Cartesio: riassunto. Scopritore del Cogito a cavallo di due epoche.

 Il problema della ricerca di un metodo costituisce l’esigenza principale della filosofia di Cartesio. Esso deve condurre ad un sapere che permetta di distinguere il vero dal falso.

La scoperta del metodo:

Il metodo deve essere una guida alla conoscenza umana (interesse teorico). Guida per la quale però l’uomo può rendersi padrone e possessore della natura (interesse pratico). Il metodo deve perciò essere unico e valido per tutti gli ambiti. Deve servire per orientare gli individui verso il vero e l’utile. Nel formulare il suo metodo Cartesio si avvale sopratutto della matematica. Già per Galileo Galilei la matematica era il linguaggio con cui era scritto il libro della natura. Le scienze matematiche per il nostro sono già pervenute ad un metodo che consente una conoscenza sicura. Si tratta adesso di rendere cosciente questo metodo, ma anche di giustificarlo. Si tratta vale a dire di dimostrarne l’universalità e la necessità.

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Cartesio in sintesi:

Obiettivo di Cartesio nella sua fondazione del metodo è:

  1. formulare le regole del metodo. In ciò rifarsi alle scienze matematiche dove viene certamente utilizzato.
  2. fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto del metodo,
  3. dimostrarne l’utilità (l’efficacia) per le varie discipline.

Le regole del metodo

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Enumerazione: E’ l’operazione di controllo. Consiste nel rivedere tutti gli elementi dell’analisi e ricontrollare tutti i passaggi della sintesi.

Dal dubbio alla certezza di sé: la prima evidenza

Come è possibile notare al primo punto troviamo il cosiddetto criterio dell’evidenza. Facciamo solo notare che “evidenza” è sinonimo di prova. Si dice ancora adesso fornire “evidenze” a fare di una propria tesi. Ciò che è evidente è dunque indiscutibilmente vero. E pare che solo questo può essere posto come inizio del filosofare.

L’epoché cartesiana

Cartesio muovendo dalla regola dell’evidenza afferma che bisogna inizialmente “scartare” tutto ciò di cui cui si ha motivo di dubbio. Non possedendo ancora un criterio (il metodo stesso) per stabilire ciò che può essere conosciuto come assolutamente certo, tutte le cose appariranno dubbie. Ecco perché per Cartesio bisogna sospendere l’assenso su tutte le nostre conoscenze.

Sospendere il giudizio (epoché) era l’atto scettico per eccellenza. Di fronte al dubbio non si afferma come già i sofisti che è l’uomo il criterio del vero e del falso. Si afferma piuttosto che è impossibile prendere parte alla conoscenza. In questa prima fase Cartesio è chiamato a dimostra il fatto che è possibile mettere tra parentesi l’intera conoscenza. Intende cioè obbligarci al silenzio assoluto:

Devo chiedertelo ancora? 

Perché occorre radicalizzare il dubbio?

Perché compiere tale operazione? Non cercavamo forse verità evidenti? Perché non fermarsi alle verità matematiche? Se ricordiamo bene era esattamente questa la conclusione cui arrivava Locke nel suo saggio sull’intelletto umano. Il paradosso dell’empirismo di Locke era però che se per un verso potevamo definire scienza solo ciò che era fondato sull’esperienza, per altro verso le uniche scienze che potevano dirsi certe erano proprio quelle matematiche. Queste tuttavia erano anche le uniche che non avevano un fondamento empirico.

Se non radicalizzassimo il dubbio applicandolo ad ogni forma di conoscenza, non avremmo per Cartesio ottenuto il nostro obiettivo. Non potremmo vale a dire elevare il dubbio a metodo di ricerca. Abbiamo infatti detto che le conoscenze devono essere universali e necessarie. Se di alcune cose dubitassimo e di altre no, il dubbio non potrebbe essere né l’uno, né l’altro.

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Sospesa la validità della nostra intera conoscenza, si scorge alle valli del pensiero il pensiero stesso, privo di qualsiasi contenuto. L’operazione cartesiana ci permette infatti di privare l’atto del pensiero dell’oggetto che sempre lo accompagna. L’operazione è assolutamente virtuale, visto che il pensare è sempre un pensare qualcosa. Il pensiero, il Cogito, deve però poter giungere a cogliere se stesso, come puro atto del pensare. Per farlo deve allora privarsi di qualunque predicato.

 

Il dubbio iperbolico e la nascita del Cogito

Se si dubita su tutto, detto in modo più semplice, si potrà guadagnare proprio il dubbio come unico atto certo. Proprio il dubitare costituisce una certezza, in quanto se dubito (e in genere se penso) devo necessariamente esistere (Cogito ergo Sum). Per ingannarmi o essere ingannato devo necessariamente esistere.

Se dubito sono e come  posso io dubitare di esistere, se è proprio perché dubito che esisto?Sant'Agostino

Il criterio (il metodo) ha dunque trovato la sua prima evidenza. Ha trovato la soggettività singola come sostanza che dubita, ovvero, che pensa (res cogitas). “Penso dunque sono” non è una dimostrazione di alcunché. Non è un sillogismo. E’ solo ciò che resta tolte le polveri del dubbio. E’ un affermazione apodittica, chiara e cristallina che può solo essere accettata come vera.

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Possono non essere reali le cose che penso, ma reale sarà il mio pensare.  Le origini della strategia del dubbio metodico, sono certamente come detto già in Sant’Agostino. Per Cartesio non si tratta però di stabilire la presenza della trascendenza (Dio) nell’interiorità dell’uomo. Si tratta piuttosto di trovare nell’esistenza del soggetto pensante il fondamento della conoscenza umana. Il primo atto della conoscenza è l’affermazione del pensiero, dell’Io, come soggetto della ricerca. Il primo atto della conoscenza resta ancora il conosci te stesso socratico dunque.

La res cogitans evidente a se stessa, si erge allora a garante della validità della conoscenza dell’uomo e dell’efficacia della sua azione sul mondo.

Obiezioni mosse al Cogito ergo sum:

Le critiche alla strategia cartesiana arrivarono già all’indomani della pubblicazione delle sue principali opere. Riassumiamo di seguito le principali:

Circolo vizioso:

 La verità del Cogito dipende dal criterio dell’evidenza. La verità del principio d’evidenza non è tuttavia dimostrata ma solo assunta. Questa viene comprovata solo dopo aver trovato il Cogito come affermazione prima di qualsiasi possibilità di dubbio. Il criterio dell’evidenza fonda il Cogito il quale a sua volta fonda il criterio dell’evidenza.

Ok mi pare giunto il momento di farlo. No? No?!?! 😛

Cartesio risponde che il Cogito non è dimostrato dal principio di autoevidenza. Esso è il principio di autoevidenza stesso. Il soggetto lo possiede per il semplice fatto che è. Il Cogito è una struttura che si impone da sé in modo chiaro e cristallino. La sua esistenza non deve essere dimostrata, ma soltanto mostrata.

Sillogismo contratto:

Il sillogismo sarebbe il seguente:

Se il principio del Cogito fosse il risultato di un sillogismo in esso la premessa maggiore, non sarebbe ancora stata di dimostrata. Ciò renderebbe non verificata la conclusione. Anche in questo caso il problema è che il Cogito non è un ragionamento, ma un’intuizione immediata della mente.

La critica di Hobbes 

La critica di Hobbes potrebbe riassumersi nella seguente frase:

Penso sono un essere pensante e se passeggio? Sono una passeggiata?

Hobbes osserva che Cartesio nel suo ragionamento ha confuso l’azione (il pensare), con ciò che produce l’azione. Ovvero per Hobbes è possibile certamente dire che se un individuo pensa certamente esiste, ma è altrettanto evidente che non sia possibile spostarsi da questa verità. Ovvero asserire che siccome pensa è un soggetto pensante. Per analogia potrebbe infatti asserirsi che siccome passeggio sono una passeggiata.

Cartesio risponde che mentre l’atto del passeggiare non è essenziale per l’essere umano, il pensare è condizione definente. Mentre non passeggio sempre pertanto, penso sempre. Per questo motivo non sono un passeggiare”, un essere che pensa.

Dal Cogito all’esistenza di Dio: la seconda evidenza

Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane.

Il cogito non mi rende certo di null’altro che della mia esistenza. Restano ancora aperte le questioni di tutte le altre conoscenze, sulle quali pesa ancora l’ipotesi del Dio Maligno.

Io esisto come essere pensate. Esisteranno di necessità allora che le idee come prodotti del mio pensiero. Delle cose che penso tuttavia  sono certo che esistano solo nel mio spirito. La loro esistenza oggettiva non è infatti ancora dimostrata. Nulla può ancora escludere, per esempio,  l’altra grande obiezione, ovvero il fatto che io stia sognando. L’oggetto di fronte a me mi apparirebbe concreto e tangibile, ma un po’ come succede in Matrix, esso è il prodotto di un illusione della mente. Non sono affatto sicuro dunque che oltre a me esista anche la realtà che percepisco (res extensa).

Cartesio distingue tuttavia tre tipi di Idee quelle che mi sembrano innate, quelle che mi sembrano estranee ovvero venute da fuori (avventizie) e e quelle formate o trovate da me stesso (fattizie).

Per Cartesio innata è la capacità di produrre idee. L’idee non sono innate nel senso Platonico. Non c’è nessun contenuto che possa essere desunto al di là dell’esperienza, se non il Cogito stesso. Quest’ultimo è comunque legato all’esperienza del percepire. Tanto è vero che per individuarlo abbiamo dovuto mettere tra parentesi ogni forma di conoscenza. Alla seconda categoria appartengono le cose naturali, alla terza le idee delle cose inventate.

Bisogna domandarsi allora tra queste idee di quali possiamo dire che è certo che esistano. Questa domanda equivale al chiedersi la possibile causa di esse. Pare chiaro infatti che se un idea non è prodotta dalla mia mente (non è innata), dovrà necessariamente essere o immaginata (fattizia) o prodotta da altro (avventizia).

Dimostrazioni dell’esistenza di Dio

Tra tutte queste idee ve ne una che certamente non è stata prodotta da me. Dio infatti in quanto sostanza infinita, eterna, onnisciente, onnipotente e creatrice, non può essere una mia invenzione. Di fatti io sono privo della perfezione che quell’idea rappresenta. Sulla base del principio che il creato non può essere più del creatore, l’idea di perfezione non può essere sta prodotta da me. Se infatti avessi creato da me l’idea di perfezione avrei dovuto essere perfetto anch’io. Questo è grosso modo l’argomento principale delle tre prove dell’esistenza di Dio fornite da Cartesio, che riportiamo di seguito:

1) La causa di una sostanza infinita non posso essere io che sono una sostanza finita.  2) Se fossi la causa di me stesso, mi sarei dato la perfezione che concepisco come contenute nell’idea di Dio. 3) Il concetto di Dio presuppone la sua esistenza, in quanto se mancasse dell’esistenza non sarebbe più l’essere perfetto (prova ontologica).

Da Dio al mondo: Terza evidenza (res extensa)

Dimostrata l’esistenza di Dio, in quando ente sommo, onnipotente, onnisciente e bontà infinita, viene ottenuta l’ultima garanzia: essendo perfetto non può ingannarmi. La facoltà del giudizio non può indurmi in errore se viene adoperata nel modo corretto. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero. Il garante del criterio dell’evidenza è dunque l’esistenza di un’entità superiore. Dio è dunque per Cartesio quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze.

Stiamo per finire è quasi la tua ultima occasione! 🙂

Al di là dell’accusa di circolarità, già posta in evidenza, nell’autore si rivela tutto il travaglio del cambiamento. Questa difesa del criterio dell’evidenza risulta in effetti poco convincente e posticcia, dacché come l’autore stesso riconosce il criterio è autodimostrativo.

Il fatto che le tre evidenze siano poste in sequenza non deve trarci in inganno infatti. Le evidenze non scaturiscono le une dalle altre, ma hanno in loro la loro stessa ragion d’essere. Tuttavia occorre prima scoprire il Cogito per arrivare a scorgere l’idea di Dio come autoevidente e solo dopo apparirà la terza evidenza, il mondo come entità estesa altra dal Cogito. Il percorso da Dio al mondo puo’ essere riassunto così: a) Dio esiste e non mi inganna, b) la ragione è vera, c) le verità sul mondo sono attendibili.

La perfezione di Dio e l’errore umano

Ma se Dio non mi inganna e la ragione in quanto vera mi permette di cogliere con evidenza le cose conosciute, da cosa dipende l’errore?

Esso è un prodotto della libertà umana, che è assai più estesa che l’intelletto. L’Io può fare o non fare, affermare o negare, accettare o rifiutare le cose che l’intelletto presenta in modo chiaro. Gli altresì data la possibilità di creder per vere cose che l’intelletto gli suggerisce essere dubbie. In ciò consiste l’errore. Soltanto attenendosi alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell’evidenza si può evitare l’errore.

L’evidenza per riassumere mi ha permesso di eliminare il dubbio iniziale sulla realtà corporea delle cose. Io ho l’idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi. Questa mia supposizione mi appare evidente. Ho altresì dimostrato che ciò che percepito con evidenza è vero, deve necessariamente esistere un mondo fuori di me (res extensa). Ciò che è importante osservare è che per Cartesio percezione e intelletto sono in egual misura espressione del Cogito. Nella concezione cartesiana esiste dunque un dualismo tra sostanza pensante, consapevole e libera e sostanza estesa, inconsapevole e meccanicamente determinata.

 

Dualismo cartesiano:

La sostanza corporea non possiede tutte le qualità che noi percepiamo. Alcune di esse infatti sono quantitative (grandezza, figura, movimento situazione, durata numero) e appartengono alla sostanza estesa. Altre invece sono attributi soggettivi (colore, sapore, odore, suono ecc.) e appartengono al soggetto che la percepisce.

Se le due sostanze sono separate tra loro, com’è possibile nel corpo unificare la sostanza pensante (l’anima) con il corpo (sostanza estesa). Cartesio elabora la teoria della ghiandola pineale, concepita come l’unica sostanza del cervello che non essendo doppia può unificare le sensazioni che provengono dagli organi di senso.

La sostanza estesa: la fisica secondo Cartesio

La sostanza estesa viene concepita in forte analogia con la concezione galileiana di natura. Rappresenta infatti un ordine geometrico retto da leggi matematiche. Rispetto a Galilei Cartesio ebbe però il merito di canonizzare quello che passerà sotto il nome di meccanicismo e determinismo. I fenomeni naturali si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale che non lascia spazio a nessuna casualità. Tale necessità è di tipo logico-matematica.

La fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l’infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due soli ingredienti dell’estensione e del moto. Il mondo esiste come materia in movimento. Per dirla con Pascal al Dio di Cartesio basta aver dato il primo calcio al mondo; il resto va da sé. La materia è perciò identificata con l’estensione (la possibilità che ha una cosa di occupare uno spazio). Lo spazio è infinito, infinitamente divisibile, continuo e tali devono essere anche le qualità della materia, inoltre tutti gli altri attributi sono aggiunzioni operate dall’intelletto.

Due solo leggi governano l’universo: il principio di inerzia e il principio della conservazione della quantità di moto. Tutto entra in questo meccanicismo, ragione per la quale anche il corpo: lo stesso corpo dell’uomo è una macchina di cui la res cogitas si serve come di un proprio strumento.

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