in sé, ma non ha consapevolezza si sé (non è per-sé) è detto da Hegel “astratto” o intellettivo. Esso è infatti un unità, che precede la differenza ed è perciò privo di determinazioni.  Nel movimento conoscitivo il primo momento è quello che precede la “contesa” tra gli opposti”. E’ il momento cioè nel quale gli opposti sono separati l’uno dall’altro. Il primo elemento ha in sé tutta la verità (l’universale), l’altro è l’assoluta non-realtà (il particolare) è ridotto a manifestazione, apparenza.

Il secondo momento (negativo razionale) consiste nel fluidificare tale rigidità dell’intelletto e delle sue forme, lasciando emergere le contraddizioni interne ai concetti (il loro lato negativo). Ogni concetto si rovescia nel suo opposto dissolvendosi in esso. Ogni opposto passa nel suo negativo. Per esempio partendo dal concetto di “essere”, se esso deve essere pensato nella sua universalità, non può essere alcunché di determinato, non può essere né questo né quello. Esso proprio in quanto è stato concepito astrattamente (il puro essere) nei fatti si rivela essere un nulla. L’essere dunque passa nel suo contrario, il nulla, entra immediatamente in rapporto con il suo contrario, mostrando il suo rapporto con esso.

  1. SINTESI: momento dell’essere “in-sé e per-sé” (SPIRITO). Lo Spirito si riconcilia con se stesso egli è per sé, il suo in sé, la sua verità.

Il terzo momento (positivo razionale) è ciò che contiene in sé come superate quelle opposizioni cui si ferma l’intelletto.

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO 

La scienza è per Hegel scienza dell’Assoluto, ovvero lo Spirito che si sa (soggetto) nel suo sviluppo come processo, risultato del suo divenire. Lo Spirito può giungere a piena consapevolezza di sé, e dunque realizzarsi pienamente, soltanto come soggetto. Può conoscersi dunque mediante l’attività della coscienza (che perciò risulta il co-sogetto della fenomenologia). Lo sviluppo dello Spirito è però visibile soltanto dal punto di vista dello Spirito stesso. La coscienza individuale dovrà perciò per entrare nel regno della scienza, elevarsi al punto di vista dell’Assoluto, e con ciò rimuovere la sua limitatezza, la sua falsa coscienza.

Questo percorso di elevazione della coscienza è descritto nella Fenomenologia dello Spirito che descrive ad un tempo il percorso dell’individuo, dell’umanità e dello Spirito stesso, che muovendo dal sapere immediato. Il cammino che porta verso la scienza è già scienza, come il cammino che mi porta verso l’assoluto è già assoluto.

Nel Cammino descritto nella Fenomenologia la coscienza è condizionata nella sua definizione di verità dall’opposizione. Essa in quanto coscienza, infatti, non può fare a me di cogliersi in una contrapposizione tra soggetto e oggetto (la coscienza è sempre coscienza di qualcosa). Il travaglio della coscienza sarà quello di sanare questa scissione tra l’essere in-sé dell’oggetto e l’essere-per-la-coscienza, Sarà sanare la distinzione tra la coscienza dell’oggetto e l’oggetto stesso.

La coscienza una volta scaturita la contraddizione, volge a risolverla cercando di eliminare l’opposizione che l’ha originata e tuttavia immediatamente essa crea una nuova opposizione.

In questo andamento di negazioni ripetute, viene tuttavia “interiorizzato” l’oggetto ovvero via via trasposta a livelli più alti la contrapposizione tra il soggetto e l’oggetto. Ad ogni giro l’opposizione, che inizialmente è tra un soggetto e un oggetto totalmente esterno, viene riportata sempre più entro il soggetto.

Ad ogni tappa, la coscienza si eleva verso figure più complesse. Il movimento dialettico è dunque anche un movimento di sviluppo generativo, tanto del pensiero quanto della realtà. La coscienza (pone la verità nell’in-sé dell’oggetto), diviene perciò autocoscienza e poi ragione. Si passa allora da una coscienza che si coglie in rapporto all’oggetto ad una coscienza che agisce. Una coscienza vale a dire che si coglie rispetto alle altre autocoscienze. Si arriva infine ad un ragione consapevole del fatto che l’in-sé dell’oggetto coincide con il suo essere per-sé, ovvero che realtà e apparenza sono un unica e medesima cosa.

COSCIENZA nella Fenomenologia dello Spirito:

Attori della Fenomenologia dello Spirito:

COSCIENZA SENSIBILE

Per la coscienza la condizione affinché si dia la verità è che essa debba essere identica a se stessa.

Definito “A” come il vero per essa è necessaria la condizione A=A. Durante il suo percorso tuttavia ogni volta che essa porrà A come il vero immediatamente gli si contrapporrà un NON-A. Altrettanto immediatamente essa verrà scivolare A in NON-A. La coscienza sensibile nella fenomenologia pone il particolare e trova l’universale. Pone l’Uno e trova i molti e così via. Ogni volta che di fronte a lei sorge la contraddizione A=NON-A essa rifiutandola volgerà a cambiare la sua definizione di verità.

L’errore della coscienza è esattamente quello di intendere la verità come un oggetto, ovvero come qualcosa di fisso e identico a sé e perciò contrapposto al suo contrario. Gli elementi dell’opposizione non sono rigidamente separati, ma estremi di un unico movimento.

Cos’è la verità?

Alla domanda su che cosa sia la verità la coscienza inizialmente risponde nel modo più semplice. Letteralmente indica l’oggetto di fronte a lei e dice “questa qui”. Intendendo con ciò che la verità risiede interamente nell’oggetto che le sta di fronte. Oggetto che nemmeno nomina, ma che si limita ad indicare. Tuttavia il semplice indicare l’oggetto implica che la coscienza individui come “questo qui” (l’unità) qualunque cosa gli si presenti di fronte (la molteplicità).

La verità che era il “questo qui”, in questo momento risulta perciò addirsi a qualunque cosa. Ed è qui la prima contraddizione: la coscienza cercava la verità nell’assoluto particolare ed invece trova l’assoluto universale. Il “questo qui” è infatti assolutamente vuoto e perciò capace di riferirsi a qualsiasi cosa.

La Qualità

Delusa dall’aver riposto la verità nell’oggetto, che si è dimostrato mutevole, cerca a desso in lei: la verità è adesso nel fatto che Io (questo Io) vedo l’oggetto (questo oggetto). L’unità non è nell’oggetto stesso, ma in lei come coscienza singola. Questa affermazione tuttavia cambia a seconda della coscienza cui si pone la domanda (ma anche a seconda della stessa coscienza in un diverso momento). Vale il ragionamento di prima “questo” Io “qui” può indicare qualunque io, lasciando come contenuto il solo “questo” e il solo “qui”.

Anche in questo caso la verità ottenuta si è dimostrata mutevole e cangiante. In entrambi i casi le individualità singole si sono capovolte in universalità astratte (il questo qui poteva essere qualunque oggetto, L’io può essere qualunque io). La coscienza voleva individuare la cosa più individuale e concreta e si è ritrovata con la più vuota e astratta “il questo qui”.

Il silenzio

Ostinandosi nell’errore tenta tuttavia un ultima mossa, intuendo che qualunque risposta dà errata, allora tace, semplicemente indicando l’oggetto di fronte a lei, tentando con ciò di aggirare la trappola insita nel linguaggio (quella che nel dire, dice sempre un che di universale). Nell’istante in cui indica “questo” ed “ora”, esso tuttavia è già stato (l’ora infatti è un essere già stato), così come quando indica il questo qui. Il qui si frantuma nella molteplicità delle coordinate spaziali (sopra-sotto, destra sinistra, avanti dietro). Neanche per questa via è dunque riuscita a salvaguardare l’unità dell’oggetto sempre frantumato in un molteplicità di cose singole. Come sensazione la coscienza o afferra l’uno e lo priva di qualunque determinazione oppure i molti che però non riesce a ricondurre ad uno.

PERCEZIONE SENSIBILE

La coscienza prende quindi consapevolezza del fatto di mediare la conoscenza della cosa. Comprende di agire su di essa modificandola. Non è l’osservatore neutro che registra la realtà, ma la percepisce e con ciò inevitabilmente la modifica. La coscienza diviene perciò  percezione.

In quanto percezione suo oggetto è adesso l’universale sensibile, che sussiste in sé e per sé in quanto “l’essere-uguale-a-se-stesso” della cosa. La coscienza coglie il vero dunque quando coglie l’in- sé della cosa, nella sua indipendenza.

La cosa dalle molteplici proprietà

Partendo da tale presupposto la coscienza assume l’oggetto come “la cosa dalle molte proprietà”. Ogni cosa è infatti una rispetto all’universale, ma molteplice rispetto alle sue qualità. LA domanda allora diventa a chi appartiene l’unità e a chi i molteplici attributi. La cosa in sé è una o molteplice?

La coscienza ancora una volta impronta la risposta che è per lei la più ovvia ed immediata. La percezione fornisce alla coscienza le molteplici qualità dell’oggetto ed è lei che le unifica mettendole in relazione tra loro. E’ la coscienza che stabilisce vale a dire l’unità dell’oggetto, attribuendo alla cosa i diversi attributi. Nella cosa sono i molti, nella coscienza l’uno. La cosa sarà allora bianca e anche dura e anche alta etc. etc. L’unificare degli “anche” è della coscienza che raccoglie insieme tutte le proprietà nella “cosalità“, l’essere cosa della cosa.

Determinazione è negazione

Tuttavia proprio in quanto ciascuna proprietà è in sé determinata, escluderà tutte le altre: il bianco è bianco e non è il duro, né l’alto, né è la cosa. Ciò che la coscienza legava assieme rispetto all’universale sensibile (ciò che rende una data cosa ciò che è) si trova preso singolarmente in contrapposizione a tutti glia altri. Gli attributi che nella cosa erano un “anche” ciascuno posto acconto all’altro, presi singolarmente sono una negazione assoluta di tutto il resto.

Rispetto all’universale sensibile per la coscienza scatta perciò la contraddizione. Le molteplici proprietà tenute assieme dallo “anche” si trovano scomposte in un insieme di opposizioni. La coscienza allora non potendo ammettere che la cosa è opposta in sé, assume su di sé la contraddizione e cambia punto di vista. Alla cosa appartiene l’unità mentre gli attributi derivano dalla percezione della cosa. La sedia è una nel suo essere sedia, la durezza, il marrone ecc. sono del soggetto che la percepisce.

L’uno e i molti in perenne contraddizione

L’universale sensibile in sé tuttavia, così posto il ragionamento, è di fatto l’uno vuoto è astratta privo di determinazioni. Queste ultime infatti cadono adesso tutte dentro la coscienza che lo percepisce. L’oggetto nel suo essere uno risulta, piuttosto, uguale a tutti gli altri (come era prima per il “questo”), perché le differenze cadono tutte fuori la cosa.

In quanto una la cosa è in relazione solo a se stessa, ma questo essere-per-sé la oppone immediatamente ogni essere-altro. Essa allora in quanto assoluta non può essere relativa ad altro e tuttavia sempre in quanto assoluta è immediatamente in opposizione (e quindi in relazione) ad ogni-essere-altro. Quindi o la cosa in quanto indipendenza assoluta contraddice se stessa, oppure, se si vuole salvaguardare la sussistenza della cosa (ovvero l’esistenza della realtà) bisogna rinunciare alla sua pretesa di assolutezza. Occorre riconoscere che la cosa ha la propria essenza in altro. L’universale sensibile si è dunque mostrato incapace di tenere assieme l’unità e la molteplicità, la singolarità e l’universalità.

INTELLETTO

La percezione non è riuscita dunque a risanare l’opposizione tra l’identità (l’essere uno) e la differenza (i molti). Rimette con ciò la sua attività alla coscienza che adesso si pone come intelletto che di fronte a sé ha non la cosa, ma la forza (si pensi ad esempio alla fisica). La forza rappresenta quello stesso insieme di rapporti (tra l’uno e i molti) che prima erano concepiti estranei l’uno all’altro, ma che adesso vengono intesi come interni all’oggetto. La forza sii presenta come uno, la sua stessa estrinsecazione o (manifestazione) sono i molti. L’intelletto ha il compito di cogliere l’intima legalità posta nelle cose. Queste sono il risultato di un estrinsecarsi di forze. L’oggetto è adesso l’“Universale incondizionato”.

La forza e l’estraneazione:

La dialettica si gioca tra la forza e un essere altro sotto il cui stimolo la forza si estrinseca dischiudendo la molteplicità che era in lei. La forza è movimento, dispiegamento, estrinsecazione, ma anche ricomprensione. Rappresenta l’uno non ancora attuato, o dispiegato, nei molti- L’altro dall’uno è invece ciò che spinge l’uno a dispiegarsi. L’altro si rapporta a l’uno sollecitandolo. La dialettica è dunque tra sollecitato e sollecitante.

Quando la forza è nell’uno. L’altro sollecita quest’uno ad estrinsecarsi. Quando la forza si è dispiegata nell’essere altro, sopraggiunge l’uno (come altro dalla forza dispiegata) che lo sollecita a ricomporsi. L’altro s’è dunque presentato prima come il molteplice e poi come l’uno, così come pure la forza s’è presentata prima come uno e poi come molteplice. C’è sempre un ostacolo che ferma il dispiegarsi della forza e che una volta fermata la riconduce all’unità e quell’altro si comporta esattamente come una forza.

Il gioco delle forze:

L’intelletto scopre allora che l’altro dalla forza è un’altra forza opposta alla prima. Adesso una forza appare all’intelletto come l’uno che rappresenta e tiene contratte entro se le molteplici proprietà. L’altra forza come l’elemento dell’estrinsecazione di quest’uno. L’una è sollecitata dall’altra all’unità e l’altra l’una all’estrinsecazione. Abbiamo dunque una coppia di forze, la forza come uno compressa e la forza come l’anche dispiegata. Ciascun elemento è solo in quanto è chiamato dall’altro a porsi come tale. La coscienza in questo passaggio fa esperienza del fatto che in questo mondo di forze, l’essenza non sussiste da sola, ma è sempre in rapporto all’altra. La forza è il suo dileguare nella determinazione opposta la quale a sua volta dilegua nella prima. In questo continuo movimento ciò che resta costante non sono le singole determinazioni, ma il dileguare in quanto tale. Il mondo percepito manifestazione di coppie di forze è un continuo dileguare.

Il primo mondo ultrasensibile:

La coscienza non può accettare questo risultato e scinde perciò il mondo in due entità. Uno è il mondo sensibile, che è il mondo del continuo dileguare e del continuo passare di ciascuna forza nell’altra. L’altro mondo è quello ultrasensibile di cui pure non è possibile dire nulla . Il mondo delle apparenze è la manifestazione di un invisibile al di là posto come il totalmente altro dell’aldiqua. L’in sé dovrà essere come unità immediata, come negazione dell’esterno. Il nuovo sdoppiamento è allora tra l’aldiqua (fenomeni e parvenza dileguante) e aldilà come l’essenza di quei fenomeni, uno che dilegua l’altro che permane. Questo al di là è stato tuttavia posto solo mediante il fenomeno, come il suo esatto contrario. Doveva contrapporsi all’inessenzialità esteriore. Si trova piuttosto a dipendere da essa. Doveva essere un assenza totale, ma è invece l’assenza di una presenza e la presenza è il mondo dei fenomeni. L’essenza coincide dunque con la sua realizzazione, ovvero, con l’apparenza stessa.

Il mondo delle leggi:

Caduta la distinzione tra aldilà e aldiqua, il mondo si presenta adesso come insieme di leggi. La legge esprime infatti attraverso un’invarianza (la formula) il movimento delle forze. Nella legge si raccoglie il permanere in unità nella variabilità delle singole manifestazioni. La legge è sempre l’aldilà rispetto al sensibile, l’intima interiorità delle cose, ma non come il totalmente separato. La legge ha il compito di ricondurre in unità il molteplice delle singole manifestazioni. E’ il permanere di ciò che è eternamente in movimento. L’intento di ricondurre ad unità il fenomeno e la sua eterna eccedenza rispetto alla legge, tuttavia, fa si che l’attività dell’intelletto si risolva in un proliferare di leggi.

Rispetto all’unità la coscienza perde di nuovo il suo obiettivo ed ha a che fare adesso con una molteplicità di leggi.

Una legge universale (una sorta di formula universale di tutte le leggi) in grado di unificarle tutte sarebbe di fatto una vuota tautologica che perderebbe il suo potere esplicativo. Dunque o la legge è universale e tautologica, oppure particolare e molteplice. Qui la coscienza si trova di fronte un nuova aporia. Essa cercava l’uguaglianza della cosa con se stessa e non trovandola nella cosa, s’è rivolta verso l’interno intellegibile, dove pure non riesce a salvaguardare l’unità della cose (perennemente scissa tra l’essere uno e la molteplicità delle sue manifestazioni).

 Il secondo mondo ultrasensibile (il mondo invertito):

Scoprendo un’anima inquieta nel procedere delle leggi ha scoperto l’opporsi dentro sé dell’identico a sé. Così scopre pure che questa opposizione non è una mera parvenza dei fenomeni, ma è il principio stesso dell’apparire. Si giunge così ad un secondo mondo ultrasensibile completamente opposto al primo. La legge non esprime più l’invarianza, la quiditas statica, ma il movimento del divenire uguale del diseguale. L’intelletto adesso sa che ciò che è costante è solo l’incostanza. Sa che l’essenza dell’apparire è solo nel movimento dell’opporsi a se (la contraddizione). Essa afferma adesso che l’eguale è l’ineguale a sé. Vede la verità nella contrapposizione, nell’inversione, nel movimento del divenire diseguale dell’eguale.

L’interno s’è dunque compiuto come apparenza e l’apparenza compiuta come apparenza.

Ora in questo mondo ultrasensibile la verità è il contrario dello A=A. Adesso l’intelletto ovunque veda l’identità scorge l’inganno, in quanto la verità profonda non è nell’apparenza identica a sé, ma nella diseguaglianza.

Con il secondo mondo ultrasensibile la coscienza tuttavia si accinge ad abbandonare la sua figura. L’oggetto che si trova davanti adesso infatti, non è più distinto tra un interno ed un esterno. Il mondo vero è piuttosto la legge del fenomeno più il suo rovesciamento. Questo movimento, questo rovesciarsi reciproco delle opposizioni, questo continuo mutare è il palpito del mondo che adesso di fronte alla coscienza si presenta come vita. La vita, con le sue contraddizioni, con i suoi ideali che servono solo per essere rovesciati, invertiti, si presenta all’intelletto come l’identità che è in sé differenza. Con l’ingresso nella vita la coscienza abbandona la sua prima figura e si fa Autocoscienza.

 

L’AUTOCOSCIENZA

La coscienza come autocoscienza, adesso, depone l’idea che la verità risieda nell’in-sé dell’oggetto. Avendo compreso che la permanenza della legge è da lei posta, sposta la ricerca della verità dal lato del per-sé. La coscienza guarda a se stessa cercando in lei la fonte di ogni certezza. L’oggetto si è così trasformato davanti a lei in un flusso in continuo movimento. E’ divenuto un puro ed incessante dileguare, esso è divenuto vita. Con l’ingresso nell’autocoscienza, la verità è intesa come l’indipendenza del soggetto dall’oggetto e dunque declinata come libertà. Compito della coscienza è allora dimostrare l’inessenzialità dell’oggetto, rimuoverne l’indipendenza.

 

Il desiderio: BEGIRDE

La prima relazione con l’oggetto è quella istintuale dell’appetire. L’autocoscienza brama consumare l’oggetto, ovvero rimuovere immediatamente la sua indipendenza consumandolo.

Il desiderio è tuttavia una tensione che non è mai appagata dal consumo dell’oggetto. Anzi una volta consumatolo, l’appetito si rivolge ad un nuovo oggetto. La tensione verso l’oggetto che doveva dimostrare l’indipendenza dell’autocoscienza, ne rivela piuttosto la continua dipendenza. Il desiderio non può trovare che un appagamento effimero nel consumo, che predispone già ad un nuovo desiderio.

Il problema sussiste nel fatto che consumare l’oggetto non significa rimuoverne l’indipendenza  (e dunque affermare la propria libertà) l’indipendenza, ma dileguarlo. L’oggetto non è stato dominato dall’autocoscienza, ma rimosso (distrutto). Ecco che spinta dalla contraddizione deve rivolgere la sua attenzione all’unico ente che possiede la negazione in se stesso, che può cioè negare da sé la propria indipendenza senza con ciò annullarsi: un’altra autocoscienza.

 Leggi anche “Patruni e sutta” =>

L’autocoscienza capisce dunque che ha bisogno che un’altra autocoscienza la riconosca come tale. Essa incontra però l’altra autocoscienza come un oggetto, tra gli altri oggetti. Chiede cioè riconoscimento, ma non intende riconoscere a sua volta. L’autocoscienza in questo caso non prende consapevolezza del fatto che per essere riconosciuta da un’altra autocoscienza deve a sua volta riconoscerla. Pretende piuttosto che l’altra si estranei.

DIALETTICA SIGNORIA-SERVITÙ:

In questo rapporto dunque il positivo risiede nella coscienza riconosciuta, il negativo nella coscienza cosificata, trattata come oggetto, che si estranea da sé per riconoscere l’altra. In questa nuova opposizione l’una è coscienza signorile, l’altra coscienza servile. Le due autocoscienze infatti non volendo nessuna farsi carico del negativo e cercando per esse riconoscimento, hanno entrambe come obiettivo l’assoggettamento dell’altra: ciascuna fa ciò che fa l’altra.
É naturale allora che in questo contesto la prima relazione tra le due autocoscienze sia la contesa. Ciascuna mirerà infatti a rimuovere l’indipendenza dell’altra, ovvero, mirerà alla sua morte. In questo scontro per l’indipendenza, in questa lotta per la vita e per la morte, chi dimostrerà di non aver timore della morte darà prova della propria libertà rispetto al mero essere della vita. Chi non teme la morte diverrà coscienza Signorile. Chi al contrario, avrà tremato di fronte all’abisso del nulla eterno avrà rinunciato alla propria indipendenza rispetto all’oggetto, si farà coscienza servile.

La mediazione della cosa impedisce la reciprocità del riconoscimento

La coscienza servile per timore della morte e per debolezza di fronte al proprio desiderio, ha preferito legarsi alla cosa. Ha preferito dichiararsi dipendente da essa. Il signore al contrario dimostrandosi indipendente rispetto alla cosa (fino al gesto sommo del rischio della vita) si emancipa dalla cosa e attraverso il dominio su di essa esercita adesso la sia signoria sul servo. Il servo lavora l’oggetto per il signore e guarda a lui come alla sua essenza (coscienza estraniata). Il servo vede cioè come modello di coscienza realizzatasi quella del signore e riconosce a se stessa l’elemento negativo, la dipendenza dalla cosa. Il signore dal canto suo gode dell’oggetto senza compromettersi con esso, senza rinunciare alla sua indipendenza. L’oggetto è infatti lavorato dal servo e offerto per il puro godimento del signore.

Il lavoro come mezzo di emancipazione

Il rapporto asimmetrico e complementare sembra dunque stabilizzatosi. Tuttavia succede che mentre la coscienza signorile non rinuncia al godimento e dunque di fatto non rinuncia al rapporto con l’oggetto (seppure mediato dal servo). Il servo nella paura della morte prima e in quella del signore dopo impara a disciplinare il proprio desiderio. Lavora l’oggetto senza però trovarne godimento. Nel suo lavoro avendo percepito la sua essenza nell’angoscia di fronte la morte, impara a manipolare l’oggetto a renderlo eguale a sé imprimendogli la sua essenza.

La coscienza realizza la sua autonomia emancipandosi dalla cosa. Acquista consapevolezza del fatto che la Begirde, il desiderio, non è il corretto modo di rapportarsi alla cosa. Piuttosto che la sua libertà non dipende affatto dalla cosa, ma dalla sua attività su di essa. Inoltre la coscienza in questo movimento si rende autonoma anche dall’altra autocoscienza che adesso al pari dell’oggetto le è altrettanto inessenziale alla sua realizzazione. Comprende che schiava o in catene è comunque libera e diviene coscienza stoica.

Lo stoicismo

Con lo stoicismo la coscienza si ritrae nuovamente dal rapporto con l’oggetto. Entra nel regno del pensiero, facendosi da coscienza agente coscienza pensante. L’unità di forma e materia realizzatasi nell’oggetto tramite il lavoro tuttavia si infrange. Diventa piuttosto unità nell’universalità del pensiero ovvero astratta. Come pure astratta è la libertà dell’autocoscienza stoica.
La prospettiva dello stoico tuttavia si fa allora altrettanto inessenziale. Egli nega l’effettualità semplicemente ritraendosi da essa. Lo stoico in altre parole si è reso indipendente dalla cosa allontanandosi da essa e non già dominandola o forgiandola.

Lo scetticismo

Presa da questa nuova contraddizione la coscienza diviene scettica. Sperimentata nel movimento precedente la persistenza dell’opposizione rispetto all’oggetto, volge adesso a negargli ogni verità. Essa non si allontana semplicemente dall’oggetto, ma si volge ad esso per negargli qualsiasi realtà.

Niente di fronte al giudizio dello scettico ha consistenza. Nella sua “furia del dileguare”, accanendosi contro la realtà, lo scettico guadagna la certezza della propria libertà. Tuttavia essa mentre nega la realtà se ne scopre invischiata. E’ una coscienza singola che si eleva a identità negatrice e tuttavia è essa stessa una realtà in carne ed ossa. E’ parte di quella realtà che intende negare. Ritrova in lei quell’opposizione che credeva di aver risolto negando l’oggetto. Si intende una volta come l’universale identità negatrice, l’altra volta come particolarità individuale negata. Non riuscendo a risanare entro sé questa contraddizione precipita nuovamente, facendosi coscienza infelice.

 LA COSCIENZA INFELICE:

La coscienza infelice come parto di quella scettica è essa stessa scissa, ma considera tale scissione come costitutiva e per questo è infelice. In questa figura la coscienza nuovamente ripartisce le due polarità in due diverse autocoscienze. Da una parte pone lei medesima come coscienza particolare, dall’altra pone un’autocoscienza universale immutabile ed eterna: Dio.
L’autocoscienza sa bene che la verità consiste nella sintesi dei due momenti, nell’identità delle opposizioni, ma sa altrettanto che la frattura tra l’aldiqua e l’aldilà è incolmabile. Percepisce perciò questa esistenza come un esilio e la separazione come un dolore.

La coscienza infelice vive dunque la religione come un’esperienza privata e non comunitaria. Sa che alla sua certezza manca la verità e che la verità è in un’altra autocoscienza cui è devota. Il senso del cammino è il segno di una sottomissione della sua coscienza a Dio. Questa prima coscienza è dunque:

Coscienza devota (ebraismo-cristianesimo).

In questa prima fase la coscienza devota si sente così riconosciuta nel suo sentimento di devozione e in tale sentimento trova appagamento. Tuttavia questa riconciliazione di tanto è immediata di quanto è astratta. Essa è piuttosto una proiezione del suo desiderio di riconciliarsi. Di fronte alla sua devozione si erge infatti un sepolcro. Essa crede di aver afferrato l’intrasmutabile raffigurato e invece afferra solo il suo sepolcro (pensa alla devozione popolare per le varie reliquie). Ritraendosi nuovamente delusa da questa figura la coscienza devota, diventa coscienza attiva.

Coscienza attiva (calvinismo),

Comprende vale a dire che tale unificazione va realizzata attraverso il suo operato. Il credente guarda adesso al proprio lavoro come allo strumento della propria santificazione e intende questo mondo come figura dell’intrasmutabile. Le opere sono la via per Dio. Immagina la sua attività come prodotto di doni del Signore che essa è chiamata a realizzare. Realizzarle non come talenti suoi, ma come prova della grandezza di Dio. In questa operazione essa scinde di nuovo il suo operato dal godimento di questo stesso, dichiarando la sua attività non finalizzata al suo interesse, ma al riempimento della distanza con Dio.

E qui nasce la sua contraddizione avendo separato l’immanenza dalla trascendenza, il lavoro dal suo godimento, essa inevitabilmente si trova contraddetta. Dice infatti di non godere dei frutti del suo operato e invece ne gode. La coscienza è dunque ricca e ipocrita, perché tiene per sé i frutti del suo lavoro e non li socializza (l’anima borghese del capitalismo calvinista). Lei è falsa anche nel suo rendere grazie. Dice che tutto quel che fa discende da Dio e tuttavia riconosce il suo stesso operato come la garanzia del suo godimento. Il suo è un falso umiliarsi, che piuttosto innalza la coscienza. Inorridita da questa ulteriore contraddizione, la coscienza si ritrae nuovamente dal mondo e diventa

Coscienza ascetica.

In questo stadio realizza la sua totale disuguaglianza rispetto alla trascendenza. Concepisce il ricongiungimento con la trascendenza attraverso l’umiliazione di se medesima. Per rendersi coerente deve negare completamente validità al suo operare e rinunciare al desiderio. Guadagna coerenza rinunciando al godimento e mediante l’umiliazione del corpo. Questa rinuncia alla propria fisicità e istintualità, non realizza però l’incontro con Dio, ma semplicemente l’umiliazione della singolarità in lotta con se stessa.

L’asceta comprende allora che non deve rinunciare alla sua fisicità, ma alla sua libertà (i monasteri). L’ascetismo organizzato nei conventi, fa si che il rapporto con l’intrasmutabile, non sia più immediato, ma mediato dalla comunità. In questo modo l’autocoscienza esce fuori dalla sua individualità e comprende la relazione un rapporto tra un Io e una comunità.

Il medio dell’uno presso l’altro è la chiesa. La coscienza tuttavia non coglie la sua relazione con il medio (la comunità) per ciò che essa è. Essendo partita dal presupposto che in lei non risiedeva alcuna verità, ripone tutta la verità nella chiesa. La chiesa una volta sorta, allora, si pone come negazione immediata della singolarità. L’elemento dell’universale e del singolare si trovano di nuovo separati. Tuttavia attraverso la chiesa la coscienza giunge a concepirsi come volontà universale. Con ciò l’autocoscienza diviene Ragione.

 

LA RAGIONE

La sezione della ragione non verrà affrontata in maniera dettagliata. Essa è il luogo in cui la ragione ha guadagnato consapevolezza (essere-per-sé) di essere ogni realtà (essere-in-sé) e tuttavia a tale certezza, manca ancora verità. Essa al pari che le altre figure dovrà mettere alla prova tale assunzione, divenendo via via 1) ragione osservativa, 2)  ragione attiva e 3) individualità in sé e per sé.

La ragione osservativa

Il limite di questa figura è tuttavia il fatto che essa non vede ancora la realtà come il prodotto della sua attività. Sa di ritrovarsi in essa, sa che deve appropriarsene, ma non sa come ciò gli succeda. Essa cerca perciò la propria essenza in un qualcosa che deve trovare fuori di sé (La Natura, come estraneazione dello Spirito) la cerca in un’osso (un ché di inanimato) e lì la trova.

La ragione attiva

Delusa da tale risultato la ragione rifugge da ogni ragionare. Abbandona la prospettiva che l’identità di in-sé e per-sé, possa essere trovata nell’osservazione della Natura. Si abbandona alla vita, cercando in essa di ricongiungersi con la sostanza etica. Adesso la ragione riprenderà questo cammino cercando di riconciliare la sua propria singolarità, con l’elemento universale. Quest’ultimo essendo stato posto inizialmente come l’assolutamente altro, gli si presenterà come il vuoto nulla.

  1. Di fronte all’universale il primo incontro sarà allora quello più violento, esso sarà l’angoscia e la paura della morte. Tutti i momenti della ragione attiva sono momenti in cui l’autocoscienza è sdoppiata, cerca cioè nell’altra autocoscienza e nella comunità delle autocoscienze il riconoscimento. É così nel piacere e la necessità, dove l’autocoscienza cerca nel soddisfacimento del desiderio sessuale il proprio appagamento e trova la morte.
  2.  Succede nella legge del cuore e il deliro di presunzione, dove l’individualità nel tentativo di contrastare il crudele corso del mondo gli contrappone la sua interna legge interiore.
  3. Succede per la virtù e il corso del mondo dove l’autocoscienza si scaglia contro la perversione del mondo, cogliendola come un prodotto della sua stessa attività.

In tutti questi casi la coscienza non riesce a conciliare la sua singolarità, con la sua universalità. La legge del cuore lotta contro il mondo perverso. Non si accorge che è proprio la realizzazione della sua singolarità nel mondo che produce la perversione. La virtù ingaggia una battaglia contro quella singolarità che è nelle autocoscienza, ma nella lotta mostra di non fare troppo sul serio, giacché è essa stessa singolarità.

Individualità in sé e per sé

Nell’ultima figura l’individualità in sé e per sé reale, l’opposizione tra universale e particolare si scompone nel regno animale dello Spirito tra la particolarità delle singole realizzazioni (l’opera) e l’universale (la cosa stessa). La coscienza spaccia come contributi verso la cosa stessa i suoi interessi particolari. Allorché la ragione si fa legislatrice cerca l’universale in delle leggi che essa è in grado di ricavare per se stessa (principio di universalizzazione kantiana). L’origine individuale di tali leggi, seppur universalizzate, non ne toglie l’individualità originaria. Le leggi così ricavate si rivelano puramente arbitrarie.

La ragione esaminatrice delle leggi decide allora che se non può produrne di sue, può almeno esaminarle per verificarne la tenuta. E tuttavia già solo per il fatto che la ragione individuale per esaminarle si pone sopra le leggi ne fa venir meno l’universalità. La contraddizione tra l’uno e i molti diviene qui l’opposizione tra la singolarità e l’universalità dell’individuo. Quest’ultimo partendo dalle azioni che egli compie giunge sino alla legge. In questo suo percorso l’individualità fa esperienza del fatto che finché essa si astrae dalla sua situazione storica concreta non potrà mediare i due estremi. Quell’universale che essa costantemente si trova davanti è per l’appunto un prodotto storico un divenuto.

Conclusione

Con l’ultimo passaggio la coscienza diviene consapevole che la sua verità non può risiede in un posizionamento astratto, ma che essa deve concepirsi storicamente, come individualità concreta e situata. La sezione dello SPIRITO e dunque in realtà una filosofia della storia, attraverso al quale si ripercorre la storia del divenire di una collettività dalla Grecia sino alla rivoluzione francese. Le ultime due figure la coscienza morale e il Gewissen chiudono infine  la Fenomenologia propriamente detta.

Con la conciliazione che avviene tra lo spirito agente e l’anima bella, la coscienza rimuove l’opposizione originaria e si innalza riconciliata alla prospettiva dell’Assoluto.

Se hai dubbi o necessiti di chiarimenti, puoi commentare l’articolo, sarò lieto di risponderti! Non dimenticare che puoi sempre avviare una discussione su Forum plus+

Clicca qui per andare al Forum!

/ 5
Grazie per aver votato!