I cattivi propositi dell’anima: la logica del dominio

La natura malvagia dell’ anima 

Siamo abituati a pensare che l’uomo sia un’animale sociale. Immaginiamo sempre la collettività come la nostra casa e tutte le aspirazioni all’individuale come potenzialmente nocive. In questa comunità tuttavia accettiamo il dominio del singolo, il suo strapotere. Legittimiamo quindi l’ingiustizia il disequilibrio e la schiavitù. 

La verità è che l’uomo non ha un’anima sociale, nel senso che è non predisposto alla comunità. Da questa dipende perché non autosufficiente, perché morirebbe se lasciato solo in un ambiente che gli è ostile. L’uomo detesta l’altro uomo, chi non ha appartiene al cerchio ristretto della sua comunità o al più ne è totalmente disinteressato.

L’uomo è un animale egoista che cerca l’altro con l’intinto primordiale di sottometterlo, di schiavizzarlo. Accetta la catena perché come vide bene Hegel teme la morte. La accetta perché ne capisce la logica, che condivide profondamente. La comunità è allora un recinto più che una casa. Lui esiste agli occhi del padrone solo come gregge. Il gregge infine è parte di un allevamento intensivo oggi giorno. Proprio come i polli stiamo dentro a delle gabbie minuscole con il cibo davanti a beccare tutto il giorno e cagarci intesta l’un l’altro.

E’ la sconfitta nella battaglia che termina la convinzione che l’anima debba essere buona, solidale e rispettosa del prossima. E’ importante sottolineare questo il valore deontologico di questa natura. Essa infatti si riconosce malvagia e peccatrice ab origine. Da cioè un valore negativo alla sua originaria intensione di sottomettere l’altro, in quanto adesso sottomessa. Il suo padrone ideale diventa allora il Dio buono, sommo bene, ed ella a lui si sottomette idealmente (come dire se proprio schiava debbo essere che almeno mi si tratti bene). A ben guardare non rinuncia neanche adesso alla logica del dominio, ne piega soltanto le circostanze a suo favore nonostante la sconfitta.

Succede, per effetto della disperazione, che tanti uomini in un medesimo tempo si lasciano andare lungo i sentieri della vita.

Accade che le anime rinuncino, desistano e infine si arrendano. Succede sin troppo spesso, in questo duello con la morte per la vita, che sia l’arresa dell’anima e non la vittoria a scongiurare la morte. Accade che la paura di morire domini sulla vita. Questi piccoli uomini, allora si cercano tra loro posti nei loro recinti come sono. Ma non si cercano perché animali sociali, ma perché incapaci di autonomia, di sostenersi con i propri mezzi. La natura li ha fatti incompleti non socievoli. Non gli resta infine che trovarsi un pastore e recitare rosari, invocando la redenzione.

 Rinnegano, così, l’originario proposito dell’anima di volere il proprio simile sottomesso a lui e persino morto. Adesso parlano di amarsi l’un l’altro, di porgere l’altra guancia e rinnegano la loro più intima natura di fronte ad un Dio che li viole malvagi e peccatori.

L’unica vera ragione per la quale l’ anima accetta di essere sottomessa è però che avrebbero voluto sottomettere a sua volta. 

Gli schiavi cercano pace e trovano guerra, scansano la vita, ma si  procurandosi la loro maledizione. Questi uomini nel loro gregge pascolano beati. Percorrono strade ben asfaltate, in degli orari prestabiliti. Si svegliano presto la mattina in cerca di attività che non hanno desiderato. Si guadagnano il pane con il loro sudore, abboccano all’amo del padrone, che li rende schiavi due volte: la prima quando li costringe a lavorare e la seconda quando li rende dipendenti dalle schifezze che il suo stesso lavoro produce.

Costoro confondono la realizzazione con il semplice movimento. Confondono la piena consapevolezza di sé, con l’occupare tempo, anzi meglio con il perderlo. Si fanno meschini a volte, oppure si sopravalutano o quel che è peggio sopravalutano i loro obiettivi, sino al punto dal confondere con il successo con il dominio. Essi divengono allora dei capò.

Esseri se è possibili ancora più vili dominanti dominatori, domati e asserviti.

Qualcuno in questa miseria accoglie il dolore e diviene anima pia. Questi sono meno inetti dei primi, nella loro miseria, hanno appreso l’essenza della loro paura. Hanno elevato la loro intima natura ad universale. hanno fatto della loro angoscia per il nulla e i quello stesso nulla il proprio Dio.

Questa è l’eterna lotta del simile con il simile. La condizione dell’homo homini lupus viene istituzionalizzata nelle gerarchie di potere, nella logica del schiavitù e del comando. Resta infine la peggiore delle specie da analizzare. La figura di coloro che non perdono e non vincono, perché neanche combattono. La razza degli uomini in cui paura e genio non si contraddicono, che indietreggiano di fronte l’ombra nera, ma non così tanto da cadere nel fosso. Costoro vedono la trappola del buon pastore e la giudicano migliore della lotta ma ad ogni ciglio di strada pretendono di correre indietro o di gettarsi via di lato per poi di nuovo proseguire.

In loro spirito riflessivo, li spinge ad introiettare il male, ad assumere in sé la colpa della loro debolezza e a santificare, solidificare, sostanziare un valore un ideale.

Nascono così i Santi e la loro fede diventa più convinta, quanto più si intreccia la matassa, più genuina quanto più forte è la voglia di evadere.

Pare però che tutti trascurino un fatto evidente, tutti trascurino che nessuno ha veramente vinto la paura della morte, che essa resta nonostante tutto l’unica malattia morale. Al genio morale, pare si prospetti sempre di nuovo lo stesso dilemma: vincere la morte è morire. Non c’è modo di simulare la battaglia, di scansare la morte e tutavia avere ragione su di essa. Non c’è utopia in questa visione, non c’è speranza, non c’è liberazione. Ogni altro argomento parrebbe illusorio, discrezionale. Ad ogni passo lo spirito ribelle si spegne e diviene vigliacco.

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