Pregiudizio eterno: il tempo dei gitani

Il nomade, l’apolide per antonomasia, è colui il quale, non possedendo una sua nazionalità è straniero dovunque vada, vittima di pregiudizio a prescindere dalla nazione. Egli non ha perciò una nazione che, forte o debole che sia, possa difenderlo nel consesso internazionale. E’ perciò mal  visto tanto nel paese d’origine, quanto nei paesi verso cui migra.  Per chi non lo sapesse, gli zingari furono infatti oggetto dell’impeto razziale nazista al pari degli ebrei, di cui ne seguirono la triste sorte. L’olocausto Rom è però meno famoso, perché probabilmente la comunità gitana non è in grado di dotarsi di sufficiente unità e forza politica per far pesare la sua voce. Interrogarci oggi sul rapporto con la diversità, con il pregiudizio etnico non può prescindere dalla questione Rom, dacché ultimamente sono diventati per l’ennesima volta facile bersaglio di un malessere sociale diffuso.

Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto.”

(Levitico 19:34)

 


Rispetto al concetto di straniero l’esperienze più complicata è rappresentata dall’incontro con lo “zingaro“.

Lui è l’assolutamente altro da noi, il ribelle che desiste a millenni di colonizzazione, che torna indietro alla preistoria dell’uomo, epoca nella quale l’uomo girovagava per la terra, raccoglieva ma non preparava la terra per la semina. Il Rom è orgoglioso del suo stile di vita e desiste alla colonizzazione culturale. Il nostro desiderio di aiutarlo è in effetti un condizionarlo nelle sue scelte. Lui prende da noi ciò che può, che gli serve, che gli interessa e scarta via tutto il resto. Ti usa, in un certo qual modo, come tu vorresti usare lui per sentirti più buono. Lo zingaro irride alla millenaria tradizione occidentale dello ora et labora.  Resiste alla passione per la servitù traghettata nell’idea che il lavoro sia strumento i emancipazione proletaria. Per lui il lavoro è una tra le forme di sostentamento non una ragione di vita. Per il gitano sono piuttosto fondamentali il legami familiari, tribali, le relazioni che scavalcato i luoghi e i contesti culturali dovo è insediato.

I suoi figli sono sporchi e camminano chilometri insieme a lui per la questua.

Non hanno esigenze particolari, stanno bene e vivono rassicurati dentro la comunità, con punti di riferimento adulti e molteplici. Lo zingaro non è mai solo dovunque si trovi. Traccia però un confine netto tra la sua comunità e tutto il resto. Tu sei il barbaro, il  gagé (non-zingaro), loro  sono gli uomini (“Rom” significa proprio uomo). Questo confine è invisibile, flessibile e tuttavia invalicabile: tu non sarai mai uno di loro. Forse loro sono considerati alla stregua di topi di fogna, ma resta il fatto, che per quanto ti lascino entrare nel loro mondo, tu non gli apparterrai mai sino infondo.

D’altronde mai imparerai a ragionare come loro. Incontrare il diverso significa nel loro caso, molto più che negli altri, sostare nella zona di confine “al di qua” dell’incontro. Loro resistono e li si può incontrare solo nel malinteso, ovvero, nella parola ambigua che parte detta in un modo e arriva con un’altro significato. Incontrarli significa allora tacere, ascoltare, accettare, imparare a vedere con occhi diversi. Questo e tanto altro ho conosciuto nella mia breve ma intensa frequentazione dei Rom qui a Palermo.

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[TheChamp-Caounter]

L’esperienza al Campo Rom di Palermo

Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo.

Tahar Ben Jelloun

Ricordo ancora il primo giorno che entrai la dentro: una volta vinti i timori e le perplessità è stato come farsi una doccia  fredda, un risvegliarsi improvviso. Fu come alcuni di noi hanno detto un aprire gli occhi. È molto complicato da spiegare perché all’inizio pensi le peggiori cose sui Rom. Le pensi anche quando pensi di non pensarle, anche quando ti riempi la bocca, se non la pancia, dei tuoi buoni propositi. Poi arrivi là i bambini che ti saltano addosso, le persone che ti vengono incontro tutte preoccupate di rimuovere i tuoi sicuri pregiudizi. “Noi non siamo così, noi non rubiamo” ti senti dire. In quell’esatto momento ti accorgi che sono persone e capisci quanto tutta la faccenda diventi più semplice (o forse più compilcata).

Giri nuovamente lo sguardo attorno a te e guardi meglio: spazzatura, baracche di amianto, cessi a cielo aperto, bambini scalzi, topi. Queste persone vivono nella loro stessa merda, cui probabilmente abbiamo aggiunto la nostra. Eppure dall’altro lato del campo a pochi metri comincia la civiltà,cominciano le case, gli asfalti, i semafori, le scuole. Comincia il perbenismo, comincia il senso di timore, l’egoismo, la superficialità, il pregiudizio. Poi vai avanti, conosci le persone, i luoghi, impari il loro modo di pensare e vedi che anche loro hanno forti e violenti pregiudizi nei tuoi confronti.

Pensate se non sembra surreale: anche loro pensano che tuoi li vuoi derubare.

Pensano che la nostra associazione abbia dei progetti finanziati dal comune o dalla comunità europea. Pensano che quei soldi siano destinati a loro e che non sia giusto che delle associazioni se li prendano per il loro scopi, per lucrarci sopra. Eccolo il malinteso per eccellenza: tu parli di aiutarli, loro capiscono che vuoi guadagnare sulle loro spalle e pretendono congruo compenso. “Noi non siamo così, noi non rubiamo” mi verrebbe da dire. Poi penso che da vent’anni tante associazioni sono passate da lì, tante hanno giocato con il loro bambini esattamente come abbiamo fatto noi. Allora tacciò. Quando dico “Noi” a nome di chi sto parlando? Mio? Del mio gruppo? Di noi palermitani? Degli italiani?Lì mi viene da pensare di non poter dire nulla, che non è vero che noi non rubiamo, che qualcosa gli abbiamo senz’altro rubato ed è la loro dignità di persone.

Lì mi viene da pensare che il comportamento dei miei pari, di chi mi ha preceduto, ha creato un muro, ha intessuto una trama, ha già raccontato una storia, prima di me, prima di loro, prima che io e loro ci incontrassimo. La storia ce la siamo già raccontata senza neanche conoscerci, senza neanche vederci, senza neanche presentarci.

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Ti ritorna in mente quel pensiero iniziale. Quella frase trattenuta tra i denti al primo incontro e che tanto ti aveva stordito: “Ma sono come noi!”. Si sono come noi e questo può essere un buon punto di partenza. Insieme a loro ho giocato, ho provato a fare quello che sapevamo fare meglio, educare i bambini. Ho studiato, ho discusso con loro e ho mangiato nelle loro tavole. Se mi chiedete tuttavia quanto conosco i Rom, adesso risponderei che non li conosco affatto. Adesso non risponderei nemmeno, mi verrebbe solo da pensare solo quanto sia stupida questa domanda. Non sono riuscito ad educare il loro bambini e a ben vedere non ne avevano affatto bisogno.

Nella loro comunità non ho trovato nessuno dei tratti tipici di un’infanzia disagiata, che pure avevo incontrato in altri contesti nelle mie precedenti attività di volontariato con bambini italiani. Sento che ci siamo solo incontrati, ma non ci siamo riconosciuti e in questo mancato riconoscimento, però abbiamo saputo “assaggiarci” a vicenda, provarci come si fa con le pietanze esotiche. Fu allora che dopo essere passato per il reparto di psichiatria in Romania, maturai l’idea che forse più che educare i bambini in modo da farli crescere come buoni adulti, l’intervento più “neutro” che si potesse fare fosse risolvere i loro bisogni materiali a cominciare dalla sanità, dalla scuola e dal lavoro. Per questi tipi di obiettivi il nostro gruppo di volontariato non era adatto, ma dentro me passavo dall’idea di “insegnare” all’idea di “curare” e di lì a poco mi sarei iscritto ad infermieristica.

 

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