I cavalieri dello zodiaco: L’infanzia che vorresti non finisse mai

Un post speciale vorrei dedicarlo a loro, l’anime più famoso degli anni ’80 i cavalieri dello zodiaco.

Per tutti sono famosi. Credo che chiunque abbia la mia età si ricordi dei 5 fanatici cavalieri. Pegasus forse un po’ eccessivo con il suo tipico presenzialismo, tonico, impulsivo, irascibile, romantico. Dragone etero amico, meditativo, deciso, giusto, Cristal il genio dei ghiacci, capace a sorpresa di essere risolutivo. Andromeda gentile, delicato, oscuro. Infine il suo alter ego Fenix cinico, nobile, efficace.

Come dimenticarsi dei temibili cavalieri d’oro, forti sopra ogni misura. Guerrieri nobili, tutti persi in un tempo senza tempo, romantici, invincibili. La saga dei cavalieri, la saga dei valori, del coraggio, della lealtà, dell’amicizia. La guerra e il dolore rappresentati come in un romanzo.

I Supereroi orientali

Gli eroi giapponesi hanno in comune tutti un percorso di crescita. Arrivano ai massimi livelli partendo dal punto più basso. E’ tipico delle storie orientali immaginare il protagonista, come il prescelto, e tuttavia inizialmente debole. Il percorso di crescita è in sé un percorso di conquista dei proprio poteri e direi anche acquisizione di consapevolezza di sé. Vale lo stesso per i cavalieri dello zodiaco. Cavalieri di bronzo, giovani e inesperti, chiamati a difendere niente di meno che una dea. Ultimi tra i loro pari. Capaci tuttavia di competere battaglia contro battaglia con i temuti cavalieri d’oro.

Qualcosa di più però mi lega a quel periodo. Fu l’estate del mio ultimo anno a Baida. La mia infanzia la passai lì. Ricordo ancora quando mio fratello tornò a casa a dirmi che loro erano diventati  cavalieri dello zodiaco. Io allora neanche sapevo chi fossero. Mi disse che per me avevano pensato al ruolo di Fenix. Fenix era un personaggio fighissimo. Fuori dai ranghi, solitario, ambiguo nel suo modo di arrivare alla cosa giusta.  Ero contento avessero pensato a me per quel ruolo. Anche se la vera ragione per cui lo fecero è che allora sembravo tanto schivo e solitario.

La mia infanzia con i cavalieri dello zodiaco

Il gioco in realtà finii con il prenderlo sul serio più io che loro. Mi piaceva forse l’idea di essere difeso da delle armature o forse l’idea di fare parte di un gruppo. Provai a credere fosse reale. Sapevo non lo era, ma volevo provare a credere che lo fosse. A quell’età si sa ci si riesce benissimo.

 Fu l’estate del gioco dallo “Zu sariddu”, un certo Rosario chiamato zio come forma di rispetto. Allora in periferia l’industrializzazione avanzava lenta e c’era ancora spazio per chi coltivava la terra e vendeva uova. Quella zona poi era ancora piena zeppa di alberi di mandarino. Insomma un’oasi verde di quelle che oggi puoi solo sognare in piena città.

Lo “zio” era in realtà solo un ostacolo  quotidiano da superare. Il nostro campo di allenamento per diventare cavalieri dello zodiaco era oltre il suo terreno e oltre il fiumiciattolo che ne segnava i confini. Non gradiva, non so perché, passassimo dal suo terreno.  Oltre c’era una steppa verde enorme adibita al pascolo. Il  tratto di terra era protetto dal demanio e oltre una certa linea non si poteva andare. Cominciava poco più in là infatti l’aeroporto militare e tutta la zona diventava off limits.

Questo spazio enorme di terra  fu il nostro parco giochi naturale. Quando ancora non c’erano video giochi e si era troppo piccoli per inseguire le ragazzine sulla via del centro. 

Come tutti i bambini avevamo la fissa delle case. Chissà perché da piccoli adoriamo l’idea di poterci fare della case praticamente dappertutto. Tende all’indiana, caverne, alberi, tutto diventa un pretesto per costruire una casa. Si tratta di luoghi simbolici, appartati, lontano dagli occhi dei grandi, segreti e protetti. Si da il caso che al centro del terreno si posavano tre grandi strutture tubolari. Erano concave all’interno abbastanza da permettere che ci entrassimo. Quelle divennero presto delle grotte perfette per adibire il nostro quartier generale.

I nostri eroi allora ci sembrava grandi. Oggi quasi mi viene da sorridere all’idea che non avessero più di quindici anni ciascuno. Cavalieri dello zodiaco ad ogni modo si diventava solo dopo un duro allenamento. E noi c’eravamo messi in testa di fare proprio quello! Passammo il tempo ad allenarci, a desiderare di crescere forti e capaci di combattere contro le ingiustizie. Eravamo io, mio fratello e un nostro amico delle elementari.  Phoenix, Pegaus e Sirio. Gli altri cavalieri dello zodiaco li avremmo rivisti solo a settembre con il rientro a scuola.

Giocavamo ad arrampicarci sui muri o gli alberi. Inventavamo “tridenti”, “asce” e “pugnali” con pezzi di ferro trovati qua e là. Ogni giorno ci inventavamo una complessa “prova” da supere. A chi saliva più su o saltava più giù, a chi dava il pugno più forte o stava a penzoloni sui rami degli alberi più a lungo…. Poi c’era una colonna enorme perfetta per il nostro racconto. Si trattava certamente di un torrione cui si adagiavano sopra le cisterne per l’acqua. La città qua e là ancora ne mostra tanti e allora molto più che adesso.

Dentro la colonna c’erano le nostre armature. Sarebbero saltate fuori solo quando fossimo stati in grado di abbatterla a mani nude.

Era tanto facile capire che il compito risultava impossibile quanto immaginare che li dentro sul serio ci fossero le nostre armatura. Era così evidente allora che non avremmo mai saputo cosa ci fosse dentro quella colonna da assicurare i nostri allenamenti per tutta quell’estate e quella dopo ancora, al punto tale che ancora desso a distanza di quasi vent’anni è facile per me immaginare che dentro quella colonna il segreto della nostra investitura a cavalieri dello zodiaco possa esserci per davvero.

Vedevamo nel nostro cartone scene di nocche sanguinanti, allenamenti in piena neve e il cosmo giungere all’improvviso a infiammare i pugni dei nostri eroi. Nelle fasi di allenamento in effetti qualche pugno giusto al muro fummo capaci di darlo, ma al primo cenno di dolore ci rivolgemmo all’ausilio del “tridente di Nettuno”. Un’arma fornita dalla dea Atene in persona, che avrebbe dovuto aiutarci nella missione. Fatto sta che somigliava tanto, ma proprio tanto, alla forcella di una vecchia bici girata, che noi impugnavamo al contrario.

L’ultima estate della mia infanzia la passai ad armarmi e provare a lottare

Avevamo finito le elementari e non sapevamo. Non immaginavamo nemmeno sarebbe stata l’ultima trascorsa tutti assieme. Mi ricordo l’ultimo giorno dei nostri allenamenti. Era ormai Settembre, il tempo suggeriva di interrompere gli allenamenti. Finalmente provammo a dirci che era tutto un gioco. Dovevamo crescere e crescere in fretta, perché da lì a poco sarebbe cominciata la scuola. Avremmo smesso di andare nella stessa scuola.  Io però non mi sentivo ancora pronto per crescere e per abbandonare i vecchi giochi. Infondo ero un anno più piccolo di loro, avendo frequentato senza un reale motivo la primina.

Il passaggio alla prima media fu meno traumatico del previsto. I professori presero il posto delle maestre. E la professoressa di Italiano, la Caponetto, ricordava proprio tanto uno dei personaggi del libro Cuore. Era austera, rigida, ma benevola e non faceva altro che riempirmi di complimenti. Aveva capito che tanta della mia insicurezza veniva dal fatto di essere di un anno più piccolo e probabilmente cercava amorevolmente di colmare quella lacuna.

Come finisce in fretta l’infanzia..

L’inverno però venne presto, troppo presto e giunse inaspettato. I bambini non conoscono il significato della parola “morte” e non riescono a capirla neanche quando provi a spiegargliela. Quando sei piccolo e muore un tuo caro non capisci bene cosa stia succedendo. Capisci dopo, vedi dopo gli effetti della tragedia. La morte annunciata quell’inverno arrivò presto a Maggio. Uno dei 13 zii del lato di mia madre era morto. La scuola però stava finendo, quegli ultimi giorni passavano distesi, mentre già i più sognavano le vacanze e il mare. Insomma lì per lì parve non succedere il bel resto di nulla.

Cambiammo però di lì a breve casa

Ci spostammo dall’altra parte della città, come se quella distanza fosse sufficiente a coprire il dolore, almeno fingere che fosse possibile ricominciare. Ventidue chilometri mi separavano dalla mia oasi, dai miei cartoni e dalla mia infanzia che finì di colpo, senza capire né come né quando e senza che abbia mai avuto possibilità per davvero di salutare i miei ricordi. Finirono feste, giochi, finì tutto. Le tenebre che avevano raccolto il dolore di mia madre, avvolsero tutto, infettando l’aria di marcio e putrefazione.

L’angoscia la riversai nei libri di scuola, nelle fidanzate che non arrivavano e nella mia debolezza.  Ero e restavo solitario, restio ad integrarmi. Ero e restavo Fenix. Mi ero aggrappato a quella immagine, come ad un film vecchio, ad una chimera che si sa perfettamente non esistere. Non erano più sogni, speranze o giochi, ma il simbolo di una forza che dentro sapevo di non avere, di un paradiso perduto per sempre.

Non ero più un membro dei cavalieri dello zodiaco. Chi vuoi che a quell’età rincorra ancora quelle folli fantasie. Ero solo come un cavaliere oscuro che ha perso tutti i suoi compagni in battaglia, solo a rovistare dentro le mie macerie.

Le tracce di un’antica memoria

Chissà quanti di noi possono con esattezza dire l’esatto momento in cui è finita l’infanzia. A quanti succede di poter definire il momento esatto in cui si è chiamati a crescere a cambiare. Si è chiamati a recidere di netto con il proprio passato per dimenticare, dimenticare un dolore tremendo che non è neanche il tuo e che ti è solo stato imposto.

Il terreno dello zu sariddu adesso non c’è più, al suo posto c’è un enorme palazzo residenziale. Al di là di esso però la zona demaniale è salva. Rimasta ferma nel tempo, come nelle mie fantasie. Tutto è ancora là al suo posto. Le grotte, i terreni sterminati, qualche ferro vecchio qua e il torrione con le nostre armature dentro. Il fatto che si erga ancora in piedi nonostante gli anni è certamente la prova che custodisce ancora il nostro segreto.

Torno e ritorno in quei luoghi come quando si va al cimitero a ritrovare le anime dei cari, a ricongiungersi con proprio passato per qualche po’. Il tempo passa miserevole con o senza di noi. Passa e si porta via tutto, ma qualche ricordo resta, qualche traccia di un’antica memoria.

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