Etica e morale. Felicità o senso del dovere?

[su_spacer]Etica o morale?

In ambito pratico la prima distinzione da fare è tra approcci edonistici e deontologici. La prospettiva può essere etica o morale. La distanza è tra coloro che pensano che il fine dell’attività dell’uomo sia la felicità e coloro che pensano al contrario che l’azione umana debba essere orientata al dovere. Tutte le visioni classiche sono grosso modo edonistiche. Dal cristianesimo in poi viene introdotta la Legge, o Verbo, intesa come emanazione di un’autorità divina. In quanto parola rivelata Essa crea la distinzione tra bene e male e con essa il peccato. Detto banalmente per un Greco se commetti il male sei uno stupido, perché non stai facendo i tuoi propri interessi. Dal cattolicesimo in poi se commetti un male sei un peccatore.

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La felicità

Per i Greci la felicità era intesa come realizzazione della propria natura. Quella della sedia consiste nel far sedere. Quella  dell’essere umano nel fatto che usi la ragione, in quanto egli è un animale razionale. La felicità per i cristiani è piuttosto una chimera, rimandata ad un al di là da venire. La condizione umana vive infatti una originaria lacerazione frutto del peccato originale. Lacerazione cui può solo giungere la Grazia divina a porvi rimedio.

L’adesione alla legge divina è un fine in sé che non necessariamente conduce alla felicità. Nasce così l’idea che l’adempimento del proprio destino, l’assoggettamento al dovere sia un fine in sé. Kant giungerà a modificare l’origine di tale dovere, che comunque resterà la voce interiore della ragion pura pratica. Non toccherò però l’impianto centrale di questa costruzione.

Per i greci bisogna educare il singolo a soppesare correttamente i beni. Bisogna allora scartare  un bene effimero e immediato in vista di un bene duraturo. L’etica è perciò paideia, attitudine al bene. La visione conciliata dell’io con la comunità, del particolare con l’universale, del bene nell’azione concreta con l’idea del bene in sé è tipica del mondo classico. L’azione riparatrice dell’atto ingiusto è perciò la condanna del singolo, l’espiazione è un atto che la comunità opera sul singolo per riparare il torto subito. La morte spesso è la giusta condanna per il potere catartico e purificatore che essa ha in sé. E’ perciò un etica della responsabilità potremmo dire.

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La scissione o separazione dei due lembi nasce già con la crisi dell’ellenismo. Questa riduce l’uomo greco allo sgomento, al mutismo dell’afasia, all’assenza di passioni dell’atarassia e all’impossibilità di emettere giudizi certi dell’epoché. La comunità entra in crisi e sorgono maestose le individualità cosmico storiche, prime fra tutte quella di Alessandro Magno.

Il peccato e il perdono

La lacerazione tra Io e Comunità non può essere più risanata in questo mondo. La giustizia non è cosa terrena e viene rimandata in un ipotetico aldilà riparatore. Sarà il cristianesimo affermatosi tra le filosofie pratiche post-elleniche a risolvere il problema dal lato dell’universale. Da una parte verrà posto Dio, atto puro, sommo bene, verità assoluta, dall’altra, la materia, potenza pura, fonte di inganni e peccato. Infine in mezzo l’uomo che con le sue scelte può o tendere alla carne o aspirare al cielo.

L’azione riparatrice della violazione della norma, intesa appunto come peccato, è questa volta il pentimento del singolo e il perdono della comunità. La punizione inflitta al singolo non ha più lo scopo riparatore, ma è intesa come mezzo di redenzione dal peccato. La comunità che a posto la propria essenza fuori da sé in un Ente supremo si aspetta che l’essere Bontà Somma grazi sempre il condannato a patto che questi mostri reale pentimento. L’etica con cui abbiamo a che fare stavolta è perciò un etica intimistica. Solo il diretto interessato può sapere se è realmente pentito e solo ogni singolo membro della comunità sapere se ha realmente perdonato. Tutto si gioca dentro l’interiorità dell’uomo, che è anche il luogo dentro il quale egli può ascoltare la sua coscienza.

Il peccato originale, cos’è davvero?

Il vero peccato è tuttavia la singolarità stessa. Il male altro non è che la separazione dal bene prodotta dalla sua stessa condizione di finitudine. L’uomo non può non peccare, in quanto non può non esistere. L’esistenza stessa in quanto possibilità è scissione e separazione. Questo concetto pare frustrante, l’idea che qualunque cosa facciamo sbagliamo può non piacerci. Nasce tuttavia dal fatto di aver posto al di là da noi un bene assoluto,. Questo proprio perché posto al di là è irraggiungibile finché siamo di qua, ovvero sulla terra.

Prendiamo per esempio l’estremo dell’azione considerata giusta senza ombra di dubbio, ovvero, l’aiuto del prossimo. In quanto esseri finiti non possiamo aiutare tutti, ma solo alcuni e nel farlo dobbiamo operare delle scelte. Perché aiutare i bambini in Africa piuttosto che i barboni a casa mia? Perché preferire i rumeni, piuttosto che i bambini orfani del Perù? La mia scelta produce un beneficio ai primi, ma un torto a tutti gli altri.

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E’ francamente ingiusto che mentre io riesca a nutrire di tutto punto il bambino della tribù dove alloggio, quello a due chilometri distante da me stia letteralmente morendo di fame. Non trovate surreale che ci sia gente che si prodiga per salvare cani e gatti e non muova un dito per bambini e adulti? Il loro gesto è cattivo in sé o cattivo solo in relazione al tutto che tuttavia ho posto quale misura del mio bene?

Il male non è una scelta, è la scelta il male.

Il peccato in questo senso non è nelle mie azioni, ma nel fatto che l’abbia scelta. La scelta stessa è poi risultato della mia finitudine. Non essendo onnipotente infatti non posso aiutare tutti. Il peccato in altre parole risiede nel mio libero arbitrio. Non è dunque tanto il fatto che abbia scelto deliberatamente di allontanarmi dal bene che ha prodotto il male. E’ piuttosto il fatto che abbia scelto qualcosa che ha incrinato la compattezza e uniformità del tutto, producendo la differenza e l’estraneazione.

Il sorgere dell’uomo come possibilità cosciente è il sorgere del male. Eccola là dispiegata la condizione intrinseca di peccatore. Il seme del peccato originale è questo. Se pecco persino rispetto ad un atto di generosità assoluta figuriamoci in tutte le mie azioni ordinarie. La riconciliazione non è pertanto possibile nel mondo terreno. E’ rimandata piuttosto ad un’aldilà e offerta solo come grazia.

Il bene assoluto e il meglio oggettivamente possibile

La visione cristiana infine presupporre che esista da qualche parte in astratto un’idea di bene universale, di bontà infinita. Quella razionalistica di matrice classica al contrario considera che il buono e il giusto esistano solo nel momento in cui si realizzano nell’azione. Capite la differenza? Nel primo caso, come visto, l’azione produce in sé l’errore perché commisurata ad un bene sommo. Nel secondo caso giusto e sbagliato possono essere definiti solo rispetto all’azione concreta.  In questo caso si presuppone che esista un meglio oggettivamente possibile e non un bene in sé.  

La prima prospettiva è universalistica e delimita il cosiddetto punto di vista morale, la seconda definisce invece il punto di vista etico.

Fonte di legittimazione in quest’ultimo caso è la ragione, nel primo l’autorità morale o divina. Nel primo caso tra i due mali bisogna calcolare quale sia il minore, o tra i due beni il maggiore. Nel secondo caso esiste una legge divina rivelata tramite i dieci comandamenti che ci dice cosa è giusto e cosa e sbagliato.

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Da un punto di vista morale uccidere è sempre sbagliato, da un punto di vista etico in alcuni casi il male minore può essere proprio uccidere. Si aprono così gli infiniti dibattiti sul diritto all’aborto, l’eutanasia, la legittimità della guerra, della tortura se può impedire attentati e così via. Dibattiti che alla luce di quanto detto sin’ora sono il risultato di uno scontro tra diverse visioni del mondo. Risultano da un conflitto tra punto di vista morale e punto di vista etico.

La morale kantiana è un compromesso all’etica?

Una buona alternativa ad entrambi i punti di vista è invece la morale kantiana, che di fatto sintetizza i due approcci. Quest’ultima  sostiene che quanto alle nostre scelte dobbiamo lasciarci orientare dal criterio della pura ragione pratica. Kant in altre parole parte dal presupposto che l’azione umana sia rivolta non alla felicità, ma alla realizzazione della legge morale. L’unico sentimento associato a quest’ultima è dunque quello del dovere per il dovere ovvero del “puro dovere”. L’adesione alla norma morale produce in noi un sentimento di realizzazione personale. Questo sentirsi apposto con la propria coscienza è l’unico sentimento che può accompagnare l’atto morale senza tuttavia determinarlo.

 Se la forma universale dell’Io in ambito teoretico era l’Io penso, in ambito morale allora la forma del puro volere sarà il “Tu devi”. Il Tu-devi non ha però un contenuto specifico, ma quest’ultimo va volta per volta individuato nelle situazioni concrete e partire dalle proprie massime d’azione. In questo modo la prospettiva universalistica e conciliata con quella etica. Il criterio con il quale possiamo volta per volta decidere cosa è giusto (o anche razionale) fare è quello dell’universalizzazione: “Agisci in modo che la massima delle tue azioni, valga in ogni tempo e in ogni luogo come principio di legislazione universale”.

I cento talleri, qualcuno ha veramente capito l’esempio?

Universalizzare significa dunque elevare la massima d’azione a legge universale. Cosa vuol dire in concreto? Poniamo che sia tentato di rubare un deposito lasciatomi in consegna. La domanda che immediatamente debbo pormi è:  posso io per appropriarmi di una somma di denaro lasciatami in custodia (i famosi cento talleri di cui parla Kant)? Detta in altre parole posso io rubare nella condizione specifica in cui qualcuno mi lasci in custodia del denaro?

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Cosa mi suggerisce di fare però la legge morale? Essa mi chiede di universalizzare i miei propositi, dargli cioè la forma del “Tu devi”. La legge suonerebbe più o meno così: “Ogni volta che qualcuno ti da in deposito una somma di denaro, tu devi appropriartene”. Capire cosa succederebbe se valesse una simile legge diventa facile: chi sano di mente mi darebbe più in custodia una somma di denaro, sapendo già che devo rubargliela?  La massima d’azione nella sua forma universale elimina le condizioni del suo stesso porsi, si dice cioè che contraddice se stessa Se valesse non esisterebbe più il deposito e dunque nemmeno la possibilità di rubarlo, ciò vuol dire che la legge che dovrebbe essere sempre valida non potrebbe mai essere applicata.

Perché oggi non è più possibile adottare un punto di vista etico?

La prospettiva etica era particolarmente calzante in un mondo conciliato con sé stesso. L’idea che per agire debba commisurare interessi tra loro porta inevitabilmente a chiedersi: gli interessi di chi? I miei o dell’altro o della comunità? Se per arricchirmi intendo seppellire a chilometri di distanza materiale tossico sto facendo i miei interessi? Probabilmente il materiale resterà lì tanto a lungo da non costituire un problema nemmeno per l’intera generazione in vita. La risposta inevitabile è che quello per il singolo è un interesse oggettivo. Così come lo è scavalcare il prossimo nella eterna lotta per l’ascesa al potere.

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In altri termini, agire sulla scorta dei propri convincimenti personali per l’uomo Greco significava immediatamente realizzare anche l’universale. Per noi come visto le cose stanno diversamente: pare proprio che realizzare la nostra individualità significhi sempre “peccare” contro l’universale, contraddire lo spirito comunitario. La prospettiva etica ha dunque ceduto storicamente  il passo, nella misura in cui l’individuo s’è scoperto scisso dalla comunità.

Conclusioni

Dall’altro lato, però, oggi prospettive universalistiche compiute sono altrettante chimere. Il percorso di umanizzazione del sapere, cominciato con la modernità ha di fatto destabilizzato il fondamento. Se Dio è morto insomma cosa resta del punto di vista morale? L’idea stessa che possa esistere un bene in sé è oggi vissuto come un che di altamente improbabile. Anche deontologizzando il concetto di “bontà infinita”, sottraendolo cioè della pretesa di un esistenza reale, resta comunque il fatto che non può esistere un bene valido in ogni tempo e in ogni luogo. Il criterio di universalizzazione è certamente ancora ‘unico compromesso possibile. E’ tuttavia un compromesso un po’ zoppo.

Universalizzare è comunque un violare l’individuale, un costringerlo alla forza delle legge. La conciliazione tra particolare e universale, cruccio dell’età moderna, è più un “arrangiare” volta per volta questo a quello. Resta comunque la scelta di fondo se essere socratici o cristiani, razionalisti o fideisti e dunque, se optare per un approccio morale o un approccio etico.

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